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venerdì 17 febbraio 2012

NEL POZZO DEL NOSTRO DEBITO



da http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/09/13/guido-viale-nel-pozzo-del-nostro-debito/
Ora si comincia a parlare di default (fallimento) come esito – o come soluzione – del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c’è più niente da fare».

Proprio quello che l’Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all’Italia. C’è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell’uscita dall’euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore “produttività” a finanziarsi all’estero per importare più di quanto esporta. L’uscita dall’euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione – oggi resa impossibile dalla moneta unica – riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all’appartenenza all’eurozona. L’aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero – aggiunge – rimarrebbe la possibilità del default … come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo».
Ma una svalutazione – posto che l’uscita dall’euro sia praticabile – basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell’Italia, o quella di altri paesi dell’eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne – a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità – potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l’Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio? O ancora, con la lira l’Italia potrebbe tornare a esportare arance – raccolte con manodopera schiava – nei paesi dove l’organizzazione commerciale degli agricoltori spagnoli le ha portato via il mercato? Eccetera.
Non siamo più nel ‘92; da allora non è cambiato solo il secolo, ma tutto il contesto. Forse ora, e in futuro, il problema non è esportare (o tornare a esportare) di più, ma importare – per quanto è possibile – di meno: produrre di più in loco (o il più vicino possibile) quello che si consuma; e consumare o utilizzare di più quello che ogni comunità è in grado di produrre. Non con il protezionismo, predicato a fasi alterne dalla Lega (e un tempo anche da Tremonti), ma inattuabile nel contesto odierno; bensì con una progressiva riterritorializzazione dei processi economici con cui accompagnare l’inevitabile e non più rimandabile conversione ecologica di produzioni e consumi.
Ma in Italia ogni possibilità di recupero risulta inibita dalla scomparsa del concetto stesso di politica industriale, che altri paesi hanno invece in qualche misura mantenuto, nonostante che sulle scelte di fondo la delega ai “mercati”, cioè all’alta finanza, sia per tutti totale. Quello che ora manca è una politica industriale adeguata ai tempi, cioè a una crisi ambientale planetaria che rende inutile e dannoso rincorrere chi ci ha da tempo superato in settori – come quello dell’auto – destinati a immani crisi di sovrapproduzione. E che impone invece di attrezzarsi per svolte improcrastinabili con progetti e produzioni ecologiche dal sicuro avvenire (anche di mercato, se per “mercato” si intende non lo strapotere del capitale finanziario, ma uno dei modi per mettere in rapporto produzione e consumo).
In gioco ci sono questioni come efficienza e conversione energetiche; agricoltura e alimentazione a chilometri zero; mobilità sostenibile (proprio mentre Fiat chiude l’unica fabbrica di autobus urbani del paese); manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e storico esistente; gestione accurata di risorse e rifiuti; accoglienza ed educazione per tutti; e una ricerca mirata a tutti questi obiettivi. Se iniziative del genere venissero finanziate invece di dissanguare i lavoratori per pagare gli interessi sul debito, ben venga il default; costringerebbe i responsabili dell’eurozona a correre ai ripari.
Diversi economisti pensano invece che il default degli Stati membri si possa evitare, e non solo procrastinare, se un organo dell’eurozona rilevasse – magari “sterilizzandoli” con un rinvio a lungo termine del loro rinnovo – i debiti degli Stati membri in difficoltà; o una loro quota consistente. È la proposta degli eurobond; per alcuni sono “la soluzione”; per altri – come l’agenzia di rating S&P – non farebbero che trasferire lo stato comatoso dai paesi beneficiati a tutta l’eurozona. Default per tutti.
Ma gli eurobond difficilmente potrebbero risolvere il problema; nemmeno nella versione proposta da Prodi e Quadrio Curzio, che ai bond emessi a copertura dei debiti di alcuni Stati ne affianca altri per finanziare un programma europeo di Grandi opere. Con l’intento di promuovere quello che l’Italia e altri paesi non riescono a fare da soli: “rilanciare la crescita” – da tutti considerata la strada maestra per azzerare il deficit e ridurre il debito – avendo però messo “al sicuro” i conti pubblici. Ma quella crescita non è così facile “rilanciarla”: in Italia non c’è più da tempo e sta non a caso svanendo anche in paesi fino a ieri considerati “locomotive” economiche.
Inoltre, la principale iniziativa europea per produrre crescita si chiama Ten (Rete transeuropea di trasporto). Anche se con gli organi di governo che l’Unione si è data non sembra che per ora ci siano molte altre modalità di intervento praticabili, proposte del genere sono comunque inaccettabili.
È con quella iniziativa, infatti, che oggi si cerca di giustificare lo scempio del Tav in Valsusa, che persino l’Economist considera uno spreco. Ma non è di Grandi Opere che c’è bisogno, bensì di tante “piccole opere” di manutenzione del patrimonio esistente e di conversione ambientale nei settori portanti della vita economica e sociale. Interventi concepiti, progettati, realizzati e gestiti a livello quanto più decentrato; e sottoposti a un controllo dal basso – analogo a quello richiesto per la gestione dei “beni comuni” – imponendo a tutti regole di trasparenza integrale. Esattamente l’opposto di quel che succede sia in Valsusa che altrove. Il Tav infatti non è un caso isolato; rappresenta in modo paradigamatico il modus operandi di un’economia governata dalla grande finanza.
Dove, proprio come in Valsusa, progettazione ed esecuzione di opere gigantesche – costose, inutili, altamente dannose e completamente dissociate dalle esigenze del territorio – vengono realizzate a spese delle finanze pubbliche mediante una catena senza fine di appalti e subappalti sottratti a qualsiasi controllo; e devono essere imposte con la forza – o, in altri casi, fatte svanire con una improvvisa delocalizzazione – tanto che in Valsusa si è arrivati a schierare i carri armati (sì, i carri armati) e 2000 militari per aprire un cantiere.
Il problema allora non è “costituzionalizzare” il pareggio di bilancio per soddisfare il capitale finanziario che tiene in pugno le politiche, non solo economiche, degli Stati con il controllo dei debiti pubblici; né promuovere, con interventi senza senso e prospettiva – e senza ricadute per lavoro e occupazione – una crescita del Pil evanescente, nel vano tentativo di azzerare il deficit con le imposte ricavate da un ancor più evanescente aumento dei redditi.
Il problema è invece quello di imporre con lotte e mobilitazioni le misure necessarie per recuperare risorse da chi le ha e non ha mai pagato. Ma non per buttare il ricavato nel pozzo senza fondo degli interessi sul debito. Quello che occorre è mobilitare le risorse sia finanziare che umane – le conoscenze e i saperi diffusi; la fiducia reciproca che si crea nella lotta – necessarie alla riconversione ecologica del tessuto produttivo.
Non saranno né questo governo né il prossimo a promuovere o consentire una svolta del genere. Ma se non si mette in chiaro che quel debito non va saldato e che è inevitabile affrontare il rischio di un default, ancorché selettivo, si lascia la palla in mano a chi sostiene, e sempre sosterrà, che ai diktat della finanza “non c’è alternativa”; azzerando così qualsiasi prospettiva di riscatto sociale e politico. Per questo è bene capire a che cosa si va incontro e come far fronte a un default; e qui un maggiore impegno degli economisti che condividono queste prospettive sarebbe benvenuto.

