Alla mole di dati e riflessioni dell'articolo che segue, aggiungerei anche che la comunità afroamericana, insieme ai latini, ha avuto un numero enorme di vittime di covid: entro la prima metà di aprile, a Chicago sono stati il 70% dei morti sul 30% della popolazione, Detroit che ha una delle più grandi percentuali di afroamericani è una delle città con più morti per covid, a New York si stima che i morti, tra afroamericani e latini, siano 4/5 volte quelle dei bianchi*: è evidente che questi numeri mostrano i limiti dell'accesso sanitario per queste popolazioni.

Prima di George Floyd a Minneapolis
c’erano stati Trayvon Martin in Florida, Eric Garner a Staten Island e Michael
Brown, da cui partirono le rivolte di Ferguson del 2014. Ma non c’è nemmeno
bisogno di andare così indietro nel tempo perché Ahmaud
Arbery, 25enne nero che stava facendo jogging in una zona rurale della
Georgia e che è stato ammazzato da due bianchi che l’hanno seguito in macchina
perché ritenuto “sospetto”, è morto il 23 febbraio di quest’anno. Breonna
Taylor è stata uccisa il 13 marzo con otto colpi di pistola dopo che tre agenti
di polizia sono entrati nel suo appartamento a Louisville, Kentucky, mentre
dormiva in quella che secondo loro doveva essere una “trap-house” e dove invece
non c’era traccia di stupefacenti.
Fatti che non hanno avuto la
risonanza nazionale di George Floyd solo perché è venuta a mancare la
coincidenza di qualcuno che riprendesse la scena con un cellulare. Come ha
detto Keeanga-Yamahtta Taylor sul “New
York Times” gli Stati Uniti di Trump stanno (irresponsabilmente) finendo il
lockdown e tornando alla normalità, e anche questo fa parte della normalità: la regolare e continua
uccisione di neri da parte delle forze dell’ordine.

Il copione è
sempre lo stesso: neri, disarmati, per lo più giovani e maschi, considerati
sospetti da poliziotti fuori controllo (o da presunti vigilanti di quartiere,
come nel caso di Ahmaud Arbery) che sparano per uccidere. La lista di giovani
ragazzi di colore ammazzati dalla polizia negli ultimi anni è spaventosa e,
anche se i numeri quest’anno sono significativamente calati rispetto al 2015,
si tratta comunque di un tasto delicato che rende visibile un problema più
generale: quello del rapporto delle comunità afro-americane e latine con le
forze dell’ordine e in generale con i poteri dello stato.
Il video, rimbalzato su tutti
i media, dell’agente Derek Chauvin, che con il ginocchio schiaccia a terra la
testa di George Floyd facendogli perdere i sensi e di fatto ammazzandolo, è
terrificante e come spesso accade con le immagini riesce (o si presume che
riesca) a rendere trasparente e immediatamente comprensibile un processo
politico complesso e generale che riguarda i fenomeni sociali di
“razzializzazione”, cioè di produzione sociale, culturale e istituzionale di
quella che poi cristallizzatasi chiamiamo “razza”, che tutto è tranne che
un’evidenza naturale.
Gli studiosi di race studies definiscono
il razzismo non come un atteggiamento che attiene in prima istanza alle
rappresentazioni delle singole persone, ma come un processo strutturale che riguarda
istituzioni, poteri dello Stato, processi economici spesso invisibili e
impersonali, portati avanti per lo più da persone che non si percepiscono in
alcun modo come razziste.

