da https://jacobinitalia.it/flat-tax-disuguaglianze-e-le-tasse-dei-futuri-governi/
Lo scoppio della crisi di
governo sembra destinata a imporre uno stop ai progetti di flat tax, cardine della campagna
elettorale del centrodestra e anche del successivo contratto di governo.
Eppure, che si vada a una campagna elettorale lampo, o che si configuri invece
un governo più o meno “del presidente” per affrontare la finanziaria, il tema delle
tasse – e della distribuzione del carico fiscale fra i diversi gruppi sociali –
rimarrà cruciale. Che si tratti di disinnescare l’aumento dell’Iva o di fare
una riforma dell’Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche), si tratta
di misure di fondamentale rilevanza economica e politica.
In Italia – è bene dirlo
subito – i lavoratori dipendenti e quelli che dichiarano regolarmente i propri
guadagni pagano tante imposte, troppe secondo alcuni. Sarebbe davvero
importante una seria riforma fiscale che, oltre a ridurre drasticamente
l’evasione fiscale, riduca il carico delle imposte per i lavoratori
redistribuendolo sui più ricchi, rafforzando la progressività delle imposte nel
suo complesso che è oggi lontana da ciò che richiedono le crescenti
disuguaglianze economiche. Invece, da mesi, il tema è
monopolizzato dalla cosiddetta flat tax, la quale
avrebbe risultati opposti.
La strana storia della flat tax
In teoria, stando al
significato letterale dell’espressione flat tax (e alle
proposte presentate dalle diverse forze di centrodestra, ma anche da un think
tank neoliberale come l’Istituto Bruno Leoni), si tratterebbe
di un’imposta con aliquota unica per tutti i redditi – o per quelli al di sopra
di una certa soglia di esenzione.
In pratica, si riferisce a
una non meglio specificata e incerta riforma dell’Irpef .
Obiettivo dichiarato è ridurre il numero di aliquote – e in particolare
eliminare quelle più elevate.
In un clima di totale
incertezza sulla proposta effettiva di riforma appare utile affidarsi
all’ipotesi di “quasi flat tax” contenuta
nel contratto di governo gialloverde. Secondo
questa proposta, si prevedono due aliquote marginali, del 15 e del 20%. La
nuova imposta si applicherebbe al reddito familiare con una deduzione di 3.000
euro per ogni componente familiare. Anche se non direttamente specificato,
alcune dichiarazioni pubbliche di esponenti della Lega hanno lasciato intendere
che l’aliquota del 15% si applicherebbe fino a 80 mila euro di reddito familiare e
quella del 20% per tutta l’eccedenza. Oggi, invece, l’Irpef si applica sui
redditi indivuali e
si basa su 5 aliquote marginali che vanno dal 23% per i redditi sotto i 15 mila
euro, al 43% per i redditi superiori ai 75 mila euro.
Può essere utile un esempio
partendo dal rapporto annuale Inps2019 che ha messo in
evidenza come, negli ultimi trent’anni, la crescita dei redditi si sia
concentrata principalmente sui lavoratori dipendenti privati italiani con super-stipendi (quelli oltre i 530
mila euro annuali). Con 530 mila euro di stipendio si versa oggi il 23% sui
primi 15 mila; 27% sui successivi 13 mila; e via così, fino al 43%, applicato
solo sui redditi guadagnati al di sopra della soglia di 75 mila euro. In
totale, non considerando le addizionali regionali e comunali, l’imposta Irpef
che dovrà essere versata da una ipotetica fortunata dipendente ammonterebbe a
poco più di 220 mila euro. Con la “quasi flat tax” contenuta
nel contratto di governo, le imposte dovute dalla nostra stessa ipotetica
dipendente (single e senza figli per semplificare) diminuirebbero di più della
metà, a circa 102 mila euro. Il risparmio netto sarebbe di circa 120 mila euro.