Guido Viale

(13 settembre 2011)


7 commenti:

brunaccio ha detto...

Aggiungo in calce e per ora solo che l'articolo non è recentissimo (è di qualche mese fa) ma credo che sia molto valido nell'indicare il problema che va oltre il mero discorso sul default o non default, ma riguarda primariamente il modello di sviluppo.

Anonimo ha detto...

sì è vero brunaccio, ma il modello di sviluppo che i movimenti di lotta vorrebbero proporre deve avere una sponda politica credibile ed affidabile per poter essere minimamente preso in considerazione, sennò proseguirà che noi parliamo di una cosa, e LORO di un'ALTRA. Martedì ho visto Ballarò, c'era Diliberto, un fantasma, che parlava proprio di "un differente modello di sviluppo che deve unire le forze di sinistra in un progetto condiviso e blablabla..." Ma negli ultimi 10 anni lui dove cazzo era? non è stato lui uno dei responsabili delle pluriscissioni avvenute? correggetemi se sbaglio ma noi dovremmo ancora ascoltare costui? io credo di no, ma è anche vero che attualmente una sponda politica non l'abbiamo, e la lotta se non la fai dentro i palazzi la fai per strada, vedi atene. Ma poi sei credibile? probabilmente sì solo se il paese arriverà ad un grado di sfacelo tale che poi tutto sarà permesso, o quantomeno la rabbia sarà giustificata dallo status quo. djordj

brunaccio ha detto...

