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domenica 25 gennaio 2015

SUNDAY MAGAZINE

LA SEPOLTURA PREMATURA

Ci sono argomenti estremamente avvincenti, ma che sono troppo orribili per rispondere agli scopi di una vera e propria opera narrativa. Il romantico puro deve evitarli, se non vuole rischiare di offendere o disgustare. Vengono trattati opportunamente soltanto quando sono santificati e sostenuti dal rigore e dalla maestà della verità.
Per esempio, è con la più intensa delle «sofferenze piacevoli» che fremiamo al racconto del Passaggio della Beresina, del Terremoto di Lisbona, della Peste di Londra, del Massacro di San Bartolomeo o del soffocamento dei centoventitré prigionieri nel Black Hole a Calcutta. Ma in questi racconti a eccitare è il fatto, la realtà, la storia. Come invenzioni le guarderemmo con semplice ripugnanza.Ho citato alcune tra le calamità più importanti e imponenti che si ricordino; ma in queste è la misura, non meno del genere di calamità, a colpire cosi fortemente l’immaginazione. Non occorre ricordare al lettore che dal lungo e fatale catalogo delle miserie umane avrei potuto scegliere molti esempi individuali più colmi di pura sofferenza di quanto non lo siano gli enormi disastri collettivi. In verità, l’autentica sventura – la suprema afflizione – è individuale, non generale.
Che gli orrori estremi dell’angoscia siano sopportati da un uomo singolo e mai dall’uomo massa: di questo ringraziamo Dio misericordioso!
Essere sepolti vivi è, senza dubbio, il più terribile tra gli orrori estremi che siano mai toccati in sorte ai semplici mortali. Che sia avvenuto spesso, spessissimo, nessun essere pensante vorrà negarlo. I limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nella migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può dire dove finisca l’una e cominci l’altra? Sappiamo che esistono malattie in cui sopravviene la cessazione totale di ogni apparente funzione vitale, in cui tuttavia queste cessazioni sono mere sospensioni, per usare un termine appropriato. Si tratta di semplici pause momentanee nell’incomprensibile meccanismo. Passa un certo tempo e qualche misterioso principio invisibile rimette in moto gli ingranaggi magici e le ruote incantate. La corda d’argento non si era sciolta per sempre, né la coppa d’oro si era irreparabilmente spezzata. Ma nel frattempo, dove era l’anima?
A parte comunque l’inevitabile conclusione a priori che certe cause debbano produrre certi effetti, che il noto verificarsi di simili casi di sospensione dalla vita possa naturalmente causare di quando in quando seppellimenti prematuri, a parte questa considerazione, abbiamo testimonianze dirette di medici e l’esperienza comune per dimostrare che già si sono avuti realmente numerosi seppellimenti di tale genere. Potrei citare subito, se fosse necessario, almeno un centinaio di esempi ben documentati. Un esempio molto significativo, delle cui circostanze forse è ancora vivo il ricordo in qualcuno dei miei lettori, si verificò non molto tempo fa nella vicina città di Baltimora, dove suscitò una sensazione dolorosa, profonda e di estesa risonanza. La moglie di uno dei cittadini più rispettabili, un illustre avvocato membro del Congresso, venne colta improvvisamente da un’inspiegabile malattia che eluse completamente l’abilità dei suoi medici. Dopo molte sofferenze, ella morì, o così almeno si suppose. Nessuno infatti sospettò, né ebbe motivo di sospettare, che non fosse realmente morta. Presentava le normali caratteristiche della morte. Il viso aveva assunto i consueti contorni emaciati e incavati. Le labbra avevano il solito pallore marmoreo. Gli occhi avevano perso la lucentezza. Era scomparso il calore. Erano cessate le pulsazioni. Si attese prima di seppellirla tre giorni durante i quali il corpo assunse una rigidità di pietra. Insomma, si affrettò il funerale a causa del rapido sviluppo di ciò che si ritenne essere la decomposizione.
La signora venne tumulata nella tomba di famiglia, che per i tre anni successivi non fu più toccata. Al termine di questo periodo, venne aperta per deporvi un sarcofago; ma ahimè! quale terribile colpo aspettava il marito che spalancò di persona la porta! Quando i battenti vennero spinti indietro, un oggetto rivestito di bianco gli cadde rumorosamente tra le braccia. Era lo scheletro della moglie, avvolto nel sudario ancora intatto.
