Il problema è se la si cambia a vantaggio dei lavoratori o a loro svantaggio, e, più genericamente a favore di una maggiore agibilità e partecipazione della società alla politica o a suo sfavore
Verranno di seguito proposti due articoli che spiegano bene da quale parte andrebbe questo cambiamento: il primo di Cremaschi, il secondo di due giovani studenti di scienze politiche, che penso si completino perchè toccano entrambi i punti del capoverso precedente.
da http://popoffquotidiano.it/2016/11/21/referendum-ecco-perche-un-lavoratore-dovrebbe-votare-no/
Craxi, poi Monti e la Jp Morgan, infine Renzi che riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria. Ecco perché chi lavora dovrebbe votare No
di Giorgio Cremaschi
Perché una lavoratrice o un lavoratore in quanto tali, e non come semplici cittadini, dovrebbero essere interessati ad esprimere con tutta la forza possibile, nelle urne e nel paese, il loro No alla controriforma costituzionale di Renzi? A questa domanda dobbiamo rispondere se vogliamo suscitare quella risposta di popolo che oggi non è affatto scontata e sulla cui assenza conta il fronte del Sì per vincere il referendum.
Per giungere a questo risultato dobbiamo smontare i due concetti principali usati dalla propaganda avversaria: che la controriforma sia un cambiamento rispetto all’immobilismo degli ultimi trent’anni e che comunque essa, per quanto profonda, non intacchi i principi della Prima parte della Costituzione.
Sull’uso spregiudicato della parola cambiamento la critica per certi versi è semplicissima, in particolare nel mondo del lavoro. Non c’è un solo cambiamento in questi ultimi trent’anni che sia stato favorevole a chi lavora, vorrebbe lavorare, finisce di lavorare. La stessa parola riforma, che negli anni ’70 del secolo scorso individuava l’affermazione dei diritti sociali e del lavoro, oggi propone un fine opposto. Riforme sono quel pacchetto di misure liberiste, riduzione dei salari e dei diritti del lavoro, tagli allo Stato sociale, privatizzazioni, che vengono chieste dalla Troika e dalla finanza internazionale e fatte proprie dai governi. Oggi se sentono parlare di riforme, lavoratori e pensionati spaventati subito mettono la mano a protezione del portafoglio. Per questo mi sembra più giusto usare la parola controriforma.
Che il cambiamento non sia un valore in sé lo sanno benissimo gli operai ai quali l’impresa spiega che deve per forza cambiare, che è costretta a delocalizzare e che purtroppo lo status dei suoi dipendenti cambia, da quello di risorse a quello di esuberi. Si può cambiare in meglio o in peggio, nessuna persona sana di mente accetterebbe di cambiare comunque, a meno di non essere tratta in inganno dai quei patti diabolici di cui sono piene le favole.
Tuttavia si può rispondere alla retorica del cambiamento con una contestazione più mirata. La controriforma di Renzi, non cambia, ma piuttosto conclude un processo trentennale di smantellamento dei principi e delle regole della Costituzione del 1948. La legge Renzi-Boschi sistematizza un processo di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere iniziato negli anni ’80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di governabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una ‘grande riforma’ che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo. Craxi accompagnò questo suo disegno con il taglio per decreto legge del salario determinato dalla scala mobile. Questo per chiarire quale fosse il segno sociale ed economico del decisionismo rivendicato. Nel mondo della globalizzazione dei mercati e della speculazione finanziaria dominante sarebbe stato necessario un nuovo tipo di governo, più simile all’amministrazione di una impresa che debba competere con la concorrenza, che al governo democratico della società.
Contemporaneamente allo smantellamento di quei lacci e lacciuoli, per usare la definizione di Guido Carli, che limitavano mercato e potere d’impresa, negli anni ’80 si diede il via alla piena affermazione del potere della finanza sul bilancio pubblico. Nel 1981 venne decisa la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, per cui da quel momento l’amministrazione pubblica per i suoi bisogni avrebbe dovuto indebitarsi con le banche e la finanza internazionale a prezzi di mercato, invece che ricorrere alla Banca d’Italia come nei decenni di crescita precedenti. Insomma negli anni ’80 si misero in campo tutte le basi delle politiche liberiste contro il lavoro e i diritti sociali, poi sviluppatesi nei trenta anni successivi. La grande riforma politica, che avrebbe dovuto ristrutturare le istituzioni democratiche in funzione del mercato e della impresa, invece segnò il passo e subì l’interruzione traumatica di tangentopoli.