Non male, considerando che il suo ipotetico collega (anche lui single e senza
figli) con un reddito annuale di 23 mila euro risparmierebbe solo circa mille
euro.
Questo non è tuttavia l’esito
inevitabile di una riforma che alleggerisca il peso del fisco sui lavoratori
italiani. In teoria, la stessa flat tax si
potrebbe strutturare mantenendo, o anche aumentando, i livelli di progressività
dell’attuale Irpef – lo mostrano con semplicità ma rigore gli
economisti Baldini e Rizzo in un libro uscito pochi mesi
fa, che fa anche il punto sulle proposte in campo in Italia. Sempre in teoria,
si potrebbe anche disegnare una flat tax che non
modifichi il gettito fiscale. Nella pratica del governo gialloverde la proposta
mira esplicitamente a ridurre drammaticamente sia la progressività delle
imposte, sia il gettito fiscale. Oltre agli enormi effetti redistributivi di
questa riforma a favore dei ceti forti, il problema è il costo esorbitante,
secondo diverse stime pari ad almeno 50-60 miliardi di euro. Tutto questo,
finora, senza venir meno ai vincoli europei, e della nostra carta
costituzionale, sulla spesa pubblica. Abbassando le imposte sul reddito
bisognerà dunque introdurre altre imposte o necessariamente, come solo
l’Istituto Bruno Leoni ammette, effettuare tagli draconiani alla spesa pubblica,
riducendo ulteriormente i fondi per sanità, istruzione, edilizia pubblica e via
dicendo. Rimane dunque doveroso chiedersi: quali spese si vogliono tagliare?
Quali tasse e imposte aumenteranno? Certo, se il governo compensasse lo sconto
sull’Irpef riducendo sostanzialmente i regimi fiscali di favore attualmente
previsti per le rendite finanziarie o i trasferimenti di ricchezza come i
lasciti ereditari e le donazioni, le conseguenze distributive e per i conti
pubblici sarebbero complessivamente meno preoccupanti; ma non abbiamo sentito
parlarne da nessun esponente del governo. Anche per questo motivo, non sembrano
esistere soluzioni convincenti per disinnescare un ulteriore sostanzioso
aumento delle aliquote Iva per circa 23,2 miliardi di euro – già pianificato
nei documenti ufficiali del governo inviati alla Commissione Europea – che potrebbe
avere effetti distributivi ancora più pesanti. L’imposta sul valore aggiunto –
Iva – si applica infatti a tutti i consumi e gli acquisti, e dunque colpisce di
più chi è costretto a consumare la maggior parte del proprio reddito: le fasce
più deboli.
Le ipotesi alternative
Dovendo già reperire 23,2
miliardi di euro, ogni costo aggiuntivo legato alla riforma del fisco, appare
particolarmente irrealizzabile per l’attuale governo. Dati questi vincoli
stringenti, si è cominciato, dunque, a discuter di altre ipotesi, più
sbrigative e forse temporanee, al fine, sembra, di cogliere due piccioni con
una fava: avviare la riforma, o quanto meno comunicare all’opinione pubblica di
averlo fatto, e non pesare troppo sulle casse dello Stato.
Tra queste ipotesi alternative,
vi è quella della Lega di tassare il reddito familare al 15%
fino a un totale di 55 mila euro. Se il reddito familiare superasse questa
soglia non appare però chiaro cosa fare, e si è proposto semplicemente di
lasciare intatto il regime Irpef attuale. Quest’ipotesi, oltre a creare un caos
fiscale, favorirebbe i nuclei monoreddito e
disicentiverebbe la dichiarazione di redditi superiori ai 55mila euro (con
ripercussioni negative sugli incentivi alla partecipazione delle donne alla
forza lavoro). Il costo dell’opzione con due scaglioni e due aliquote, inclusa
nel patto di governo, è stimato dalla Lega in circa 12-15 miliardi di euro. Potrebbe
costare fino 17 miliardi come stimano Baldini e Rizzo.