Un’indagine accurata rivelò che era tornata in vita due giorni dopo dal seppellimento; che gli sforzi compiuti dibattendosi dentro la bara avevano fatto sì che questa cadesse da una mensola o ripiano sul pavimento, dove si era rotta consentendole di uscirne. Una lampada lasciata per caso piena d’olio dentro la tomba venne trovata vuota; ma avrebbe potuto consumarsi per evaporazione. Sul più alto dei gradini che conducevano nella camera mortuaria, era un grosso frammento della bara, con cui sembra avesse cercato di attirare l’attenzione battendolo contro la porta di ferro.
Nel far questo, probabilmente svenne, o forse morì di puro e semplice terrore; e nella caduta il sudario si era impigliato in qualche oggetto di ferro sporgente all’interno. Così rimase, e imputridì, in piedi.
Nell’anno 1810, un caso di sepoltura di un essere vivente accadde in Francia, in circostanze che giustificano ampiamente l’affermazione secondo cui la verità è davvero più strana dell’invenzione. L’eroina della storia era una certa Mademoiselle Victorine Lafaurcade, una giovanetta di illustre famiglia, ricca e di grande bellezza. Tra i suoi numerosi pretendenti, vi era un certo Julien Bossuet, un povero littérateur, o giornalista, di Parigi. Il suo talento e la sua generale cortesia gli avevano valso l’attenzione dell’ereditiera, che sembra lo avesse veramente amato; ma l’orgoglio che le derivava dai propri natali finì per convincerla a respingerlo per sposare invece un certo Monsieur Renelle, banchiere e diplomatico di una qualche importanza. A matrimonio avvenuto, però, questi la trascurò e forse giunse anche a maltrattarla. Dopo aver passato con lui qualche anno infelice, ella morì, almeno il suo stato somigliava così da vicino alla morte da ingannare chiunque la vedesse. Venne sepolta, non in una cripta ma in una semplice tomba nel cimitero del villaggio dove era nata. Preso dalla disperazione e ancora acceso dal ricordo di un affetto profondo, l’innamorato si reca dalla capitale nella lontana provincia in cui si trova il villaggio, col romantico scopo di dissotterrare il cadavere e impadronirsi delle bellissime trecce. Giunge alla tomba. A mezzanotte dissotterra la bara, l’apre e sta per tagliare i capelli, quando si arresta vedendo schiudersi gli occhi amati. Infatti, la signora era stata sepolta viva. La vita non l’aveva del tutto abbandonata ed era stata svegliata dalle carezze dell’innamorato da quel letargo che era stato scambiato per morte. Come pazzo, egli la condusse nella sua camera al villaggio. Usò certi rimedi corroboranti suggeritigli da una cultura medica non indifferente.
Alla fine, ella si rianimò. Riconobbe il suo salvatore. Rimase con lui finché, a poco a poco, ebbe recuperato in pieno la salute. Il suo cuore di donna non era di pietra e quest’ultima lezione d’amore riuscì a intenerirlo ed ella lo concesse a Bossuet. Non ritornò più dal marito, ma tenendogli segreta la risurrezione, fuggì con l’amante in America. Vent’anni dopo, ritornarono entrambi in Francia, convinti che il tempo avesse mutato abbastanza l’aspetto della signora da impedire agli amici di riconoscerla. Ma si ingannarono; perché al primo incontro Monsieur Renelle la riconobbe e rivendicò i suoi diritti sulla moglie.
La donna vi si oppose; e il tribunale la sostenne decidendo che le circostanze particolari e il lungo intervallo di anni avevano estinto, non soltanto in nome dell’equità, ma anche legalmente, l’autorità del marito.
Il Chirurgical Journal di Leipsic, periodico di grande autorità e valore che qualche libraio americano farebbe bene a tradurre e ripubblicare, riferisce in un numero recente un fatto molto sconcertante di questo genere.