Ora Renzi riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria della democrazia nati trent’anni fa, contemporaneamente ed assieme all’affermazione delle politiche economiche e sociali liberiste. Il suo quindi non è un cambiamento, ma il compimento sul piano istituzionale delle politiche che da trenta anni colpiscono il lavoro.
Roberto Benigni e altri sostengono però che la legge Renzi-Boschi possa essere accettata proprio perché inerisce alla organizzazione del potere e non ai suoi fini, che resterebbero ancora quelli definiti nella prima parte, che non viene toccata. La Costituzione più bella del mondo resterà, dicono costoro, sarà solo più efficiente.
Anche qui basterebbe un poco di buonsenso per contestare una affermazione che chiaramente non sta in piedi. Come si possono cambiare 47 articoli della Costituzione in una volta sola e poi sostenere che la Carta in fondo è sempre la stessa? Se in una automobile lascio tutta la carrozzeria esterna e cambio motore e parti meccaniche io ho un’altra vettura e anche la carrozzeria ne risentirà, sempre che non si vada a sbattere.
Ma la questione è in realtà molto più grave.
La Prima parte della Costituzione, cioè i principi sul lavoro, sulla salute, sul rapporto pubblico privato, sull’ambiente, da tempo viene devastata dalle normali leggi dei governi. Forse che acquistare un operaio come un pacchetto di sigarette dal tabaccaio, con i voucher, ha qualcosa a che vedere con il concetto costituzionale di lavoro? E la distruzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e tutte le forme di precarietà previste per legge, non espellono forse i diritti costituzionali dai luoghi di lavoro? Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque. E lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla sanità che costringono milioni di poveri a non curarsi, quelli alle pensioni, le privatizzazioni non devastano ogni principio della prima parte della Costituzione? E la guerra in violazione plateale dell’articolo 11?
Da tempo la politica quotidiana dei governi viola i principi della Prima parte della Carta, la controriforma della sua Seconda parte istituzionalizza e rende permanente il pratico smantellamento della Prima.
La nostra non è una costituzione liberale che stabilisce semplicemente le regole del gioco per l’accesso al potere politico. Quello era lo Statuto Albertino, che permise vent’anni di dittatura fascista nel rispetto delle sue regole. La nostra è una Costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una Costituzione sociale.
Voglio ricordare quello che secondo me è l’articolo che meglio caratterizza il senso e lo scopo della nostra Carta, l’articolo 3.
All’inizio quell’articolo afferma semplicemente il principio dell’eguaglianza formale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, fin qui siamo nel solco delle costituzioni liberali e borghesi. Ma poi nel secondo comma cambia tutto, leggiamolo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ecco, qui la nostra Costituzione afferma che senza eguaglianza sociale non c’è davvero neppure quella formale. Marchionne che guadagna 50 milioni di euro all’anno ed un operaio Fiat che ne prende 25000 non sono eguali. Uno ha infinitamente più potere dell’altro.
Per questo il diritto del lavoro non è eguale a quello commerciale, perché la compravendita della prestazione di lavoro non avviene tra contraenti con pari forza contrattuale. Il diritto del lavoro parte dal presupposto che i rapporti di forza tra impresa e lavoratore vadano riequilibrati a favore di quest’ultimo; ed è proprio per questo che le riforme liberiste degli ultimi trent’anni smantellano il diritto del lavoro e lo sostituiscono con il diritto commerciale. Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato.
L’articolo 3 riconosce la disparità sociale delle classi come limite assoluto della democrazia e affida alla Repubblica il compito di ‘rimuovere’, apprezziamo bene la forza di questa parola, gli ostacoli economici all’eguaglianza. Chi sono i soggetti a cui la Repubblica deve offrire la sua tutela particolare, i cittadini svantaggiati genericamente intesi? No, sono proprio i lavoratori perché evidentemente per la nostra Costituzione il grado di libertà reale del paese si misura innanzitutto con quello del lavoro. Una costituzione classista? No, democratica nel senso ampio assunto da questa parola dopo la sconfitta del fascismo.