Più di recente ci si è invece
concentrati su un’ulteriore proposta, radicalmente diversa e alquanto inusuale.
L’aliquota unica del 15% si applicherebbe non sul totale dei redditi, ma solo sui redditi aggiuntivi dichiarati fra un anno e
l’altro. Continuiamo l’esempio precedente, con la nostra
dipendente privata che dichiara 530 mila euro all’anno. Se riuscisse il
prossimo anno a incassare 100 mila euro in più, pagherebbe su questo reddito
addizionale solo 15 mila euro di imposte aggiuntive – anziché 43 mila, come
attualmente previsto. Questa misura, permetterebbe al governo di sbandierare la
riforma del fisco senza sforare i vincoli di bilancio – in quest’ultima versione,
la riforma costerebbe appena 2 miliardi. Tuttavia, questa mini riforma
intaccherebbe drammaticamente la progressività delle imposte, facendo diventare
quella principale – l’Irpef – regressiva. Si favorirebbe, inoltre, chi può
decidere, più o meno legalmente, di dichiarare di meno quest’anno al fine di
usufruire di un sostanzioso sconto l’anno prossimo. Inoltre, se questa riforma
fosse temporanea, sarebbe solo un regalo per pochi, pagato da tutti. Si
permetterebbe, infine, a persone che guadagnano lo stesso reddito di pagare
imposte diverse, violando il principio dell’equita’ orizzontale di
trattamento.
Un’altra ipotesi, avanzata
dal M5S, prevede tre aliquote e non una o due: un’aliquota al 23% fino a 28
mila euro, 37% da 28 a 100 mila, e 42% oltre. Quest’ipotesi appare più
ragionevole, e avrebbe effetti redistributivi più omogenei fra le classi di
reddito. Tuttavia, ha un costo stimato in circa 23 miliardi di euro. Il costo
si potrebbe ridurre significativamente abrogando il bonus fiscale di 80 euro in
busta paga (costo stimato a circa 9 miliardi), come infatti si è discusso negli scorsi giorni, ma questo
rende la proposta politicamente inaccettabile, perché tutti i redditi inferiori ai 20mila eurofinirebbero per pagare più imposte.
Questo esempio solleva
l’importante tema degli effetti distributivi dell’attuale e complesso sistema
di esenzioni, deduzioni familiari, detrazioni e regimi speciali. Ad esempio, a
seguito della ristrutturazione della prima casa si possono oggi chiedere
detrazioni fiscali, che rappresentano una riduzione delle imposte da pagare
negli anni successivi. Allo Stato, queste detrazioni costano circa 8 miliardi
di euro. Nel suo complesso, invece, il sistema di tutte queste cosiddette
“spese fiscali” vale circa 130 miliardi di euro – ed
è qui che il governo pensa di attingere per trovare, in parte e come illustrato
per l’esempio del bonus 80 euro, le risorse necessarie a finanziare la riforma
del fisco.
Tuttavia, secondo uno studio della Corte dei Conti, il 62,5%
delle spese fiscali si concentra principalmente sulle fasce di reddito più
basse, quelle con redditi inferiori ai 28 mila euro. Eliminare o ridurre alcune
di queste spese fiscali si può, ma bisognerebbe scegliere con cautela per
evitare un costo redistributivo ancora più alto.
Tassazione progressiva e
stato sociale contro le disuguaglianze
È importante comunque
ribadire che, se nella Costituzione si è voluto inserire il sacrosanto
principio della progressività delle imposte, è perché il sistema delle imposte
e dei trasferimenti (nel gergo economico tutto ciò che i cittadini ricevono
dallo stato, in denaro o “natura”) gioca un ruolo cruciale nella
redistribuzione dei redditi e della ricchezza, nella riduzione delle
disuguaglianze. Ce lo insegna la storia: tra la prima e la
seconda guerra mondiale, sono stati gli Stati Uniti a guidare l’introduzione,
in tutte le economie occidentali, di imposte sui redditi estremamente
progressive, mirate tra le altre cose anche a finanziare misure di sicurezza
sociale come pensioni di disabilità, anzianità e disoccupazione. L’Italia ha
seguito, con un certo ritardo, quest’onda, introducendo solo nel 1973 l’Irpef,
e istituendo solo nel 1978 il Sistema Sanitario Nazionale.
