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giovedì 28 novembre 2013

ALCUNE RIFLESSIONI SUL FEMMINISMO

da http://www.communianet.org/news/proposito-dellarticolo-di-nancy-fraser
di Lidia Cirillo
E’ cominciata anche in Italia la discussione sull’articolo di Nancy Fraser pubblicato da The Guardian. Conosciuta e apprezzata come una delle femministe più lucide di un tempo che produce più nebbie che luci, Fraser esprime la sua preoccupazione per la metamorfosi del femminismo, avvitato ormai in una relazione pericolosa con le spinte neo-liberiste. Le idee femministe – scrive Fraser – erano un tempo parte di una visione radicale del mondo, ora vengono espresse in modi sempre più individualistici; criticavano il carrierismo, ora consigliano alle donne di “darci dentro”; si fondavano sull’idea di solidarietà, ora guardano alle donne imprenditrici, al successo personale, alla carriera e alla meritocrazia.L’articolo continua con una serie di argomenti condivisibili, che sono però costretta a tralasciare.
L’obiezione più diffusa alla provocazione di Fraser è stata la più ovvia e cioè che il femminismo a cui l’articolo allude esiste, ma non è certo l’unico. Cinzia Arruzza (femminista e docente di filosofia alla New School for Social Research di New York) nella breve presentazione dell’articolo, pubblicato in Italia da communianet.org, ricorda le correnti femministe che non possono essere assimilate a quella che Fraser critica a ragione, ma con il torto di presentarla come “il femminismo” tout court: il femminismo materialista, il femminismo intersezionalista, il marxismo queer, il femminismo lotta di classe, le teoriche della riproduzione sociale, il femminismo marxista.
A questo tipo di obiezione, fatta per altro da molte, Fraser risponde che quello a cui si riferisce rappresenta comunque la grande maggioranza del femminismo e ciò che resta è invece marginale. Non conosco lo stato del movimento negli Stati Uniti, né sarei in grado di valutare quanto pesino l’una o l’altra cultura femminista e tutte nel loro insieme. So tuttavia che certi discorsi possono essere facilmente tradotti in italiano, valgono cioè anche per il nostro paese.
In Italia l’idea che “il femminismo” sia questo non deriva tanto della sua maggiore consistenza quanto dalla scarsa visibilità degli altri per le stesse ragioni per cui sono poco visibili e quasi mai hanno voce le resistenze molteplici del corpo sociale al neoliberismo e alle politiche di austerità. La generalizzazione, se fosse estesa alla situazione italiana, non renderebbe un buon servizio proprio ai femminismi che non meritano certo l’accusa di essere ancelle del neoliberismo. In più essa rischia di riprodurre, negli ambienti che ancora lottano per la giustizia sociale, un vecchio pregiudizio duro a morire. E cioè che in ultima analisi il femminismo sia il giocattolo di donne borghesi o, per dirla in modo meno volgare, di una piccola borghesia intellettualizzata, magari talvolta con legittime aspettative, ma incapace di sparare nella giusta direzione.
L’articolo di Fraser merita tuttavia un piccolo ma indispensabile approfondimento. Il femminismo, cioè l’insieme dei movimenti e dei discorsi di donne contro le ingiustizie e le discriminazioni, nasce sempre e invariabilmente al fianco di correnti democratiche, riformiste o rivoluzionarie.
Della rivoluzione del 1789, del nazionalismo dei popoli oppressi, del movimento per l’abolizione della schiavitù, del movimento operaio del XIX e XX secolo, della radicalizzazione degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Diciamo con una semplificazione estrema e tanto per intenderci che il femminismo nasce e ri-nasce sempre a sinistra.
La ragione è ovvia e dipende da ciò che si intende per sinistra. Nella ricerca di un criterio generale e valido per tutta la storia contemporanea per distinguere la destra dalla sinistra molte cose sono state dette. La più convincente è quella che vede nella sinistra l’insieme delle correnti di pensiero e di pratiche che criticano e rimettono in discussione i rapporti di potere esistenti in un certo tempo e in un certo luogo, che la destra si sforza invece di mantenere, rafforzare o restaurare.