Si noti bene poi che il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza non è affidato al governo o al suo capo, ma alla Repubblica. Cioè al governo, al Parlamento, alla magistratura, agli enti locali, a tutte le istituzioni politiche che compongono la Repubblica, comprese le organizzazioni che la Costituzione riconosce come fondamentali, sindacati, partiti, libere associazioni. Tutto questo è la Repubblica, che si dà il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale eguaglianza. La repubblica prefigurata ed organizzata dalla controriforma di Renzi è invece tutta un’altra cosa.
Prima di tutto nella Costituzione renziana c’è un uomo solo al comando. Il Parlamento è composto di nominati, direttamente il Senato, indirettamente ma egualmente la Camera. Che viene eletta con una legge elettorale che concede il potere assoluto alla più grande delle minoranze, che potrà decidere quello che vuole, o meglio quello che vuole il suo capo, contro la maggioranza del paese che non l’ha scelta per governare. Un colpo di Stato permanente, frutto del golpe bianco che ha prodotto la stessa legge di riforma. Non dimentichiamo infatti cheun Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con una maggioranza che rappresenta poco più del 20% del paese reale, ha smontato un Costituzione votata nel 1947 da oltre il 90% di una Assemblea eletta dal 90% dei cittadini.
Il potere autoritario che scaturisce dai 47 nuovi articoli della Costituzione renziana distrugge l’autonomia di tutte le istituzioni della Repubblica, dal Parlamento, alla magistratura, agli enti locali. I sindaci diventano impiegati del governo, visti i vincoli nazionali ed europei cui sono sottoposti secondo il nuovo articolo 119. I sindacati, anche per le complicità di CGIL-CISL-UIL, vengono anche essi soggiogati al sistema di potere. Che a sua volta deve obbedire a vincoli e ordini superiori, quelli dettati dal vincolo europeo.
In sintesi la controriforma della Costituzione è un tavolo a tre gambe. Quella centrale, su cui siamo chiamati ad esprimerci con il referendum, organizza il sistema di potere attorno al capo. Un’altra gamba è l’Italicum, la legge elettorale truffa che determina chi sarà il capo. Ed infine il nuovo articolo 81, che impone al capo un vincolo superiore: quello del fiscal compact europeo, il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente. Una Repubblica autoritaria a sovranità limitata, questo è ciò che sta sul tavolo della controriforma costituzionale. Noi col nostro voto possiamo far saltare solo una di queste tre gambe, ma con le restanti due il tavolo non starebbe in piedi e farlo crollare definitivamente dovrà essere il nostro obiettivo.
Altro che rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e la partecipazione dei lavoratori, la nuova Repubblica si dà un altro mandato, quello di rimuovere gli ostacoli alla libertà d’impresa. Nel nome del mercato e dell’austerità europea, il capo supremo deve fare sì che la Repubblica sia sempre più appetibile per gli investimenti della finanza e delle multinazionali, che devono essere attirati come dice la propaganda liberista dominante. È la Repubblica del TTIP, il trattato internazionale che vorrebbe concedere il diritto alla extraterritorialità giudiziaria alle multinazionali, prima di tutto sui diritti del lavoro e sulla tutela della salute e dell’ambiente.
Le fonti ispiratrici di questa costituzione di mercato sono chiaramente rintracciabili nei centri del potere finanziario europeo e multinazionale. Basta rileggersi la lettera del 5 agosto 2011, indirizzata al governo italiano da Draghi e Trichet, cioè dalla Banca d’Italia e dalla Banca Centrale Europea. Quel testo definiva un preciso programma di governo di riforma costituzionale, realizzato poi in gran parte dagli esecutivi che si sono succeduti da allora alla guida del Paese. Ma soprattutto bisogna ricordare il documento del 28 maggio 2013 stilato dalla banca JP Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale.
La Banca Morgan scriveva che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute realizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Dell’elaborazione di quelle costituzioni, figlie della sconfitta del fascismo, la banca sottolineava la parte rilevante avuta in essa dalle forze di sinistra socialiste e comuniste. Per questa ragione storica le Costituzioni antifasciste tutelano il lavoro, danno troppo potere alle opposizioni così come alle regioni e ai comuni, garantiscono i sindacati e in definitiva danno potere di veto a chiunque scenda in piazza per difendere i propri interessi. Finché ci sarà l’ostacolo di queste Costituzioni, le riforme liberiste della economia e della società non potranno mai dispiegarsi con tutta la loro efficacia, quindi se si vorranno realizzare davvero quelle riforme, bisognerà cambiare quelle costituzioni, concludeva allora la banca.