Progressività e stato sociale hanno contribuito enormemente al grande calo
delle disuguaglianze, sperimentato dalla gran parte dei paesi europei nei
cosiddetti “trenta gloriosi” seguiti alla seconda guerra mondiale; appena pochi
anni dopo, Reagan e Thatcher lanceranno la controffensiva contro imposte e
welfare, e le disuguaglianze torneranno ad aumentare.
Ma come funziona la
redistribuzione? In primo luogo, alterando meccanicamente la distribuzione dei
redditi, così come generata “spontaneamente” dal mercato. Un sistema che
preveda di aumentare proporzionalmente l’imposta all’aumentare del reddito,
prende di più a chi ha di più; allo stesso tempo, lo stato sociale
redistribuisce queste risorse tramite benefici monetari, come le pensioni, ma
anche con l’erogazione gratuita di servizi pubblici (sanità, istruzione, mense
scolastiche, alloggi popolari, infrastrutture). È bene ricordare infatti che è
scorretto e incompleto parlare di imposte senza capire le spese che si vogliamo
finanziare, le destinazioni finali di utilizzo delle risorse. Questi
trasferimenti andranno, almeno in teoria, in misura maggiore a chi ha di meno.
La disuguaglianza dei redditi disponibili –
quelli che i cittadini si trovano in tasca dopo questo doppio intervento dello
Stato – sarà dunque minore di quella dei redditi prodotti nel mercato. Quanto
assomiglia la realtà alla teoria? Come dimostra la figura, tratta dalle15 Proposte per
la Giustizia Sociale del Forum Disuguaglianze e Diversità,
ovunque nel mondo la redistribuzione riduce le disuguaglianze – e lo fa
maggiormente in quei paesi dove le tasse sono progressive e il welfare
universalistico e generoso. In Svezia, ad esempio, l’indice di Gini – che segna
0 nel caso in cui tutti i cittadini guadagnano la stessa cifra, e 100 nel caso
in cui un solo ricco concentra tutto il reddito nelle proprie mani – scende da
43 a 27 grazie all’azione dello Stato. Anche in Italia, con tutti i limiti ben
noti, le disuguaglianze sarebbero molto peggiori senza il ruolo della
tassazione e della spesa pubblica: se il mercato genera disuguaglianze uguali a
quelle statunitensi (Gini di 51), da noi lo Stato le porta più vicine ai
livelli nordici di quanto non faccia oltreoceano (33 contro 39).
La redistribuzione non è
più quella di una volta
Questa forza redistributiva,
tuttavia, si è ridotta enormemente negli ultimi decenni in buona parte dei
paesi avanzati. Secondo uno studio Ocse,
ancora negli anni Ottanta circa il 50% delle disuguaglianze di mercato venivano
ridotte dall’intervento governativo; oggi la riduzione sarebbe appena del 25% –
addirittura 15% negli Stati Uniti, un tempo avanguardia della progressività.
A determinare questo calo è
stata in primo luogo la minore generosità dei trasferimenti monetari previsti
dai diversi sistemi di welfare, così come la loro minore copertura, e
l’introduzione di criteri sempre più stringenti per avere accesso a questi
trasferimenti. Nel caso britannico, ciò è avvenuto in forme odiose come quelle
raccontate da Ken Loach in Io, Daniel Blake. Il film racconta la
tragica storia di un falegname cardiopatico che, dopo aver fallito uno degli
invasivi test per verificare il diritto all’assistenza sociale, è costretto a
un’odissea nella burocrazia per cercare di riottenere il suo sussidio alla
disoccupazione. Le proiezioni del film hanno accompagnato da allora le campagne
del Labour
Party, determinato con Jeremy Corbyn a riavvolgere il nastro delle
drammatiche riforme avviate dalla Thatcher e proseguite con il “new Labour”; ma
l’arretramento del
welfare non è avvenuto solo oltremanica.