Un ufficiale di artiglieria, un uomo di statura gigantesca e di ottima salute, disarcionato da un cavallo riottoso, subì una gravissima contusione alla testa che lo rese di colpo insensibile; il cranio aveva una piccola frattura, ma non si temeva un pericolo immediato. Venne eseguita con successo la trapanazione. Gli venne fatto un salasso e furono adottate molte altre delle consuete misure di assistenza. Un po’ alla volta, però, egli cadde sempre più profondamente in uno stato comatoso e alla fine si credette che fosse morto.
Faceva caldo e venne seppellito con eccessiva fretta in un cimitero pubblico. I funerali si svolsero di giovedì. La domenica seguente, il cimitero era, come al solito, molto affollato di visitatori; e verso mezzogiorno nacque una grande agitazione per la dichiarazione di un contadino il quale affermò che, mentre se ne stava seduto sulla tomba dell’ufficiale, aveva sentito chiaramente un movimento del terreno apparentemente provocato da qualcuno che si dibattesse lì sotto. Dapprima si prestò scarsa attenzione alle dichiarazioni dell’uomo; ma il suo terrore evidente e l’accanita ostinazione con cui insisteva nella sua storia finirono per fare colpo sulla folla, come era naturale.
Ci si procurarono in fretta delle vanghe e la tomba, indecorosamente poco profonda, venne aperta in pochi minuti, quanto bastò per far comparire la testa del suo occupante. In quel momento era apparentemente un morto, ma sedeva quasi ritto nella bara, di cui aveva in parte sollevato il coperchio, dibattendosi furiosamente.
Venne subito condotto nel più vicino ospedale e qui dichiarato ancora in vita, anche se in stato di asfissia. Dopo qualche ora si rianimò, riconobbe alcune persone di sua conoscenza e, in frasi sconnesse, parlò della sua angoscia nella tomba.
Da ciò che narrò, era evidente che, dopo sotterrato, doveva essere rimasto pienamente cosciente di essere vivo per più di un’ora, prima di perdere completamente i sensi.
La tomba era stata riempita sbadatamente e con terra non compatta e estremamente incoerente, così che lasciava necessariamente filtrare un po’ d’aria. Aveva udito i passi della folla sul suo capo e si era sforzato di farsi udire a sua volta. Apparentemente era stato il frastuono della gente nel cimitero, disse, a svegliarlo da un sonno profondo, ma non appena fu desto si rese conto in pieno dell’orrore della sua posizione.
Si racconta che questo ammalato stava riprendendosi bene e sembrava sulla via di una completa guarigione, quando cadde vittima dell’empirismo di un esperimento medico. Gli venne applicata la batteria galvanica e morì improvvisamente in una di quelle crisi estatiche che questa a volte produce.
La batteria galvanica, però, mi fa venire in mente un esempio calzante notissimo e veramente straordinario, in cui la sua azione si dimostrò il mezzo per rianimare un giovane avvocato londinese che era rimasto sepolto due giorni. Questo avvenne nel 1851 e creò in quel momento una sensazione molto profonda dovunque divenisse argomento di discussione.
Il paziente, Edward Stapleton, era apparentemente morto di febbre tifoidea accompagnata da alcuni sintomi insoliti che avevano destato la curiosità dei medici che lo curavano. In seguito alla sua morte apparente, si chiese agli amici l’autorizzazione a un esame post mortem, che essi però non consentirono. Come spesso avviene nei casi di rifiuto, i medici decisero di dissotterrare il cadavere e sezionarlo in segreto con comodo.
Si accordarono facilmente con una delle numerose organizzazioni di trafugatori di cadaveri di cui abbonda Londra, e la terza notte dopo il funerale, il supposto cadavere venne dissotterrato da una tomba profonda due metri e mezzo e depositato nella sala operatoria di una cllnica privata.
Era già stata praticata nell’addome un’incisione di una certa lunghezza, quando l’aspetto fresco e non decomposto del soggetto, suggerì l’applicazione della batteria. Gli esperimenti si susseguirono e ne conseguirono gli effetti abituali senza nessuna caratterizzazione sotto nessun aspetto, tranne, per un’intensità di animazione maggiore del consueto nei movimenti convulsivi, in un paio di occasioni.
