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lunedì 27 luglio 2020

ARRIVEDERCI A SETTEMBRE

I cogenti impegni lavorativi che in questo periodo si fanno sentire, insieme ad una serie di situazioni personali piuttosto impegnative, ci hanno fatto decidere di fermare il blog fino a settembre.
Comprendiamo l'importanza decisiva di questo momento storico per le sorti dei ceti subalterni, ma proprio per questo pensiamo che sia meglio fermarci piuttosto che cercare articoli in maniera frettolosa, senza i dovuti ragionamenti sui pro e i contro delle argomentazioni, e magari senza poter rispondere adeguatamente ed esaustivamente ai commenti su facebook per mancanza di tempo ed energie.
Quindi, secondo noi meglio riprendere dopo l'estate con un'analisi complessiva sulla fase che è e che verrà e sulle lotte che si daranno.
Arrivederci a settembre. Fino alla vittoria sempre!

sabato 27 giugno 2020

WEEK END MAGAZINE


IL RITORNO

Un Letto Delle Rose E Del Viale Del Cipresso Nella Valle Della ...


Ancora, sorella, il cipresso,
laggiù, coronato
di piccole, pallide rose,
ancora lo stesso

viale, le scale corrose,
da l'ultima estate,
l'antica fontana

che accolse la luna e le stelle,
che accoglie le nevi
che accoglie le foglie
de le vicine alberelle,
ancora nell'aria

quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana,
ancora su la solitaria
villa in rovina
lo spasimo grande de l'ora

le ultime nostre parole,
l'abbandono del nostro sole!
Ancora, sorella,
come due colombi spauriti,
i tuoi grandi occhi smarriti,

su le perdute cose.

(Sergio Corazzini)

venerdì 26 giugno 2020

L'ORGOGLIOSA PROTESTA DEI METALMECCANICI


da  https://ilmanifesto.it/in-piazza-seduti-i-metalmeccanici-si-inventano-la-nuova-protesta/

La manifestazione seduta dei metalmeccanici a piazza del Popolo a Roma

Nella lunga storia metalmeccanica la giornata di ieri avrà certamente un posto. Mai si era vista una manifestazione di questo tipo, men che meno a piazza del Popolo. Più un’assemblea che una manifestazione, sebbene le sedie all’aperto per garantire il distanziamento siano un inedito assoluto. Sotto il solleone romano allo zenit a mezzogiorno, i delegati di Fiom, Fim (pochi in realtà) e Uilm siedono abbastanza disciplinati con la mascherina di ordinanza a coprire bocca e naso, per poi cercare spesso acqua e ombra tra la curiosità dei pochi passanti.
IL METODO DI PROTESTA è nuovo, il merito sempre lo stesso: la rabbia operaia ha attraversato i mesi di Covid con grande responsabilità e Protocolli di sicurezza, la riapertura ha rinfocolato le crisi infinite dell’industria portando in dono nuove incertezze e i ritardi nel pagamento di quella cassa integrazione che per centinaia di migliaia di operai è l’unico sostentamento per l’intera famiglia.
Alle crisi note – Fca, Cnhi, ex Ilva, acciaierie di Terni, Jindal, Bekaert, Blutec di Termini Imerese, Embraco, Whirpool di Napoli, Jalib – e irrisolte si sono unite nuove vertenze di cui nessuno parla, che atterriscono però interi territori. Sulla pedana che fa da palco si alternano i delegati che ne raccontano di ogni, con numeri che parlano da soli: oltre i 170 tavoli di crisi aperti al Mise che coinvolgono più di 80 mila addetti mentre si stimano – per difetto – circa 300 mila operai coinvolti in imprese in difficoltà conseguenti agli effetti del Covid-19.