Non può esservi dubbio che la legge Renzi-Boschi corrisponda meticolosamente agli indirizzi di riforma costituzionale rivendicati dalla banca Morgan e che la sua messa in opera cancellerebbe la sostanza della Costituzione antifascista. Per questa semplice ragione il mondo del lavoro deve votare No alla controriforma, affinché l’Italia sia ancora una Repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche.
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da http://www.lavocedinewyork.com/news/politica/2016/11/18/perche-noi-giovani-voteremo-no-al-referendum-costituzionale/
Crediamo che lo slogan “Basta un sì” sia carico di tristezza. È l’immagine della disaffezione, della delega: basta un sì, poi ci pensiamo noi. Anche noi vorremmo che molte cose in Italia cambiassero, ed è per questo che votiamo no a questa riforma che, sfatiamo l’ultimo mito, non tocca nessuno di tutti i problemi impellenti italiani
Siamo due studenti di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, e qualche settimana fa, dopo aver letto l’ennesimo articolo che argomentava le ragioni del sì, abbiamo deciso di preparare una risposta. Ne è nato questo documento.
La propaganda organizzata dai promotori del sì, è stata caratterizzata dalla contrapposizione tra “l’Italia che dice sì” e che vuole il cambiamento, e i conservatori, “che sanno solo dire no”. A prevalere è la voglia di “vincere” e non di convincere. Bollare il no come conservatore è semplice,approfondirne le ragioni complesso.
Renzi non ha resistito, all’inizio, a dare un valore politico al referendum, annunciando che si sarebbe ritirato dalla scena in caso di sconfitta. Poi ha cambiato strategia e ha cominciato ad accusare molti sostenitori del no di voler semplicemente spodestarlo, senza entrare nel merito della riforma . Ciò detto, il fatto che vi sia una parte di elettori che darà un voto contrario (o favorevole) a un governo, o a un singolo uomo, non implica che votare no sia di fatto sbagliato.
Altro discutibile argomento della campagna del sì è quella del “voi votate come quelli là”. Sì, noi votiamo come Casapound, né più nemmeno di come i Dem votino con Verdini. Tra “come” e “con” c’è però una differenza abissale. Se Salvini dovesse riformare la costituzione scriverebbe qualcosa di diametralmente opposto rispetto a quello che scriveremmo noi, perché diverso è il punto di vista sulla società. Renzi e Verdini invece hanno evidentemente la stessa idea di Stato , cosa che dovrebbe far riflettere. Purtroppo il referendum è qualcosa di necessariamente binario, che in un sistema politico così frazionato, può creare degli apparentamenti aberranti.
Una cosa accomuna, da poche settimane, i sostenitori del sì e i sostenitori del no: la riforma avrebbe potuto essere scritta meglio. Curioso che gli estensori se ne accorgano dopo due anni di discussioni. Verosimilmente, la compagine del sì ha preso atto dei sondaggi e si rivolge al pubblico degli indecisi. In ogni caso il cavallo di battaglia è che “si può migliorare ma intanto facciamo qualcosa dopo anni di immobilismo”. Ma immobilismo rispetto a cosa? Il no potrebbe essere visto, semplicemente e ragionevolmente, come rifiuto a un cattivo progetto. Si inneggia al “cambiamento” sostenendolo con “Meglio di nulla”, “Il meglio è nemico del bene”, “Almeno qualcosa si muove”. Già, si muove, ma verso dove? Siamo dell’idea che una riforma costituzionale non possa e non debba seguire i vari “Meglio di niente” o peggio “Poi non si cambia più”.