Si fece tardi. Era quasi l’alba, e alla fine si ritenne opportuno procedere subito alla dissezione. Ma uno studente, particolarmente ansioso di sperimentare una sua teoria, insisté per applicare la batteria a un muscolo pettorale. Venne praticato un taglio alla buona e si stabilì in fretta il contatto con un filo elettrico, quando il paziente, con un movimento precipitoso ma per nulla convulso, si alzò dal tavolo, avanzò verso il centro della stanza, si guardò attorno, a disagio per qualche secondo e poi... parlò. Quel che disse era inintelligibile; ma furono pronunciate delle parole e con una sillabazione distinta. Dopo aver parlato, cadde pesantemente al suolo. Per alcuni momenti rimasero tutti paralizzati dal terrore: ma l’urgenza del caso presto restituì loro la presenza di spirito. Ci si rese conto che il signor Stapleton era vivo, anche se in deliquio. Somministratogli dell’etere, ritornò in sé e fu in breve risanato e restituito alla compagnia dei suoi amici, i quali tuttavia vennero tenuti all’oscuro della sua resurrezione fino a quando non si ebbe più da temere una ricaduta. E’ facile immaginare la loro meraviglia e il loro estatico stupore.
La caratteristica più eccitante di questo avvenimento, tuttavia, consiste nelle affermazioni fatte dal signor S. stesso. Egli dichiarò di non essere mai stato neanche per un momento insensibile, che vagamente e confusamente fu consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui, dal momento in cui venne dichiarato morto dai medici a quello in cui cadde svenuto sul pavimento della clinica. «Sono vivo», furono le parole che nessuno aveva capito, e che, riconoscendo la sala anatomica, allo stremo delle forze si era sforzato di pronunciare.
Sarebbe facile moltiplicare storie come questa, ma non lo faccio perché, in verità, non ce n’è bisogno per affermare che hanno luogo seppellimenti prematuri.
Quando pensiamo quanto di rado sia in nostro potere scoprirli, proprio per la loro stessa natura, dobbiamo ammettere che possono verificarsi spesso senza che ce ne accorgiamo. In realtà è raro che si violi in qualche misura per un qualsiasi scopo un cimitero, senza trovare gli scheletri in posizioni che diano adito ai più terribili sospetti.
Terribile davvero il sospetto, ma ancor più terribile il tragico destino! Si può affermare senza esitazione che nessun evento sia così tremendamente adatto a ispirare un’estrema angoscia fisica e mentale quanto lo è la sepoltura prima della morte. L’oppressione insopportabile dei polmoni... le esalazioni soffocanti della terra umida... le vesti mortuarie strettamente aderenti... il rigido abbraccio dello spazio angusto... l’oscurità della Notte assoluta... il silenzio che sovrasta come un mare... la presenza invisibile ma palpabile del Verme Vincitore – queste cose, unitamente al pensiero dell’aria e dell’erba sovrastanti, al ricordo dei cari amici che accorrerebbero in nostro aiuto se solo fossero informati della nostra sorte e alla consapevolezza che di questa sorte non potranno mai essere informati, che il nostro ruolo disperato è quello del Vero morto – questi pensieri, dico, recano in un cuore, che ancora palpita, un tale spaventoso e intollerabile orrore che anche l’immaginazione più ardita deve rifuggirne. Non c’è nulla di altrettanto tormentoso sulla terra: non riusciamo a immaginare nulla di altrettanto ripugnante nel regno del più profondo Inferno. E per questo tutti i racconti su questo tema hanno un interesse profondo, un interesse che, però, attraverso il timore reverenziale del tema stesso, si basa molto giustamente e specificamente sulla nostra convinzione della verità del soggetto narrato.
Ciò che devo raccontare ora lo so per conoscenza diretta: per mia concreta e personale esperienza.