A far aumentare le
disuguaglianze è stata anche la riduzione della progressività fiscale.
Economisti come Thomas Piketty hanno denunciato il crollo in particolare delle
imposte sui redditi più alti – che come abbiamo visto nel primo grafico, in
paesi come Regno Unito e Stati Uniti superavano il 90%. In Italia, dal 1974 si
sono ridotti sia il numero degli scaglioni (addirittura 32 nel disegno originale) che le
aliquote – quella massima era in origine al 72%. Tuttavia, sempre secondo una
simulazione di Baldini e Rizzo, non è detto che la progressività complessiva
sia diminuita rispetto ad allora. È infatti importante capire che non è solo
l’aliquota massima, quella sull’ultimo euro guadagnato, a determinare la
progressività, che dipende dalla struttura complessiva dell’imposta – e cioè
“dettagli” cruciali come le soglie da cui queste aliquote si applicano, o il
complesso sistema di esenzioni, deduzioni e detrazioni. Ad esempio, nel 1977,
erano appena 23 i contribuenti che dichiaravano oltre 500 milioni di lire
(equivalenti a circa 2 milioni e 120 mila euro tenendo anche conto
dell’inflazione), e che pagavano davvero il 72% di aliquota marginale; e se
escludiamo i circa 20 mila “paperoni” che dichiaravano almeno 40 milioni di
lire (circa 170 mila euro a prezzi odierni), l’aliquota massima era
effettivamente al 42% – meno di oggi. Certo, l’allora 41enne Silvio Berlusconi,
coi suoi circa 304 milioni di lire di imponibile dichiarato (circa 1 milione e
300 mila euro a prezzi odierni), arrivava a essere soggetto all’aliquota
marginale del 64%: non a caso, di lì a poco, sarebbe stato il primo politico a
parlare di flat tax in Italia.
Cosa stiamo tassando?
Soprattutto, ai fini
distributivi, non è importante che una sola imposta – pure importante come
l’Irpef – sia piatta o progressiva. Ciò che conta è la progressività del
sistema fiscale nel suo complesso. Idealmente, anche se non tutti concordano,
potremmo avere un’unica base imponibile composta
dal totale dei redditi percepiti da una persona come il salario, il rendimento
di Bot o azioni, l’affitto percepito come proprietario di immobile, e via
dicendo. Anche solo concentrandosi sui redditi, e lasciando fuori le imposte
sui patrimoni, ciò permetterebbe di identificare con maggiore precisione e
semplicità la capacità contributiva dei diversi
individui. Citando ancora Baldini e Rizzo, «L’imposta personale è un elemento
di grande civiltà nel sistema fiscale di un paese, poiché permette di definire
il contributo alle finanze della collettività da parte di ognuno in base alle
proprie condizioni socio-economiche personali».
In Italia, tuttavia, siamo
sempre più lontani da questo ideale, e la base imponibile dell’Irpef (che già
dall’inizio non includeva gran parte dei redditi da capitale) è stata negli
anni continuamente erosa. L’ultimo smottamento si è verificato col regime
forfettario del 20%, applicato dalla scorsa finanziaria alle partite Iva fino
ai 65mila euro, con ogni probabilità esteso fino a 100mila euro dal 2020.