Quello di George Floyd è solo uno delle migliaia di
omicidi da parte delle forze dell’ordine che hanno interessato persone di
colore negli ultimi anni.
Ma quello che lo rende
diverso e che ha fatto scatenare l’insurrezione degli ultimi giorni è la sua
immagine, che nel mostrare oltre ogni ragionevole dubbio un atto di sopruso,
costituisce l’occasione per un compiere un gesto di chiarificazione politica:
rendere finalmente visibile e mettere in scena il processo strutturale di
produzione razziale della disuguaglianza su cui da sempre si è basata la
democrazia americana e che normalmente rimane nascosto.
I riot in questo senso hanno
compiuto un atto di verità. Hanno esposto una violenza enormemente maggiore di
quella di un commissariato di polizia (vuoto) dato alle fiamme, o di un centro
commerciale (vuoto) di una multinazionale come Target (che per altro sta
guadagnando milioni di dollari di utili durante la pandemia) preso d’assalto:
hanno mostrato la violenza del razzismo strutturale che è uno
dei più grandi dispositivi di riproduzione della diseguaglianza su cui si
basano i processi di accumulazione capitalistica negli Stati Uniti
Ma il razzismo strutturale è formato da
tanti tasselli. Il primo, il più immediato, è la denuncia dei fermi di polizia,
che da sempre costituisce una delle questioni su cui si è concentrato il
movimento di Black Lives Matter.
Si tratta
di una cartina da tornasole attraverso cui mostrare il rapporto problematico
che intercorre tra le comunità afro-americane e il sistema di controllo
poliziesco e di giustizia penale. Diversi sociologi l’hanno analizzato
empiricamente e l’hanno definito ironicamente “Driving while black”, cioè
guidare da nero (un gioco di parole con “driving while intoxicated”, che è il
modo in cui viene chiamata in America la guida in stato di ebbrezza). I neri
vengono cioè fermati dalle pattuglie di polizia in modo sproporzionato rispetto
a ogni altro gruppo sociale.
Non è il comportamento singolo razzista di un poliziotto di estrema
destra: è un fatto statistico, oggettivo
Ad esempio
un’indagine federale che ha monitorato i fermi della polizia del Maryland sulla
Interstate 95 per due anni tra il 1995 e il 1997 ha rilevato che il 70% dei
conducenti fermati e perquisiti dalla polizia erano neri, mentre solo il 17,5%
dei conducenti complessivi e di quelli che andavano oltre i limiti di velocità
lo era.
Un’altra ricerca fatta a
Volusia County in Florida ha constatato che il 70% dei fermati erano neri o
ispanici nonostante fossero solo il 5% dei guidatori. E anche sulla New Jersey
Turnpike, una ricerca sociologica ha mostrato che il 46% di fermati dalle
pattuglie della polizia di strada era afroamericano, sebbene nel complesso solo
il 13,5% delle auto avesse un guidatore o un passeggero nero e non vi fosse
alcuna differenza significativa nei modelli di guida tra gli automobilisti
bianchi e non bianchi.
Questi sono solo alcuni tra i
molti esempi possibili di racial
profiling usati dal sociologo marxista Erik Olin Wright e da Joel
Rogers nel libro American
Society. How It Really Works. E tuttavia sono importanti e
tutt’altro che aneddotici perché ci fanno vedere la porta d’ingresso di molti
afro-americani nel sistema di giustizia penale americano.

Oggi nelle carceri americane ci sono 2,4
milioni di detenuti: si tratta in assoluto della più alta percentuale di
detenuti in rapporto alla popolazione di ogni altro paese del mondo.
Gli Stati Uniti rappresentano il 5%
della popolazione mondiale, ma hanno quasi il 25% di tutti i detenuti del
mondo. Questo vuol dire che oggi nel mondo una persona su quattro che è in
carcere lo è negli Stati Uniti, che in questo senso superano di gran lunga ogni
altra dittatura o presunta tale. La storia di quella che è una vera e propria
carcerazione di massa che non ha eguali nella storia recente, risale agli inizi
degli anni Settanta, quando Nixon iniziò una politica di law&order nei
confronti della criminalità urbana.
Nel 1971 c’erano meno di
200mila detenuti, che sono cresciuti quasi del 700% fino a oggi, lasciando
delle conseguenze profondissime nel modello sociale americano. Ma non si
capirebbe questo processo di detenzione di massa senza la sua connotazione
razziale. Gli afro-americani, nonostante siano attorno al 13% della popolazione
complessiva americana, nel 2010 costituivano il 40% della popolazione
carceraria (leggermente al di sopra dei bianchi che però sono il 64% della
popolazione). Questo vuol dire che i neri vengono incarcerati almeno 5 volte di
più dei bianchi. Si tratta di numeri estremamente significativi, senza i quali
è difficile comprendere i processi di razzializzazione americana.
La studiosa Michelle
Alexander l’ha definito un “nuovo Jim Crow”, riferendosi alle leggi che fino al
1964 disciplinavano la segregazione razziale negli Stati del Sud e che, secondo
Alexander, lungi dall’essere state cancellate si sono semplicemente
trasformate. Il suo libro, The New
Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, che
è stato uno dei testi di riferimento del movimento Black Lives Matter comincia
infatti con una frase scioccante: ci sono più neri incarcerati nell’America di
oggi di quanti fossero schiavi nel 1850.