Per diversi anni sono andato soggetto ad attacchi di quella singolare malattia che i medici, in mancanza di un termine più preciso, hanno convenuto di definire catalessi. Nonostante le cause, immediate e predisponenti, e anche la diagnosi vera e propria di questo male siano ancora un mistero, se ne conoscono abbastanza bene le caratteristiche evidenti e manifeste. Sembra che vari soprattutto per intensità. A volte il paziente giace per un giorno soltanto, o anche per meno, in una specie di letargo accentuato. E privo di sensi e esteriormente immoto, ma le pulsazioni cardiache sono ancora lievemente percettibili; resta qualche traccia di calore; un vago colorito indugia al centro delle guance, e, se gli si avvicina uno specchio alle labbra, si può rilevare un’azione polmonare lenta, irregolare e vacillante. In altri casi la trance dura settimane, anche mesi; e l’osservazione più attenta e le prove mediche più rigorose non riescono a stabilire una differenza sostanziale tra lo stato del paziente e quello che noi consideriamo di morte assoluta. Spessissimo viene salvato da una sepoltura prematura soltanto per il fatto che i suoi amici sono al corrente che è andato soggetto in precedenza ad attacchi catalettici, per il sospetto che ne consegue e soprattutto perché non compaiono tracce di decomposizione. Per fortuna l’evoluzione della malattia è graduale. Le prime manifestazioni, per vistose che siano, sono inequivocabili. Gli attacchi diventano successivamente sempre più caratteristici e durano ciascuno più a lungo del precedente.
In ciò consiste la principale salvaguardia contro l’inumazione. Lo sventurato, il cui primo attacco fosse d’estrema violenza, come ne capitano a volte, sarebbe quasi inevitabilmente consegnato vivo alla tomba.
Il mio caso non differiva sostanzialmente da quelli citati nei libri di medicina. A volte senza causa apparente, sprofondavo a poco a poco in uno stato di semisincope o semisvenimento; e restavo in questo stato, senza dolore, senza riuscire a muovermi o, a rigor di termini, a pensare, ma conservando una velata consapevolezza letargica della vita e della presenza di chi stava intorno al mio letto, finché la crisi della malattia mi restituiva, a un tratto, alla sensazione completa. Altre volte venivo colpito rapidamente e violentemente. Mi sentivo male, intorpidito, raggelato e stordito, e cosi cadevo di colpo prostrato. Poi, per settimane intere, tutto era vuoto e buio e silenzioso e il Nulla diventava l’universo. Una distruzione totale non avrebbe potuto fare di più. Da questi ultimi attacchi mi svegliavo, però, con lentezza proporzionale alla rapidità della crisi. Così come appare la luce del giorno al mendicante senza amici e senza casa che vaga per le strade nelle lunghe e desolate notti invernali – proprio così lentamente, così stancamente, così lietamente – tornava la luce dell’Anima a me.
Ma, a parte la tendenza a cadere in trance, la mia salute generale pareva buona; ne riuscivo ad accorgermi di essere affetto da quella malattia, a meno che si potesse considerare cagionata da questa una certa idiosincrasia del mio sonno quotidiano. Svegliandomi dal sonno, non riuscivo mai ad acquistare subito il pieno possesso dei miei sensi e restavo sempre, per parecchi minuti, sbigottito e perplesso, e le mie facoltà mentali in genere, ma la memoria in particolare, si trovavano in uno stato di assoluta quiescenza.
In tutto quello che sopportavo non c’era dolore fisico, ma solo un’infinita angoscia morale. La fantasia diventava lugubre. Parlavo «di vermi, di tombe e di epitaffi». Mi perdevo in fantasticherie di morte, e l’idea di una sepoltura prematura si impadroniva del mio cervello. Il pericolo orrendo al quale ero esposto, mi perseguitava giorno e notte. Di giorno la tortura del pensiero era smodata; di notte diventava estrema. Non appena il Buio cupo si stendeva sulla Terra, allora, per l’orrore del pensiero, tremavo... tremavo come le piume ondeggianti di un carro funebre. Quando la Natura non consentiva più la veglia, era dopo una lotta che cedevo al sonno – infatti rabbrividivo al pensiero che, destandomi, mi sarei potuto trovare in una tomba. E quando, alla fine, precipitavo nel sonno, era soltanto per precipitarmi subito in un mondo di fantasmi sul quale aleggiava con ampie, nere e offuscanti ali, preminente la sola Idea del sepolcro.
Dalle innumerevoli immagini tenebrose che così mi opprimevano nei sogni, scelgo, per raccontarla, una visione solitaria. Mi pareva di essere immerso in una trance catalettica di durata e profondità maggiori del solito. All’improvviso, una mano gelida mi si posava sulla fronte e una voce impaziente e farfugliante mi bisbigliava all’orecchio la parola: «Alzati!».