Questi redditi da lavoro autonomo non fanno dunque più parte della base
imponibile dell’Irpef. Stessa sorte era capitata qualche anno fa ai redditi da
affitti, soggetti a un’imposta sostitutiva piatta (al 10% o 21%), senza tener
conto degli altri redditi e del patrimonio, mentre casi come quello di
Cristiano Ronaldo hanno portato sotto i riflettori il regime di favore introdotto dal Governo Gentiloni per
i ricchi paperoni “stranieri” che “traslocano” la propria
residenza fiscale in Italia. In sostanza oggi l’Irpef – che stando ai dati Ocse
pesa in Italia oltre il 10% del Pil, più che in gran parte dei paesi
occidentali – è applicata sempre di più solo sui redditi da lavoro dipendente e
sulle pensioni. Inoltre, la creazione di questa sorta di “spezzatino” fiscale,
tramite l’esistenza di tutti questi regimi speciali di tassazione dei diversi
tipi di reddito, genera forti iniquità
di trattamento anche fra persone che hanno sulla carta redditi uguali,
e succede persino che chi ha di più paghi di meno.
Parallelamente, i redditi di
impresa e i trasferimenti di ricchezza (entrambe cose che favoriscono
maggiormente le tasche dei più ricchi) sono sempre meno tassati. Se l’imposta
sui redditi d’impresa superava il 50% a metà anni Novanta, oggi si attesta
appena al 24% – praticamente quanto il più povero dei lavoratori dipendenti.
Nello stesso periodo, l’aliquota massima sulle eredità tra genitori e figli è
crollata dal 27 al 4%. Come evidenziato da uno studio di
Piketty e Saez, tutto ciò è di cruciale importanza per la progressività del
sistema fiscale: nel caso statunitense infatti, la minore tassazione di questi
redditi e fortune ereditate spiega buona parte della minore capacità dello
stato di ridurre le disuguaglianze. Più ancora che parlare di aliquote, dunque,
sarebbe necessario allargare la base imponibile dell’Irpef, applicando la
progressività su tutti i redditi (soprattutto quelli, come quelli da capitale e
impresa, di cui i ricchi beneficiano maggiormente), e non solo sul lavoro.
Le imposte devono ridurre
le disuguaglianze a monte
Oltre al meccanismo “diretto”
spiegato poco fa, c’è un’altra via, indiretta, in virtù della quale le imposte
progressive riducono la disuguaglianza dei redditi. In altre parole, se
elevassimo l’ultima aliquota dell’Irpef – o meglio, introducessimo un’ulteriore
aliquota per i redditi sopra 100 o 150 mila euro – dovremmo aspettarci una
riduzione della quota di reddito dell’1% più ricco degli italiani.
Esistono tre spiegazioni
principali per questo fenomeno:
§ Aliquote più elevate spingerebbero a più
evasione (o elusione) – soprattutto se ci sono facili scappatoie da sfruttare.
La minore disuguaglianza sarebbe dunque solo sulla carta, e alzare le tasse ai
ricchi diverrebbe un boomerang, riducendo il gettito fiscale. Il presunto
recupero del gettito è alla base di alcune delle ipotesi di flat tax in
discussione, e potrebbe certamente verificarsi, anche se nessuno potrebbe
davvero scommettere quanto. Tra l’altro, misure come il regime forfettario
introdotto nel 2019 potrebbero proprio avere l’effetto contrario, spingendo le
partite Iva a evadere ed eludere i redditi superiori a 65 mila euro, per non
perdere i benefici fiscali. Difficile capire se i 38 miliardi all’anno stimati di
evasione Irpef potrebbero davvero ridursi considerevolmente.
§ Un’imposizione elevata scoraggerebbe
l’innovazione, il lavoro e l’impegno. Assumendo che il reddito guadagnato
dipenda direttamente dalla quantità e qualità di lavoro, l’imposizione di
imposte più alte scoraggerebbero l’impegno dei lavoratori e ridurrebbero i
redditi guadagnati. Secondo questo ragionamento, e per fare un esempio, se
avessimo tassato i circa 4
miliardi e mezzo guadagnati da Maradona nel 1987 con
aliquote troppo elevate (all’epoca eravamo ancora al 62%), il Napoli non
avrebbe forse più potuto contare su un impegno sufficiente del campione
argentino, che si sarebbe accontentato di un solo scudetto. Questo tipo di
argomentazioni sono molto popolari nel dibattito pubblico e tra gli economisti.