I cambiamenti non sono necessariamente sempre positivi, e devono essere valutati nello specifico. Le Costituzioni sono pensate per durare per generazioni, non sono bonus fiscali, o un ponte, e nemmeno una politica agricola: sono la premessa di ogni azione che abbia carattere politico. Cambiando la costituzione si agisce sulla totalità degli ambiti su cui la politica ha potere, e per questo una sua riforma deve essere ponderata e soprattutto condivisa. È d’obbligo scomodare Calamandrei: “nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria”, e “quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”. Suggerimento rimasto inascoltato dall’attuale governo, che si è fatto diretto promotore della riforma nel disegno di legge Boschi. Ricordiamo che l’Assemblea Costituente approvò il testo con 453 favorevoli e 62 contrari. Democristiani e comunisti trovarono un compromesso e votarono insieme, in anni in cui la contrapposizione era violenta. Oggi il compromesso è mancato: la riforma è espressione della maggioranza di governo e del gruppo di Verdini, che da mesi funge da stampella all’esecutivo. Il fatto che sia un esecutivo a condurre la riforma della costituzione è inaccettabile, la mancanza di un contraddittorio pure.
Nel merito
Come cambia l’iter legislativo?
Uno dei più importanti obiettivi della riforma è il superamento del bicameralismo paritario, secondo l’assunto: “con questo referendum l’iter legislativo diventerà finalmente rapido e in linea con il resto dell’Europa”. E’ bene ricordare che il “rimpallo” tra una Camera e l’altra tocca solo il 20% delle leggi approvate. Per molte l’intesa viene raggiunta alla terza votazione. (Nella XVI legislatura soltanto il 4% è andato oltre la terza lettura, nella XVII, l’attuale, nemmeno il 3%). I tempi dipendono fortemente dal soggetto promotore dell’iniziativa, lo vedremo più avanti: per approvare le leggi di iniziativa governativa, cioè l’80% delle proposte che divengono legge, servono in media 172 giorni, meno di sei mesi . Un tempo coerente con l’attività legislativa di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Quando invece non è il governo a proporre una legge, i tempi di approvazione si dilatano incredibilmente. Per quelle di iniziativa popolare servono in media 420 giorni, per quelle di iniziativa parlamentare addirittura 504. I “ping pong” sono dovuti principalmente al pluralismo e alla frammentazione partitica italiana e non alla Costituzione.
Dove c’è convergenza e volontà politica, le leggi si approvano senza troppi ostacoli (vedi Lodo Alfano, 20 giorni, Porcellum, 3 mesi, ma anche la Buona Scuola, circa 4 mesi). Ostacoli che peraltro possono insabbiare proposte di legge anche in presenza di una camera soltanto, attraverso i passaggi dall’aula alle commissioni.
La riforma proposta prevede una moltiplicazione dei procedimenti legislativi, cioè le possibili strade per approvare una legge. Per 16 temi resta il bicameralismo perfetto: leggi costituzionali e di revisione costituzionale, leggi ordinarie elettorali, disposizioni riguardanti i referendum e le leggi di iniziativa popolare, la partecipazione dell’Italia all’UE, la ratifica dei trattati internazionali, gli enti locali, e altro ancora. Le leggi spesso però vertono su una pluralità di materie (come i decreti “omnibus” o “milleproroghe”): e allora quale procedura seguire in tali casi? La “nuova” costituzione prevede che saranno i presidenti delle camere di comune accordo. E se non si accordano? L’organo che si riterrà leso farà ricorso alla Corte Costituzionale. Sarebbe questa la semplificazione?
La lentezza del procedimento normativo attuale è quindi una tesi molto debole e la rapidità di quello futuro rimane al massimo un auspicio.
Ricordiamo che comunque i sostenitori del no, per la maggior parte, sono favorevoli al superamento del bicameralismo perfetto, attraverso peròsoluzioni più efficaci .
Come cambia la composizione del Senato?
Con la riforma cambiano sensibilmente sia la natura che la composizione del Senato. Il nuovo Senato della Repubblica non rappresenterà più la Nazione, ma le istituzioni territoriali esercitando “funzioni di raccordo fra lo stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”. Non potrà legiferare su tutto, ma, come abbiamo visto, solo su alcuni temi. I senatori non saranno più 315, ma 100: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori, nominati dal Presidente della Repubblica. Avremo quindi una Camera con 630 deputati e 100 senatori. Una proporzione sbilanciata. Il nuovo Senato rappresenterà prevalentemente le Regioni attraverso i consiglieri regionali, che avranno quindi doppia carica e non saranno eletti direttamente dal popolo ma con metodo proporzionale all’interno delle assemblee regionali, “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Le modalità però non sono definite. Lo saranno, come in molti altri casi, con legge futura. Possiamo comunque intuire che, basandosi su criterio proporzionale, a rappresentare la Regione, in Senato, ci saranno la rispettiva maggioranza e le opposizioni. In questo modo è probabile che le due fazioni votino secondo la linea di partito, non rappresentando quindi la Regione e i suoi interessi. Ma il Senato non doveva “esercitare funzioni di raccordo tra Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”?