Mi drizzavo a sedere. Il buio era totale. Non riuscivo a distinguere i lineamenti di colui che mi aveva svegliato. Non riuscivo a ricordare né il momento in cui ero caduto in trance, né il luogo nel quale mi trovavo. Mentre restavo immobile, immerso nello sforzo di riordinare i miei pensieri, la mano fredda mi afferrava il polso impaziente, scuotendolo violentemente, mentre la voce farfugliante ripeteva:
«Alzati! Non ti ho detto di alzarti?».
«E tu chi sei?», chiedevo.
«Non ho nome, nelle regioni in cui abito», rispondeva lugubremente la voce, «ero mortale, ma ora sono un demone. Ero senza pietà, ma ora sono misericordioso. Devi sentire che tremo. Mentre parlo mi battono i denti, ma non per il freddo della notte... della notte senza fine. Ma questo orrore è insopportabile. Come puoi tu dormire tranquillo? Io non riesco a riposare, udendo il grido di questi grandi tormenti. Questa vista è più di quanto possa sopportare. Alzati! Vieni con me, nella Notte di fuori e lascia che io scoperchi per te le tombe. Non è forse uno spettacolo di dolore? Guarda!»
Guardavo; e la figura invisibile che ancora mi teneva stretto per il polso aveva spalancato le tombe di tutto il genere umano e da ciascuna si irradiava la lieve fosforescenza della decomposizione, così che riuscivo a vedere nelle profondità più nascoste, scorgendo corpi avvolti nel sudario, immersi nel triste e solenne sonno con i vermi. Ma ahimè! coloro che veramente dormivano erano di molti milioni meno numerosi di quelli che non dormivano affatto; e c’era una debole lotta; c’era una triste irrequietezza generale; e dalla profondità delle innumerevoli fosse, giungeva il fruscio malinconico degli abiti dei sepolti. E di coloro che parevano riposare tranquilli, vidi che molti avevano cambiato, chi più chi meno, la posizione rigida e scomoda in cui erano stati originariamente sepolti. E mentre guardavo, la voce mi diceva di nuovo:
«Non è, oh!, non è uno spettacolo pietoso?», ma prima che riuscissi a trovare le parole per rispondere, la figura mi aveva lasciato il polso, si erano spente le luci fosforescenti, e con violenza improvvisa le tombe si erano richiuse, mentre si levava da esse un tumulto di grida disperate che ripetevano: «Non è... oh Dio! non è uno spettacolo pietoso?».
Fantasie come questa, che mi si presentavano di notte, prolungavano nelle ore di veglia la loro terribile influenza. I miei nervi ne vennero completamente sconvolti, e caddi preda di un orrore continuo.
Esitavo ad andare a cavallo, a camminare o a fare qualunque cosa che mi portasse lontano da casa. Anzi, non osavo più allontanarmi dall’immediata presenza di coloro che sapevano della mia tendenza alla catalessi, per tema che se fossi stato colto da uno dei miei soliti attacchi potessero seppellirmi prima di accertare le mie vere condizioni. Cominciai a dubitare dell’affetto, della fedeltà dei miei amici più cari. Temetti che in una trance di durata più lunga del solito, potessero essere indotti a considerarmi inguaribile. Giunsi anche al punto di temere che, essendo io causa di tanti fastidi, potessero essere lieti di considerare un attacco molto prolungato una scusa sufficiente per sbarazzarsi del tutto di me. Invano si sforzarono di rassicurarmi con le promesse più solenni. Esigetti i giuramenti più sacri, che in nessun caso mi avrebbero sepolto finché la decomposizione fosse avanzata a tal punto da rendere impossibile un’ulteriore conservazione, e anche allora, il mio terrore mortale non ascoltò ragione, non accettò consolazione. Incominciai a prendere una serie di complicate precauzioni.