Le grandi correnti maschili democratiche, riformiste o rivoluzionarie hanno opposto un’iniziale (e non solo iniziale) resistenza alle rivendicazioni delle donne, ma sono state poi messe in contraddizione sulla base delle loro stesse convinzioni e dei loro stessi paradigmi. Intellettuali donne capaci di elaborare discorsi in funzione della liberazione femminile hanno di volta in volta fatto un abile uso di nozioni e categorie fondate dal pensiero politico maschile, diciamo così, di sinistra. Hanno rivendicato l’uguaglianza e i diritti al fianco delle rivoluzioni borghesi; hanno rimproverato agli uomini del movimento abolizionista statunitense di lottare contro la schiavitù e di imporla poi alle loro donne; hanno chiesto giustizia al movimento operaio o rivolto l’accusa di essere compagni in piazza e fascisti a letto.
Le conquiste della rivoluzione femminile hanno poi agito sui rapporti di potere, sulle condizioni di vita, sul modo in cui una società percepisce le donne. Nel corso dei due secoli di vita sia pure intermittente del movimento, rivendicazioni e discorsi che erano propri del femminismo hanno finito col diventare senso comune. E’ allora normale che prima di tutto che ci sia un ascendente dei temi femministi in ambienti diversi da quello originario con le ovvie torsioni e metamorfosi, che l’adattamento a un altro ambiente comporta. E può anche accadere che ci sia un femminismo di destra: è esistito per esempio, sia pure per un solo momento, un demente femminismo tedesco che parlava agli uomini nazisti con il loro linguaggio, chiedendo che non replicassero l’atteggiamento dell’ebreo misogino Otto Weininger.
Esiste però anche un altro fenomeno ed è possibile che Fraser si riferisca piuttosto a questo. In Italia la parte più visibile del femminismo nato intorno al ’68, al fianco dei movimenti di critica e di lotta, ha a un certo punto cominciato a utilizzare nozioni proprie di culture politiche diverse da quelle di cui avevano inizialmente adottato i paradigmi. Per esempio la critica della vittimizzazione, che un argomento elaborato a destra contro le idee di ingiustizia, sfruttamento, oppressione ecc. Oppure la tematica dell’empowerment, legittima se si riferisse a un soggetto collettivo, ma utilizzata per indicare soluzioni personali, le cui presunte ricadute positive si manifesterebbero poi sul piano esclusivamente simbolico. O ancora il rifiuto di pensare in termini di soggetto collettivo, di movimento, di lotta in nome di una presenza critica individuale.
La rottura tra lotta femminista e lotta di classe è avvenuta per una parte importante del femminismo italiano già nel ’68 e si è manifestata con il rifiuto delle rivendicazioni economiche, considerate l’espressione di una specie di femminismo di rango inferiore, il cosiddetto emancipazionismo.
Questo fenomeno si spiega prima di tutto con il carattere perentorio e assoluto di ogni rivoluzione (e quindi anche della rivoluzione sessuale), che per affermarsi ha bisogno di fare tabula rasa del resto. In secondo luogo con le resistenze delle sinistre di allora di riconoscere la dignità di politica a fenomeni come l’autocoscienza o come i discorsi sulla sessualità, che produssero invece in un paese cattolico e conformista come l’Italia un vero e proprio salto di civiltà.
Nelle metamorfosi del femminismo, o meglio della sua parte non per caso più visibile, hanno avuto poi un ruolo decisivo le sconfitte degli ultimi decenni, in cui le sinistre tutte, sia pure per ragioni diverse, hanno una parte consistente di responsabilità. I rapporti tra femminismo e lotta per la giustizia sociale, per dirla al modo di Fraser, riflettono adeguatamente lo stato della sinistra, cioè dell’ambiente in cui il femminismo era riemerso dopo una lunga parentesi di immersione.
Un femminismo al fianco delle resistenze sociali che si politicizzano, ma che come queste resistenze è frammentario e con una cultura politica ancora molto acerba. Un femminismo cosiddetto storico, privo di ancoraggio alle dinamiche sociali e che vive in un mondo asettico, in cui si autocelebra, ignaro delle dinamiche distruttive della crisi. Un femminismo utilizzato da donne di apparati sindacali e partitici per le proprie carriere con giustificazioni ideologiche mutevoli, a cui non vale la pena di dare la dignità di teorie da decostruire o con cui polemizzare nel merito.
Sia chiaro, non si tratta di una tripartizione organizzativa, quanto piuttosto di atteggiamenti diversi che spesso si mescolano e talvolta anche convivono.
Mi sembra che la morale della favola, almeno qui in Italia, sia un po’ diversa da quella del racconto di Nancy Fraser.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