La rappresentanza dei nuovi senatori non sarà dunque “territoriale”, ma “politica”.
Capitolo sindaci: questi rappresentano le relative entità territoriali, ovvero i comuni. Ma questo porrebbe 21 comuni in una posizione inspiegabilmente privilegiata rispetto agli 8000 totali. Un pasticcio giuridico e logico.
Più o meno come la componente del nuovo Senato nominata dal Presidente della Repubblica. Resteranno in carica 7 anni, senza possibilità di rinnovo. Mentre ora sono 5 su 315, con la riforma sarebbero 5 su 100: un aumento ingiustificato del loro peso, che triplica, portando a configurare questi 5 come un “partitino” del Presidente della Repubblica, visto anche che il loro mandato dura esattamente come quello del Capo dello Stato.
Per chiudere questo tema, c’è da riflettere sul fatto che le amministrazioni locali in Italia sono il cuore del funzionamento – e in alcuni casi malfunzionamento – del Paese. Appesantire ulteriormente i loro dirigenti con qualifiche extra non ci pare complessivamente una buona idea.
Saldi di tutti i tipi
Campeggiano per l’Italia i manifesti secondo i quali votando sì “si riducono i costi della politica”. Vediamo allora come diminuiscono. Con la riforma i risparmi derivano dal fatto che i senatori non sarebbero pagati per le loro funzioni parlamentari. Riceverebbero comunque il rimborso per le trasferta a Roma, mentre rimarrebbero le spese per il funzionamento dell’organo, come immobili e personale. Il risparmio sarà di 49 milioni di euro , contro poco meno di 500 del costo attuale, perciò del 9%, diminuendo però del 68% il numero dei senatori che ci rappresentano. Pagheremo quindi ancora circa 450 milioni di euro, per un Senato che a detta di Renzi si riunirebbe una volta al mese. Un “prezzo” onesto da pagare per rinunciare all’elezione diretta dei rappresentanti della camera alta del Parlamento?
I costi della politica però includono tutte le 165 mila “poltrone” (province già escluse) in Italia, e la riforma ne elimina 280 in tutto tra Senato e Cnel, quindi circa 0.17%, una percentuale minima.
Ovviamente si devono sommare gli 8,7 milioni di risparmi ottenuti dall’abolizione del Cnel, che sono, in termini relativi, poca cosa. La riforma costituzionale inoltre eliminerebbe formalmente le province, sostanzialmente già soppresse con la legge Delrio, non comportando nessun guadagno per il bilancio.
La riduzione dei costi e delle poltrone non ha quindi un grande valore e, in assoluto, è un non-argomento. Ci pare l’ultimo dei temi interessanti in un dibattito sulla Costituzione.
Cultura, Sanità e Regioni: questi sconosciuti
Non molti lo sanno, ma il referendum del 4 dicembre tocca anche l’ambiente, la cultura e la sanità.
La normativa in vigore prevede, per quanto riguarda la cultura, che allo Stato spetti la tutela del patrimonio culturale italiano e alle regioni la valorizzazione. Ma l’impossibilità di fissare il confine tra le due, ha generato negli anni un enorme caos che ha influenzato in negativo il governo del nostro patrimonio culturale. Un’altra occasione persa. La riforma in oggetto, infatti, prevede che allo stato torni l’intera legislazione su tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Fin qui tutto bene. Peccato abbiano assegnato alle Regioni la promozione del patrimonio culturale. Finora queste, a causa del loro compito di “valorizzare” hanno istituito diversi uffici in giro per il mondo con il preciso scopo di portare fuori dai confini italiani la nostra cultura. La campagna per il sì urla che questa revisione costituzionale farà chiudere alle regioni questi uffici all’estero generando un risparmio. Ma se si pensa al governo Renzi e a tutto il suo discorso pubblico allora si comprende che promozione ha un significato ben preciso: marketing. Non capiamo dunque come potranno chiudere questi uffici all’estero.
Riscontriamo la stessa approssimazione anche nella nuova disciplina del governo del territorio e dell’ambiente.