C’è la Italtel che l’anno prossimo festeggerà un secolo di vita, presidio decisivo nella comunicazione, ora diventata information and comunication technology (Ict). I suoi 970 lavoratori divisi fra Milano, Roma e Palermo sono allarmati da una situazione societaria fatta di cessioni di debiti e strane proposte di «prendere o lasciare», sullo sfondo della guerra per la banda larga con Telecom che si avvicina all’acquisto di Open Fiber. «La nostra paura ha un nome preciso: spezzatino», spiega Ivano Improta, delegato Fiom. La compagine societaria è ormai un puzzle formato da fondi di investimento (Pillarstone Italy Rsct che ha acquistito da Unicredit un credito da circa 100 milioni), concorrenti che la vorrebbero spolpare Cisco, e un azionista di maggioranza (Exprivia) in grande difficoltà che sembra volersi disimpegnare anche a causa di una richiesta di concordato in bianco al tribunale per «capitale sociale sotto i minimi di legge». «Alla videocall con il Mise i vertici aziendali hanno preso tempo, mentre noi chiediamo un intervento diretto e concreto della politica, muovendosi con i soggetti da lei controllati (Cassa depositi e prestiti, Sace, Invitalia) per aiutare Italtel. Va scongiurato a ogni costo il rischio spezzatino: solo un Italtel unita, come ora, può garantire un futuro ai propri dipendenti».
La storica Italtel – 99 anni di vita e quasi mille dipendenti – ha una proprietà degna di un puzzle: fondi che comprano i crediti delle banche, concorrenti che puntano allo spezzatino
UNA CRISI CHE RISCHIA di avere molti tratti in comune con quella irrisolta della Sirti e dei suoi oltre 760 addetti, da un anno alle prese con una lenta agonia a cui i lavoratori si oppongono con tutte le forze.
Il gruppo Dema (730 addetti) è alle prese con la ristrutturazione del debito, la Semitech (200 dipendenti) con il concordato liquidatorio, la Abb è in attesa di un socio.
POI C’È IL GRANDE BUCO dell’automotive. Un settore praticamente fermo da quattro mesi in cui lo stallo nella fusione Psa-Fca si riproduce a cascata con effetti dirompenti nei vari stabilimenti italiani. La situazione peggiore è a Cento (Ferrara), dove Pamela lavora assieme ad altri mille dipendenti. «Produciamo motori diesel, un segmento che rischia di sparire fra rivoluzione tecnologica e Covid. La paura è tanta, ma per fortuna c’è ancora la voglia di lottare», spiega dal palco.
L’UNICA CRISI CHE SEMBRA veramente superata è quella delle ex Breda Menarini di Bologna e Irisbus (ex Fiat) di Flumeri (Avellino). La nascita di Industria italiana autobus nel 2014 doveva rilanciare la produzione di autobus in Italia, ma per anni la produzione era più in Turchia che da noi. Dopo il flop della soluzione Fs proposta da Di Maio, da inizio 2020 le cose sembrano essersi aggiustate con nuove commesse e anche assunzioni: «60 giovani a Flumeri». Ma solo grazie all’intervento pubblico: 18 milioni da parte di Invitalia. Quello che chiedono a gran voce tutti i delegati. Per evitare una crisi ancora peggiore di quella del 2008. Da cui non tutti erano ancora usciti prima del Covid.