Djordj

Tu dici

---sì è vero brunaccio, ma il modello di sviluppo che i movimenti di lotta vorrebbero proporre deve avere una sponda politica credibile ed affidabile per poter essere minimamente preso in considerazione, sennò proseguirà che noi parliamo di una cosa, e LORO di un'ALTRA---

Certamente, e io sono perfettamente d'accordo con te!
Però noi dobbiamo sempre ricordarci, quando facciamo politica, di avere questo indicatore e di ragionare tenendo conto di questo parametro, altrimenti non usciamo dallo stesso terreno del nemico, e sul terreno dello sviluppo e della produttività lui è più forte di noi.
Come poi declinare la questione sulla prtaica è la grande sfida che ci attende...allo stesso modo per la sponda politica, essa oggi non c'è ma va costruita dal basso visto che quelle attuali sono, per usare un eufemismo, inadeguate.

E ovviamente questo vale anche per Diliberto, verso il quale però mi sento in dovere di spezzare una lancia: Dilibertp è stato uno dei pochissimi personaggi sitituzionali in questi anni ed è tuttora uno dei pochi fra loro ad avere una lettura discretamente azzecata o perlomeno adeguata (apprezzamento della Cina a parte) del quadro internazionale e della situazione geopolitica.

Massimo Campus ha detto...

Diliberto....Per lo meno non fa parte della casta, almeno perchè vive del suo (seppure ben remunerato) lavoro.

Il problema grosso dell'Italia, nei prossimi anni, sarà un altro. E' passato praticamente sotto silenzio che il signor Monti ha firmato l'altro giorno il patto europeo sul fiscal compact. Una cosa di una portata e gravità tale che meriterebbe altro che un referendum. E poi parliamo del popolo sovrano!!!
L'Italia ha un rapporto di 120 a 100 tra il debito pubblico ed il Pil. Il fiscal compact stabilisce che tale rapporto, in vent'anni, debba passare da 120 a 60. Detta così significa poco. Ma se scendiamo nei semplicissimi numeri è una cosa che fa spavento. Altro che la recente manovra economica! Si tratta di una manovra di 60 miliardi di euro all'anno per vent'anni: Questo gli italiani perduti dietro alle fesserie del festival e del calcio lo sanno? Sanno che significa in termini di macelleria sociale ed umana? Naturalmente costoro contano sulla futura crescita del Pil, ma è demenziale il solo pensarlo. Visto che ciò che attende l'Europa intiera ormai è il declino e non certo la crescita. Su questo accordo i cittadini sono stati interpellati? Sono disposti ad accettare miseria, fame, declino, ritorno al tenore di vita dell'800?Monti dice che è una questione inappellabile. Ah sì? Può un governo di cosiddetti tecnici, senza alcuna mediazione politica, firmare un simile patto? Il Parlamento ha votato, si è espresso?
Altro che rivoluzione e guerra civile.....
Credo davvero che la fuoriuscita dall'euro, a questo punto, sarebbe ancora la soluzione meno pesante.
Il problema, come dice Viale, è che non abbiamo da almeno vent'anni una politica industriale. L'italia è terreno di scorrerie di ogni finanziere corsaro che ci sia sul pianeta. Una politica industriale prevederebbe innanzitutto non
(s)vendere le aziende pubbliche, almeno quelle di importanza strategica per i prossimi anni. (Andate un pò in Francia od in Germania e chiedete chi è il padrone dell'energia, dei trasposti, delle comunicazioni?) Individuare settori strategici in cui investire. Fornire il supporto dello Stato all'investimento in fonti di energia rinnovabili. Non è una battuta: se la Cina domattina offre il 10% in piu' alla Russia per il metano che oggi quest'ultima vende all'Italia sapete che fine fanno le industrie e le famiglie italiane? Diversificare, questo è il primo cardine di una politica industriale QUALUNQUE.
Naturalmente ciò, e qui sono provocatorio, presuppone anche che ci sia un popolo disposto a mettere in discussione pesantemente il proprio stile di vita. Non si può protestare per il continuo rincaro dell'energia e poi non far nulla individualmente per porvi rimedio. Non vogliamo i rigassificatori (e così siamo impiccati a due tubi che vengono da Libia e Russia e che trasportano l'80% del gas che utilizziamo). Non vogliamo le centrali a carbone, le dighe, gli inceneritori, il nucleare, le pale eoliche....Ma continuiamo a girare in canottiera per casa a gennaio, a tenere le luci tutte accese, ad usare smodatamente l'auto, a portarci il telefonino persino al cesso, ad far girare a palla l'aria condizionata pure quando ci sono 25 gradi (caldo sahariano...). Etc, etc, etc. Qualunquismo? Può darsi, ma ricordiamoci che ognuno ha i governanti che si merita (e che elegge). E costoro li ha voluti la maggioranza del popolo italico. Monti compreso, che ha un apprezzamento nei sondaggi (chiunque li faccia) di livello bulgaro.
E non è che l'inizio. Vedrete il prossimo anno quando ci diranno che il Pil non cresce e ci chiederanno altri 60 o 70 miliardi di euro, e così ogni anno....

precari united ha detto...