E tuttavia la
“razza” oggi non assume la sua forma sociale soltanto nel sistema penale, ma
anche più in generale nelle molte forme della diseguaglianza economica, che in
tempi di crisi tendono ad accentuarsi sempre di più.
Oggi il reddito
mediano annuale di una famiglia afro-americana è di poco più di 40mila
dollari, contro ai 68mila di una famiglia bianca non ispanica. Ma se si guarda
al patrimonio
netto (cioè non allo stipendio annuale, ma alla ricchezza accumulata
contando immobili, conti bancari e fondi di investimento) il gap è ancora
maggiore: nel 2017 una famiglia nera possedeva beni per poco più di 17mila
dollari, mentre una bianca ne possiede 10 volte di più: 171mila.
Il 32% dei bambini
afro-americani vive al di sotto della soglia di povertà, contro
all’undici% dei bianchi. Per non parlare della segregazione abitativa che è
ancora oggi una piaga che caratterizza la maggior parte dello sviluppo urbano
statunitense. Secondo Pager
e Shepherd il livello di segregazione razziale abitativa oggi negli
Stati Uniti è pressoché identico a quello dell’inizio del ventesimo secolo.
Keeanga-Yamahtta Taylor, che
da anni lavora sulla dimensione razziale delle politiche abitative, ha
dimostrato nel suo Race for Profit. How Banks and the Real Estate Industry
Undermined Black Homeownership come le pratiche di redlining, cioè di esplicita
segregazione della comunità afro-americane in alcuni quartieri delle città
(attraverso una limitazione per via legale all’accesso di finanziamenti
bancari) che erano in auge in tutta la prima metà del Novecento, siano
continuate anche dopo l’Housing and Urban Development Act del 1968 con il quale
veniva promosso l’acquisto di case di proprietà anche per le famiglie nere.
Quello che in realtà avvenne
fu un’inclusione predatoria che
finì non solo per non risolvere i processi di segregazione, ma per produrre una
serie di sfratti e di spirali di indebitamento che impoverirono ancora di più
le famiglie afro-americane. Ancora oggi l’espressione inner-city, cioè al centro
della città (che, contrariamente a quanto avviene in Europa, indica i quartieri
più poveri, visto che le famiglie di classe medio-alta vivono nei suburb, i quartieri
residenziali in periferia), è una parola in codice per indicare i quartieri
dove vivono neri e ispanici poveri.

Spesso quando si parla di suprematismo bianco, lo si
riduce a qualche militante esaltato del Ku Klux Klan o dei gruppi di estrema
destra di qualche stato del Sud (la cui crescita per altro dovrebbe destare più
di qualche preoccupazione, soprattutto dopo i fatti di Charlottesville del
2017). Ma non è così.
Il suprematismo bianco è una
caratteristica fondante e centrale del patto sociale americano, che riguarda la struttura delle sue
istituzioni e dei suoi processi sociali ed economici (e non necessariamente
l’ideologia spontanea della sua classe dirigente, che anzi, nonostante Trump, è
sia dal punto di vista politico che imprenditoriale sempre più liberal). Per dirla con una
battuta lo si deve cercare a New York e Washington più che in Alabama o in
Mississippi.
Quello che le rivolte di
questi giorni stanno mettendo in discussione non è soltanto l’operato fuori dalle
regole della polizia (che, al contrario di quanto accadde a Ferguson, si è
orientata a dare una parziale punizione ai propri agenti) ma la cifra
suprematista bianca della riproduzione sociale capitalistica americana. Cioè,
il modo razzializzato attraverso
cui il capitale americano riproduce le condizioni della propria accumulazione.
L’idea di poter introdurre degli elementi egualitari in questo patto
sociale è fallita
Lo ricordava Cornell West qualche giorno
fa alla CNN: “we tried black faces in high places”, cioè abbiamo provato a
introdurre dei leader black nel
cuore del capitalismo americano, secondo quel tokenism tipico delle élites liberal democratiche, e non ha funzionato.
I leader black, una volta accettati in
piccole quote nella classe politica o imprenditoriale americana, hanno finito
per soddisfare le esigenze di quello stesso capitalismo razzializzato che
riduce la stragrande maggioranza della comunità nera a forme inaccettabili di
povertà e emarginazione. Minneapolis è il segno che la tenuta di quel patto
sociale comincia a scricchiolare. Il problema è che non è detto che quello che
venga dopo vada necessariamente in una direzione più egualitaria. Dato che le
forze della reazione, guidata dal Presidente in carica, stanno attendendo alla
porta per vedere quello che succede.
L’immagine di copertina è di David Sigal (pubblicata
con il consenso dell’autore).
Le immagini nel testo sono di Hungryogrephotos, tratte da Flickr,
pubblicate con licenza Creative Commons
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