mercoledì 24 giugno 2020

NON CHIAMIAMOLO SMART WORKING

da  https://ilmanifesto.it/smettiamola-di-chiamarlo-smart-working/?utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0DadEBHtPctlP1fH-O99BIJdVsNwMzwhZhofvsWBWR1pV9_zZjxqA4cWE#Echobox=1592938029



Francamente, non se ne può più di sentirlo chiamare smart working. In altri paesi sono più obiettivi e il lavoro da casa lo traducono in inglese per quello che è, home working. Questa moda di definirlo smart, sorridente, è un trappolone linguistico nonché concettuale secondo cui chi lavora dal proprio soggiorno, camera o cucina lo faccia sorridendo, forse ballando, insomma in una specie di semi vacanza visto che è lontano dagli occhi del capo. I mesi di clausura hanno dimostrato che le cose nella realtà sono molto diverse e che il lavoro da casa rappresenta una fatica in più, non in meno, soprattutto per le donne che continuano ad avere sulle spalle il maggior carico del lavoro di cura.
Molte ne sono così consapevoli che un gruppo di madri e lavoratrici tedesche circa un mese fa ha organizzato una class action emettendo una fattura di ottomila euro allo Stato come richiesta di compenso per il lavoro supplementare svolto durante la chiusura delle scuole. Diffusa con l’hashtag CoronaElternRechnenAb (i conti dei genitori per il coronavirus), la somma compenserebbe simbolicamente i servizi educativi che i genitori hanno dovuto compiere, oltre al proprio lavoro, al posto delle scuole chiuse, ma anche tutte quelle mansioni mai riconosciute e che comprendono fare la colf, l’infermiera, la badante, la cuoca, la psicologa, la governante, insomma la problem solver a tutto tondo.
POCHI GIORNI FA, questa volta a Zurigo, il tribunale federale ha dato ragione a un’impiegata che aveva chiesto al datore di lavoro, senza successo, di contribuire all’affitto della propria abitazione che aveva dovuto in parte destinare a ufficio. I giudici hanno stabilito che la dipendente ha diritto a un indennizzo di 150 franchi al mese da rimborsare anche retroattivamente e che il contributo va riconosciuto anche per spese di mobilio pure se il lavoro da casa è volontario.
Torniamo in Italia dove, secondo i dati Istat, il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet in casa e solo nel 22,2% dei casi ogni componente ne possiede uno. Ripensiamo ai mesi di confinamento con la gran parte degli uffici chiusi e scuole sbarrate. Immaginiamo una famiglia di tre o quattro persone dove i genitori e i figli devono seguire da remoto lavoro e lezioni. Poco più di 22 su 100 fra loro possono lavorare o studiare contemporaneamente, mentre quasi 34 su 100, ben un terzo della popolazione, non può fare nulla di nulla, esclusi da tutto.
LA SETTIMANA scorsa, il giuslavorista Pietro Ichino ha detto che per la maggior parte dei dipendenti pubblici «Lo smart working è stato una lunga vacanza pressoché totale retribuita al 100%», seguito a ruota dal sindaco di Milano Beppe Sala che ha dichiarato: «Stop a smart working. Torniamo al lavoro. L’effetto grotta è pericoloso». Ma come, fino a poco fa tutti a benedire la possibilità di lavorare in remoto e adesso chi lo ha fatto si sente dare del fannullone? Ci sarà anche stato chi ne ha approfittato, ma come la mettiamo con quel terzo di italiani esclusi da tutto? Servirebbero dati certi prima di dare giudizi, sennò viene da pensar male. Ovvero, che questo atteggiamento altalenante nasca da una mentalità che vuole il lavoratore sempre a disposizione, quando e come fa comodo a chi dirige e comanda. Oggi mi vai bene a casa, domani in ufficio, fai i turni che decido io, quando lo decido io e prendi la paga che voglio io. Se sei in smart working, le spese sono a carico tuo. E non lamentarti eh, perché sei già fortunato ad avere un lavoro. Ah lo vuoi chiamare home e non smart. Lo vedi che sei lavativo.

mercoledì 17 giugno 2020

GLI STATI POPOLARI

da  https://ilmanifesto.it/abou-incontra-conte-ascoltate-gli-invisibili-ora-gli-stati-popolari/