Sono brunaccio.

Ilic,
credo che ci vogliano sia un grosso lavoro di educazione che è il punto fondamentale, sia normative forti in merito per le imprese e i singoli che proprio non afferrano il bene comune, perchè noi italiani in particolare siamo molto distante dal concetto di bene comune: per i motivi storici ben noti che affondano sulla modalità di unificazione sabauda di cui molto parlammo sul vecchio volanterossa, ma sappiamo anche che ormai di tempo e fenomeni sociali ne sono passati abbastanza per non trasformare ragioni storiche in alibi etici.
Ma ci vorrebbe un governo con tuttaltro orientamento rispetto alla classe politica che rappresenta in modo bipartsan il blocco sociale dominante.

Ipse ha detto...

Hai estremamente ragione sul Fiscal Compact. La cosa come sappiamo, tuttavia è più complessa; di mio, credo che Monti sia stato troppo ottimista nella sua visione verso il nostro futuro come Stato.
Avete entrambi ragione quando si parla di cambiare un popolo... ma come si cambia un popolo? Da qualche parte, ho letto che ci vogliono 3 generazioni al fine di mutare un determinato pensiero innestato in una determinata società...
Non abbiamo tutto questo tempo.

Finalmente (e dico così perchè anche fra i miei più cari amici sono circondato da ecologisti estremisti) leggo di qualcuno che la pensa quasi come me sull'energia.
Ma come dico sempre, l'Italia oggi, starebbe molto meglio se certe "idee" o politiche energetiche fossero state attuate 20 anni fa, ora è un po' difficile, ma ci si può provare.

Ora invece un discorso un po' difficle. La moneta...
La moneta è una brutta bestia. Ho partecipato a 2-3 seminari, tra cui in due di questi, vi erano importanti esponenti dell'Istruzione Universitaria. Vi assicuro che lasciare l'euro è un casino. Ma se ci sarà un articolo ad hoc lo approfondiremo lì. ;)

Non penso che ci chiederanno altri soldi. Io seguo la corrente sociologica che sostiene (e in parte lo avete detto anche voi al punto: ogni popolo ha il governo che si merita) che ogni società, ha le sue istituzioni, i suoi riti e simboli.
L'italiano, secondo molti studi, è egoista. Si lo so, ma anche questo sarebbe lungo da scrivere e datemelo per buono.
Oltre ad essere egoista, è un accumulatore...ossia quel tipo di persone pazienti che assorbe assorbe assorbe, e poi il delirio.
La storia ci insegna che fin quando i Borboni o gli Austriaci ci hanno trattato in un certo modo (seppur al limite) nessuno a mosso un dito. Appena hanno superato quella soglia, è accaduto il delirio.

In sostanza, se le cose andranno peggio di così, non ci saranno più tassisti oligopolisti a bloccare le stazioni...
Ma ci saranno anche mia nonna, io e i miei amici e la polizia municipale. ;)

PS. oddio, ho letto ora Brunaccio il tuo ultimo commento... hai tirato fuori anche tu il discorso storico ahahah

brunaccio ha detto...

Ipse.

Sulla moneta sarebbe interessante discutere, e magari lo faremo.
Il problema non è tanto che l'Italia esca dall'euro ma la tenuta dell'eurozona in quanto tale e soprattutto la necessità dei PIIGS di trovare linee comuni per rinegoziare un debito che è assolutamente iniquo e fraudolento.
Ma, appunto, ci torneremo a suo tempo.

Come si cambia un popolo? Ti do ragione sull'urgenza del momento, per questo io continuo a credere che sia necessaria una coercizione giuridica insieme ad un lavoro educativo che, come dici bene tu, non funziona mai su tempi brevi.
Ma, in ogni caso, parliamo di qualcosa molto remotamente 'in potenza', visto che le linee della governance (ovvero, detto velocemente e dunque in modo impreciso, delle forme con cui il capitale finanziario incide sulla politica) portano ad un modello totalmente contrapposto a quello su cui stiamo ragionando.