L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Ci chiediamo come si stabilirà cosa è o non è di interesse nazionale o internazionale: libertà di interpretazione. Insomma: le Regioni vengono volutamente escluse dal tavolo delle trattative su come utilizzare il suolo. Le comunità locali vengono espropriate del diritto di decidere sul proprio futuro ma vengono richiamate quando si tratta di fare marketing sul proprio patrimonio culturale, e il proprio territorio.
Un altro tema presente nella riforma è quello della sanità. Si promette una uguale tutela della salute dei cittadini, con trattamenti omogenei nelle Regioni, sulla base dell’introduzione nel comma 4 dell’articolo 117 delle “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”. Lo stesso comma dello stesso articolo prevede già la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Lo Stato già ora stabilisce i LEP (livelli essenziali di prestazioni) ed i LEA (livelli essenziali di assistenza), ovvero degli standard comuni a tutte le regioni. Dettare disposizioni generali alle Regioni però non garantisce un reale e uguale trattamento sanitario in tutta Italia. Questo perché il vero problema del diritto alla salute sta nel fatto che è un diritto che “costa”, ovvero un diritto che dipende in modo vitale dai fondi stanziati per esso. Si possono anche fissare i livelli essenziali più ambiziosi, ma se le Regioni non hanno finanziamenti sufficienti, le prestazioni non potranno concretamente essere garantite, e sappiamo le enormi differenze tra Regioni per l’indisponibilità economica e quindi anche per l’offerta sanitaria. Sarebbe già presente in Costituzione un rimedio al problema, per sopperire a queste disparità: il Fondo Perequativo, che però non è mai stato attivato compiutamente. Rimane il fatto che i fondi elargiti dallo Stato alle Regioni per la sanità (e non solo) vengono ridotti sempre più. E’ inutile quindi che il nuovo articolo 119 preveda “indicatori di riferimento di costo e fabbisogno”. Tutto dipende dai finanziamenti che lo Stato concede alle Regioni e che queste raccolgono, e non hanno quindi niente a che vedere con la Costituzione. La riforma costituzionale non va quindi ad agire sull’effettiva uguaglianza di prestazioni sanitarie nel paese.
Referendum e leggi di iniziativa popolare
In un periodo storico in cui la disaffezione alla politica è fortissima e la partecipazione dei cittadini è esigua, speravamo che la riforma costituzionale andasse incontro a queste difficoltà. Le aspettative vengono nuovamente disattese. Per i referendum abrogativi è previsto un quorum più basso, ma solo col raggiungimento delle 800 mila firme, una soglia quasi mai raggiunta. Le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare vengono triplicate, da 50 a 150 mila. La riforma introduce i referendum propositivi e d’indirizzo, ma li rimanda come suo solito a future leggi di attuazione. E così anche per l’obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare, che rimane un ennesimo rinvio.
È normale che in costituzione si rimandi a future leggi di attuazione e ai regolamenti parlamentari, ma non è normale che ci chiedano di barattare future migliorie, che non sapremo se e in che modo verranno rese effettive, con l’immediata, concreta rinuncia a garanzie.
Finalmente stabilità!
Tra i cavalli di battaglia del comitato per il sì, c’è sicuramente la maggiore stabilità che si otterrebbe in caso di vittoria. Questo perché, con la riforma, il governo dovrebbe ricevere la fiducia solo dalla Camera e non dal Senato.
La storia dell’esecutivo in Italia è travagliata, ma essenzialmente a causa di conflitti politici, come il correntismo all’interno dei partiti e le richieste dei partiti minori delle coalizioni. Tutto ciò per ricordare che la stabilità dei governi dipende significativamente dalla situazione partitica e dalle leggi elettorali. Le principali modalità attraverso cui i riformatori pensano di garantire un governo stabile, sono inserite nell’Italicum: premio di maggioranza, ballottaggio, indicazione diretta del Primo Ministro.Proprio i punti che adesso promettono di modificare : un cane che si morde la coda. Nonostante i correttivi puntino a stabilizzare il governo, serve precisare che è sufficiente che la maggioranza si divida al suo interno (la divisione nel PD, tutt’altro che fantasiosa, o in un possibile governo M5S) per far cadere il governo.