SONO BRUNACCIO

Parlando da uomo, ma da persona che cerca di stare attenta a molte dinamiche, le riflessioni di Nancy Fraser mi trovano molto d'accordo, in particolare quando nota come le più grosse conquiste di genere siano avvenute durante cicli di lotte sociali più ampie.
Io penso che il problema del femminismo sia analogo per molti versi al problema dell'emancipazione degli afroamericani USA.
Esistevano -parlo per idee e simboli dunque vado molto impreciso e tranchant dal punto di vista delle dinamiche storiche e cronologiche- due linee: l'una fondata sui diritti inalienabili dell'individuo, quella di Luther King, e l'altra, per sintetizzare, quella delle Black Panthers, la quale concepiva l'emancipazione degli afroamericani come possibile solo in una più generale emancipazione del proletariato e del sottoproletariato, di cui l'afroamericano costituiva l'anello di povertà e sfruttamento più evidente, nelle metropoli USA l'ultimo tra gli ultimi, e in questo senso va tutta la ripresa del maoismo nelle società industriali, in cui l'afroamericano era l'analogo del contadino in Mao (anche se bisognerebbe ragionare anche su ispanici e italiani che erano minoranze etnico-sociali anche se molto meno politicizzate degli afroamericani che costituivano dunque anche l'avanguardia di classe).
E' prevalsa la linea individuale e sganciata dalla lotta di classe, quella di Luther King, che, al di là della sua buona fede, ha prodotto una cooptazione di alcuni afroamericani dentro le classi borghesi tendenzialmente wasp: una borghesia istruita, moderna, cosmopolita, che pensa come i bianchi e partecipa al loro banchetto.
Le condizioni delle masse negli iperghetti sono rimaste uguali, cosicchè non si è data emancipazione generale ma semplicemente la cooptazione borghese di alcuni individui.
A questo punto penso che, sostituendo i termini, il paragone sia evidente.
Se i diritti della donna vogliono semplicemente dire equivalenza giuridica e di chance di entrare nel mondo del Capitale, non si avrà mai liberazione dell'umanità e dunque della donna, nel senso di donna appartenente alle classi subalterne, nelle quali è la sfruttata tra gli sfruttati, ma al massimo avremo un po' piu' di Marcegalia o, per guardare fuori di Italia, qualche altra Lagrange.

Anonimo ha detto...

COPIO E INCOLLO UNA DISCUSSIONE DA FACEBOOK SU QUESTO POST
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Se in Italia 40 anni di battaglie femministe(l'utero è mio e me lo gestisco io)hanno portato a gente come Mara Carfagna ministro o a femministe inacidite e forcaiole a sto punto non era meglio tenerla segregata la donna?(Non fraintendetemi,il nocciolo della questione è:eravamo maturi per il femminismo?)

Roberto

Anonimo ha detto...

Io credo che il problema da individuare sia sostanzialmente storico: dove, quando e perchè il femminismo si è sganciato dalle lotte sociali e ha preso la via dei diritti individuali scorporati da quelli sociali, accettando, per sorridere un po', la compatibilità di sistema. Se si centra questo problema e si riescono a dare risposte (che io non sono capace di dare, ma io sono solo uno dei tanti, e ci vorrebbero studiosi e militanti e un lavoro di inchiesta) forse si supera il problema. Forse la società italiana nel suo complesso non era pronta, ma alcune avanguardie lo erano (basti pensare a molte lotte sul lavoro che non hanno trovato l'ostracismo di uomini). Il problema di molto femminismo è che si è messo a parlare il linguaggio della borghesia e di tutto quel segmento di società che evidentemente non era pronto.

Brunaccio

Anonimo ha detto...

Non so fino a che punto fosse collegabile con le istanze sociali,il femminismo,alla fine in altri paesi,non è che abbia preso la via delle lotte sociali ed alla fine è progredito come un diritto individuale,purtroppo di sole avanguardie non si campa Bruno,o si arriva alla pancia del paese altrimenti tutto va a farsi benedire(i referenda su divorzio e aborto passarono perchè la questione era cominciata a circolare anche all'interno dello stomaco della nazione).

Roberto

Anonimo ha detto...

A quel che mi hanno sempre detto, divorzio e aborto passarono anche per la grossissima macchina di propaganda porta a porta che il PCI, allora ancora capace di organizzazione pratica (ora non parlo di teoria politica che è altro) mise su (sull'aborto aderì all'ultimo, temendo di perdere, ma quando entrò, entrò in pompa magna). Nel resto del mondo, però, di gente in stile Carfagna ce ne è parecchia, ma certamente esiste una legislazione ed una mentalità più avanzata, probabilmente dovuta ad un certo ritardo storico della borghesia italiana rispetto alla formazione dello Stato nazionale...ma ora sarebbe troppo lungo entrare su questo. Ma, rimanendo al pragmatico, è proprio perchè non abbiamo una borghesia avanzata, che è imprescindibile legare le lotte individuali a quelle collettive e che il femminismo in Italia parli alle lotte per il lavoro e la casa anzichè parlare ad una borghesia incapace di comprendere. Le avanguardie, hai ragione, da sole non bastano, ma devono essere il tramite di passaggio e diffusione sociale; il femminismo 'individuale' è rimasto un generale senza esercito anzichè un'avanguardia. Che poi tutto il '68 e gli anni '70 siano finiti a parlare alla borghesia 'progressista' anzichè alle classi lavoratrici sarebbe un'altra questione problematica da sviscerare nel tempo e da parte di chi ha più competenze di me.