Tuttavia, la stagione
1989-1990 della Serie A e la ricerca empirica suggeriscono
quanto questo aspetto sia marginale. Il nostro impegno, produttività e voglia
di fare goal, dipendono chiaramente da tanti fattori e non solo dalla tassazione.
L’idea che basti abbassare le imposte per stimolare la crescita economica non è
empiricamente dimostrata, e non è così convincente neppure a
livello teorico.
§ Un ultimo argomento, molto meno discusso
ma che studi recenti
dimostrano avere importanza, è che aliquote massime più elevate
riducono il potere e l’incentivo per i grandi dirigenti di contrattare
remunerazioni e bonus sempre più generosi. Contrariamente a quanto ipotizzato
sopra, tasse più progressive permetterebbero una più equa distribuzione del
valore creato dalle aziende, più corrispondente al lavoro e all’impegno di chi
ci lavora, e anche al rischio sostenuto da chi ci investe, con conseguenze
importanti anche sul piano politico. Aumentare la progressività
fiscale potrebbe contribuire dunque a disincentivare modelli di governo
d’impresa di tipo estrattivo, spingendo i dirigenti a preoccuparsi di
ingrandire la torta per tutti, e riducendo le disuguaglianze ancora prima della
redistribuzione dello Stato.
Tassare e redistribuire non
basta, ma è un buon inizio
Gli effetti delle imposte e
dei trasferimenti governativi non sono, tuttavia, sempre efficaci per
redistribuire risorse. Uno studio recentedi Piketty, Saez, e
Zucman mostra come il 50% più povero degli statunitensi adulti guadagnerebbe,
in assenza di redistribuzione, circa 16 mila dollari. Secondo i tre economisti,
l’intervento statale non varia di una virgola il reddito di questa fascia di
popolazione – in media, dunque, i poveri ricevono negli Usa un euro di welfare
per ogni euro di tasse. Pur tenendo conto delle evidenti differenze rispetto al
sistema italiano di tassazione e di welfare, questo esempio suggerisce come non
basta redistribuire a valle, bisogna anche intervenire a monte, nei meccanismi
di formazione del reddito e della ricchezza. Storicamente, come illustrato
chiaramente dall’economista britannico Tony Atkinson nel suo libro Disuguaglianza, cosa si
può fare, ciò è stato affrontato affiancando alle politiche
redistributive quelle che rafforzano i
diritti e il potere dei lavoratori, o riformano l’assetto
proprietario delle imprese; lo smantellamento dei monopoli e
oligopoli privati, che frenano la
crescita accumulando profitti a danno della collettività;
la regolamentazione dei mercati, della finanza e del settore bancario; lo
sviluppo e la coesione territoriale; e via dicendo. Sposando questa lettura, il Forum
Disuguaglianze e Diversità ha di recente proposto un piano
in quindici proposte di intervento, per affrontare alla radice l’origine delle
disuguaglianze dei redditi e della ricchezza in Italia. Solo una delle proposte ricorre alla leva fiscale per
ridurre i vantaggi economici nel corso della vita, per via di eredità e di
donazioni ricevute e non per impegno o merito. Molto altro si può fare per
promuovere la giustizia sociale. Ma la tassazione progressiva di tutti i
redditi nel loro complesso – resistendo a quasiflat tax e
altre stranezze, e anzi rafforzando la portata redistributiva del nostro stato
sociale spostando il
carico dei prelievi fiscali sui più ricchi – rimane un
pezzo importante del mosaico.
*Salvatore
Morelli, economista, si occupa di disuguaglianze economiche ed è attualmente
Research Assistant Professor presso il Graduate Center – CUNY (New York) e lo
Stone Center of Socio-Economic Inequality, e tra i promotori del Forum
Disuguaglianze e Diversità.
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