Tra le altre cose, feci rimodernare la cripta di famiglia, in modo che potesse essere facilmente aperta dall’interno. La minima pressione su una lunga leva che penetrava dentro la tomba faceva spalancare i battenti di ferro. Feci anche in modo che vi potessero entrare liberamente aria e luce; e sistemai un ripostiglio per acqua e cibo a portata di mano dalla bara che doveva accogliermi. Questa bara era imbottita di panno caldo e morbido e aveva un coperchio costruito con lo stesso principio della porta della cripta, con l’aggiunta di molle disposte in modo che il minimo movimento del corpo bastasse a scostarlo. Oltre a tutto questo, feci attaccare al tetto della tomba una grande campana, la cui fune, secondo il progetto, doveva penetrare attravèrso un buco nella bara ed essere così legata a una delle mani del cadavere. Ma ahimè! A che vale la precauzione contro il destino dell’uomo? Neanche queste misure ben congegnate bastavano a salvare dal tormento supremo dell’inumazione da vivo uno sventurato destinato a quei tormenti!
Giunse un momento – come molte volte era giunto prima – in cui mi trovai a emergere da una totale incoscienza nella prima sensazione vaga e indefinita di esistenza. Lentamente – con passo da tartaruga – si accostò la vaga alba grigia del giorno fisico. Un’inquietudine torpida. Un’apatica sopportazione di un dolore sordo. Nessun affanno... nessuna speranza... nessuno sforzo. Poi, dopo un lungo intervallo, un ronzio nelle orecchie; poi, dopo un periodo ancora più lungo, una sensazione di prurito o di formicolio alle estremità; poi, un periodo che sembrò eterno di piacevole riposo, durante il quale la sensazione, ridestatasi, si sforzava di divenire pensiero; poi una breve ricaduta nel nulla; poi un’improvvisa ripresa. Infine, il lieve tremito di una palpebra e subito dopo la scossa elettrica del terrore, mortale e impreciso, che fa fluire il sangue in torrenti dalle tempie al cuore. E ora, il primo vero sforzo di pensare. E ora, il primo tentativo di ricordare. E ora, un successo parziale e evanescente. E ora, la memoria ha riconquistato le sue forze al punto che sono, almeno in parte, consapevole della mia situazione. So che non mi sto svegliando da un sonno consueto. Ricordo di aver avuto un attacco di catalessi. E ora, infine, come sotto l’impeto di un oceano, il mio spirito tremante è sopraffatto da un Pericolo sinistro: dall’unica spettrale idea sempre dominante.
Per qualche minuto rimasi immobile dominato da questa fantasia. E perché?
Non riuscivo a trovare il coraggio di muovermi. Non osavo fare lo sforzo che doveva informarmi sulla mia sorte; eppure, qualcosa nel cuore mi sussurrava che era vero. La disperazione – quale nessun altro genere di sventura può mai suscitare – la disperazione soltanto mi indusse, dopo lunga incertezza, ad alzare le palpebre pesanti. Le sollevai. Era buio... Tutto buio. Sapevo che l’attacco era finito. Sapevo che la crisi della mia malattia era passata da molto tempo. Sapevo che ormai avevo ritrovato pienamente l’uso delle mie facoltà visive... eppure era buio... l’oscurità intensa e suprema della Notte che dura per sempre.
Tentai di gridare, e le labbra e la lingua arida si mossero convulse: ma non uscì voce dai polmoni cavernosi, che, quasi oppressi dal peso di una montagna, ansimavano e palpitavano con il cuore ogni volta che faticosamente e travagliatamente inspiravo l’aria.
Il movimento delle mascelle, nello sforzo di gridare, mi rivelò che erano state legate come di solito si fa con i morti. Sentii anche che ero disteso su un materiale rigido. Fino ad allora non avevo provato a muovere le membra; ma ora alzai violentemente le braccia, che erano restate a lungo distese con i polsi incrociati. Esse colpirono una sostanza legnosa molto solida, che si stendeva sulla mia persona a non più di quindici centimetri dal mio viso. Non potei più dubitare del fatto che alfine mi trovavo in una bara.
E ora, nella mia infinita tristezza, venne dolcemente l’angelica Speranza, pensai infatti alle precauzioni che avevo preso. Mi contorsi e feci uno sforzo spasmodico per aprire il coperchio; non si mosse. Cercai la fune della campana; non la trovai. E ora, la Consolatrice scomparve per sempre e regnò trionfante una Disperazione ancor più grave, perché non potei non accorgermi dell’assenza delle imbottiture che avevo preparato con tanta cura; e, poi, mi giunse anche improvvisamente alle narici l’odore forte e caratteristico della terra umida. La conclusione era innegabile. Non ero nella mia cripta. Ero caduto in trance mentre ero lontano da casa, mentre ero fra estranei (quando o come non riuscivo a ricordare), ed erano stati loro a seppellirmi come un cane, inchiodato in una bara comune, e a cacciarmi a fondo, a fondo e per sempre in una qualche fossa normale o anonima.