Brunaccio

Anonimo ha detto...

Condivido quasi tutto Bruno,considera che il'68 o il'77 lo fecero i figli della borghesia o dell'aristocrazia(in molti casi si parla anche di finanziamenti CIA,vedere alla voce progetto MKUltra)non era una cosa rivolta alle masse e infatti riuscì a incidere ben poco.

Roberto

Anonimo ha detto...

Penso che il paragone tra MLK e le black panthers sia azzeccatissimo e strettamente collegabile al femminismo soprattutto italiano (ma forse anche a livello mondiale).
se storicamente ha vinto (per la questione razziale) la linea del reverendo e quindi dell'individualismo, anche nel femminismo (tolte col massimo rispetto dei diritti collettivi di massima della donna) per il resto la donna nel contesto di classe sta subendo una continua privazione di diritti sociali e i movimenti odierni producono fenomeni come pussy riot e "se non ora quando" movimenti che si esauriscono con gli slogan di un giorno e ogni tanto ritornano come le zanzare d'estate...

Dodo

Anonimo ha detto...

Le pussy riot si oppongono alla strumetalizzazione della donna utilizzando il proprio corpo.Nulla di più ipocrita.George Soros ci cova dietro sti specchietti per le allodole.

Roberto

Anonimo ha detto...

@ Roby.
Indipendentemente da chi il '68 e il '77 li fece (anche Lenin e quasi tutti i bolscevichi erano di origine borghese), ci fu , parlo del '77 (il '68 fu sostanzialmente una fase di svecchiamento ideologico della borghesia dalla sovrastruttura moralista e clericale, o poco più) una grossissima cantonata sull'aspettativa di una rivoluzione imminente (dimenticandosi le tre condizioni che aveva elaborato Lenin: aumento della forbice della ricchezza, chiusura democratica, tendenze rivoluzionarie delle forze armata...da metà anni '70 non ce ne era nessuna), che portò ad acrobazie sull'interpretazione della teoria rivoluzionaria, e penso ad esempio a Tronti e Negri, che giustificassero questa inesistente possibilità rivoluzionaria. E' anche vero che è facile giudicare poi, ma i posteri, proprio perchè tali, hanno il dovere di riflettere sugli eventi.

@ Dodo.
Perfettamente d'accordo: Pussy Riot e Femen sono proprio quel femminismo totalmente scorporato dalle istanze di classe, che infatti sfonda nei salotti buoni (per i quali è pensato) ma non nelle masse. Soros o non Soros, non è affatto capace di capire le dinamiche politiche odierne e considera il mondo come una sorta di campo di battaglia dei diritti individuali. Nulla di più antistorico e, secondo me, controrivoluzionario.

Brunaccio

Anonimo ha detto...

@Roberto scusami io non sono d'accordo a parlare troppo alla pancia anche perchè se si affrontano tutti i problemi con la pancia si corrono due rischi o lo si strumentalizza troppo e si portano soluzioni estreme (e spesso la pancia porta l'estremo a destra) oppure il problema rimane nel calderone e non si ascolta nessuno, forse e meglio parlare alla testa e cercare di muovere le coscienze e poi magari le masse.

Dodo

Anonimo ha detto...

Edoardo parlare alla pancia è importante,le sole teste non bastano.E poi gli obbrobri sono nati proprio perchè le teste teleguidavano le masse inebetite da propagande(lo zio silvio,i fasci,la sinistra extraparlmentare con sto metodo ci hanno campato per anni).

Roberto

Anonimo ha detto...

Solitamente 'parlare alla pancia' vuol dire quello che faceva il fascismo: parlare a persone teleguidate e inebetite dalla propaganda. Se invece, come mi sembra intendesse Roberto, si vuol dire che si deve arrivare a parlare alla concretezza materiale e ai bisogni fondamentali e non rimanere una sorta di elite intellettuale quasi incomprensibile ed astratta (i quadri comunisti in teoria sarebbero dovuti servire proprio a fare questo lavoro di cinghia di trasmissione tra intellettuali e masse), sono perfettamente d'accordo.

Brunaccio

Anonimo ha detto...

Intendevo questo, Bruno.

Roberto