La storia dell’esecutivo in Italia è travagliata, ma essenzialmente a causa di conflitti politici, come il correntismo all’interno dei partiti e le richieste dei partiti minori delle coalizioni. Tutto ciò per ricordare che la stabilità dei governi dipende significativamente dalla situazione partitica e dalle leggi elettorali. Le principali modalità attraverso cui i riformatori pensano di garantire un governo stabile, sono inserite nell’Italicum: premio di maggioranza, ballottaggio, indicazione diretta del Primo Ministro.Proprio i punti che adesso promettono di modificare : un cane che si morde la coda. Nonostante i correttivi puntino a stabilizzare il governo, serve precisare che è sufficiente che la maggioranza si divida al suo interno (la divisione nel PD, tutt’altro che fantasiosa, o in un possibile governo M5S) per far cadere il governo.
Per di più, chi ha scritto la riforma, ha tralasciato uno dei pochissimi dispositivi che può garantire effettivamente più stabilità al governo: la sfiducia costruttiva, meccanismo (utilizzato in Germania) per il quale un Primo Ministro, e il suo governo, possono essere sfiduciati e destituiti soltanto se il Parlamento elegge al contempo un successore. Il Parlamento, insomma, deve avere un piano B prima di provocare il caos. Con questo automatismo si possono evitare le cosiddette “crisi al buio”, i ricatti di partiti della coalizione di maggioranza o correnti della stessa che minacciano di far cadere il governo per vedere tutelati i propri interessi. In sostanza, un’occasione persa.
E la legge elettorale?
Più volte il fronte del sì ha ricordato come il referendum non tocchi la legge elettorale. Noi crediamo che una legge elettorale sia appendice necessaria di una Costituzione, e che sia necessario considerarla nel dibattito. Non si può fingere che la composizione dei rami del Parlamento sia slegata dalla modalità di elezione.
Conclusione
l’Italia è piena di problemi, è vero: l’instabilità di governo, gli eccessivi sprechi delle amministrazioni pubbliche, la corruzione, la disaffezione dei cittadini per la cosa pubblica, l’educazione e la sanità che non hanno fondi sufficienti. E poi l’evasione fiscale, per una cifra che è circa 170 miliardi quindi il 10% del Pil. Le tasse troppo alte, la disoccupazione, il sistema bancario instabile. Sappiamo anche noi che l’Italia ha tutti questi problemi e molti altri. Li riconosciamo e siamo indignati almeno quanto voi. Vorremmo che le cose cambiassero, ed è per questo che votiamo no a questa riforma che, e finalmente sfatiamo l’ultimo mito, non tocca nessuno di tutti i problemi elencati sopra.
A Siena nel 1309 si decise di scrivere la costituzione in volgare e di attaccarla con delle catene sui palazzi pubblici. Questo per permettere a tutti di leggerla un testo di cui gli autori andavano fieri. Ci auto-definiamo una società all’avanguardia. È tutta questione di punti di vista.
Crediamo che lo slogan “Basta un sì” sia carico di tristezza. È l’immagine della disaffezione, della delega: basta un sì, poi ci pensiamo noi. Si vende come “l’ultima occasione” che giustifica la cambiale in bianco in molti punti di questa riforma. Dateci adesso il vostro sì e non vi scomoderemo più, non sarete più chiamati in ballo. Per citare un’indecente pubblicità di qualche mese fa: “il piacere di non dover più decidere”.
Quanti sì hanno devastato il paese, quanti sì nelle nostre vite non sono state le scelte migliori. Questa volta, la scelta di votare no è quella più carica di futuro, gravida di speranze.
Ma se credete che il vero problema dell’Italia sia un eccesso di democrazia, che l’eccessiva rappresentanza sia la causa della mala politica allora votate sì.
Andrea Pesce, nato a Torino 22 anni fa, cresciuto a Roma. Studia Scienze Politiche all’Università di Bologna ma attualmente vive all’estero dove continuerà gli studi. America? Chi lo sa. E’ appassionato di Politica, America Latina e Istruzione. Spera che nel suo futuro lavorativo ci sia spazio per tutte e tre.
Luca Rizzotti, 21 anni, nato e cresciuto a Verona, studia Scienze Politiche all’Università di Bologna. Ama approfondire tutto ciò che è “società”. Per questo nel suo futuro nessuna certezza se non una: lo studio.
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