Mentre questa terribile convinzione si faceva strada nei recessi più reconditi della mia anima, mi sforzai di nuovo di gridare forte: e questo secondo sforzo fu coronato dal successo. Un lungo grido, folle e prolungato, un urlo angoscioso echeggiò nei regni della Notte sotterranea.
«Ehi! ehi, laggiù!», rispose una voce rozza.
«Cosa diavolo succede, adesso?», disse una seconda voce.
«Fuori di lì!», disse una terza.
«Cosa vi viene in mente di urlare in quella maniera, come un gattopardo?», disse una quarta; e a questo punto venni afferrato e scrollato senza riguardi, per parecchi minuti, da un gruppo di individui dall’aria molto sbrigativa. Non mi svegliarono dal sonno, poiché ero pienamente sveglio quando gridai, ma mi ridiedero il pieno possesso della memoria.
Quest’avventura mi capitò in Virginia, nei pressi di Richmond. Accompagnato da un amico, durante una spedizione di caccia, mi ero spinto, scendendo per qualche chilometro, lungo le rive del James. Al cadere della notte, eravamo stati sorpresi da un temporale. La cabina di un piccolo sloop all’ancora nel fiume e carico di terriccio da giardino, ci offrì l’unico riparo possibile. Ci sistemammo alla meglio e passammo la notte a bordo. Dormii in una delle due cuccette dell’imbarcazione: e non occorre descrivere le cuccette di uno sloop di sessanta o settanta tonnellate. Quella in cui dormivo io non aveva coperta e materasso. La larghezza massima era quarantacinque centimetri. La distanza in altezza del piano della cuccetta dal ponte sovrastante era esattamente identica. Trovai estremamente difficile riuscire a infilarmici. Tuttavia, dormii profondamente; e l’intera visione – perché non era sogno e neppure incubo – era stata determinata naturalmente dalla mia posizione, dalla piega abituale dei miei pensieri e dalla difficoltà, alla quale ho accennato, di ritornare in me e, soprattutto, di ritrovare la memoria per un bel po’ di tempo, dopo essermi ridestato. Gli uomini che mi scrollarono erano l’equipaggio dello sloop e alcuni manovali assoldati per scaricarlo. Dal carico stesso giungeva l’odore di terriccio. La benda intorno alle guance era un fazzoletto di seta, col quale mi ero avvolto la testa in mancanza del solito berretto da notte.
Le torture che patii, però, furono indubbiamente pari, per il tempo che durarono, a quelle di un’effettiva sepoltura. Furono spaventose, orribili oltre ogni immaginazione.
Ma dal Male nacque un Bene, poiché la loro enormità provocò nel mio spirito una reazione inevitabile. La mia anima acquistò forza, acquistò equilibrio. Andai all’estero. Feci vigorosi esercizi fisici. Respirai l’aria libera del Ciclo. Pensai ad altri argomenti che non la Morte. Misi in disparte i libri di medicina. Bruciai Buchan. Non lessi più Night Thoughts, – né scritti pretenziosi sui cimiteri, né lessi di babau... come questa. Insomma, divenni un uomo nuovo e vissi una vita da uomo. Da quella notte memorabile lasciai per sempre i miei timori lugubri e con essi scomparvero i disturbi catalettici, di cui forse non erano stati tanto la conseguenza, quanto la causa.
Vi sono momenti in cui, anche agli occhi sereni della Ragione, il mondo della nostra triste Umanità può assumere una somiglianza con l’Inferno; ma l’immaginazione dell’uomo non è Carathis per poterne esplorare impunemente ogni caverna. Ahimè! la legione sinistra dei terrori sepolcrali non si può considerare del tutto immaginaria; ma come i Demoni, in compagnia dei quali Afrasiab discese l’Oxus, devono restare sopiti, altrimenti ci divoreranno: devono essere lasciati dormire o periremo.

(Edgar Allan Poe)

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