Aboubakar Soumahoro a villa Pamphilj

Una lunga giornata di lotta e di attesa. Finita con un incontro insperato con il presidente del Consiglio e con l’annuncio della «convocazione degli Stati polari» per dare voce a tutti coloro che sono «invisibili». Aboubakar Soumohoro, il sindacalista dell’Usb che con il suo impegno per migranti e bracciati è diventato un simbolo riconosciuto in tutto il paese, ha portato la sua lotta a Villa Pamphilj, incatenandosi a pochi metri dalla sede degli Stati generali convocati dal governo nel grande parco romano. Accompagnato da alcuni altri attivisti dell’Usb e poi da un numero di persone sempre più numeroso, Abou ha iniziato uno sciopero della fame e della sete, chiedendo al presidente Conte di essere ascoltato.
LA SVOLTA ALLE 16: da villa Pamphilj l’entourage del governo chiama e organizza l’incontro. Una mezz’ora di dialogo schietto e diretto, in pieno stile Abou. «Siamo stati ricevuti dal presidente del Consiglio, dalla ministra Catalfo e dal ministro Gualtieri. Abbiamo rappresentato le ragioni di questo sciopero della fame e della sete partito questa (ieri, ndr) mattina. Ma le ragioni partono da molto lontano, dalla morte di tanti invisibili nelle campagne, africani e italiani, da Paola Clemente fino a Mohamed Ben Ali qualche giorno fa a Borgo Mezzanone, dal grido di dolore di migliaia di lavoratori che i vari governi che si sono succeduti in questi anni non hanno mai ascoltato», spiega Abou.
GIÀ DA QUALCHE GIORNO, Abou e l’Usb avevano definito la loro piattaforma rivendicativa. «Abbiamo portato le nostre tre proposte: la riforma della filiera agricola liberata dal giogo della grande distribuzione che porta al caporalato e allo sfruttamento nelle campagne con la “patente del cibo”; un piano nazionale di emergenza per il lavoro che tuteli tutti coloro che rischiano di perderlo, giovani, precari, lavoratori dell’ex Ilva e della Whirlpool di Napoli e di tutte le altre crisi; sulle politiche migratorie chiediamo che la regolarizzazione non sia legata alla raccolta della frutta – che non marcirà mai perché di lavoratori nelle campagne ce ne sono – ma va legata alla crisi sanitaria – in quanto il lavoro agricolo ad inizio pandemia è stato considerato essenziale – convertibile poi per attività lavorativa. A questo si lega il tema della razzializzazione: in tanti in Italia si sono indignati per le violenze della polizia contro gli afroamericani ma anche nel nostro paese la situazione è la stessa per via della legge Bossi-Fini e dei decreti sicurezza di Salvini che vietano alle persone il diritto di cittadinanza. Per questo chiediamo al governo di ridare a tutte queste persone il diritto di esistere, a partire dai bambini che sono nati in Italia».
Agli indignati per le violenze contro gli afroamericani diciamo che qui la situazione è la stessa: la legge Bossi-Fini e i decreti sicurezza di Salvini vietano alle persone il diritto di cittadinanza
L’IDEA DELLA «PATENTE del cibo» – che «garantisca ai cittadini di sapere dove è stato prodotto quello che mangiano e che sia stato prodotto senza sfruttamento» – ha trovato grande riscontro nel governo: «il presidente Conte ha detto che è un’idea bellissima, un’idea geniale e che si attiverà per metterla in pratica», riporta Abou.
SUL «PIANO NAZIONALE di emergenza del lavoro» e sulle questioni migratorie invece le risposte sono più interlocutorie e meno soddisfacenti. «Il presidente Conte sul piano del lavoro ci ha chiesto “proposte articolate in merito” che noi gli presenteremo al più presto», mentre «sulla regolarizzazione ha detto che l’articolo 103 del decreto Rilancio prevede già il permesso di soggiorno ma che interesserà il governo per approfondire il tema». La risposta più deludente è stata sicuramente sui decreti Sicurezza: «ci ha detto che il programma di governo prevede di riformarli, non ha mai parlato di cancellarli come noi chiediamo», commenta il sindacalista dell’Usb.
Anche per questo arriva l’annuncio di una nuova sfida al governo. «Prima di salutarci l’ho informato che lavoriamo alla convocazione degli Stati popolari. Loro hanno fatto gli Stati generali, noi faremo gli Stati popolari nelle prossime settimane a Roma: chiameremo a parlare giovani, precari, disoccupati. Uno spazio aperto nel rispetto di principi e di valori. Tutti coloro che non si riconoscono in uno stato che non rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, come prevede la nostra Costituzione, che impediscono alle persone di poter condurre un’esistenza dignitosa», conclude Abou.

lunedì 15 giugno 2020

USA, UNA REPUBBLICA SENZA PARTECIPAZIONE

Un articolo secondo noi molto utile -al di là del concordare o meno con le posizioni dell'autore del tutto o in parte che sia- nello spiegarci diversi meccanismi del sistema elettorale e sociale statunitense, meccanismi che convergono nell'impedire mobilità sociale e partecipazione democratica alle masse dei subalterni afroamericani; utile anche nel mostrarci un sistema oligarchico dal punto di vista economivo, e nel fare un quadro storico di un contratto sociale che si rompe proprio per l'eccessiva forbice economica e la mancanza di uno stato sociale.



da  https://jacobinitalia.it/stati-uniti-il-fallimento-di-una-democrazia/



Ciò che sta succedendo in queste settimane negli Stati uniti ha anche un’origine istituzionale che riguarda diversi aspetti della vita democratica del paese. Non è questo il tempo di una disamina generale delle gravissime pecche – che vengono costantemente rimosse nell’analisi mainstream – di quella che solo con grande generosità potremmo definire «democrazia» statunitense. È però indispensabile capire che le tensioni razziali vanno viste e spiegate nell’ottica di un fallimento generalizzato delle istituzioni inclusive e partecipative della vita pubblica. Più che a una dittatura della maggioranza (bianca), ci troviamo davanti a un sistema che sempre più assume i contorni dell’oligarchia in cui una divisione fittizia in tante minoranze consente il predominio di classe dei pochi. 

Voto non per tutti

Gli Stati uniti sono nati come paese istituzionalmente razzista: la famosa democrazia americana era stata costruita sullo schiavismo, e alla Guerra Civile era seguito il Jim Crow che l’aveva semplicemente sostituita con la segregazione. Il sistema politico ed elettorale era ovviamente parte di questa struttura di potere: la difesa delle élite e i limiti alla sovranità popolare integravano al loro interno un razzismo istituzionale. Come racconta il grande storico Eric Foner sulle colonne della London Review of Books, il sistema dei collegi elettorali – nato per evitare l’elezione diretta del Presidente e per mantenere quindi un controllo oligarchico sulla sovranità popolare – era ben presto diventato un bastione del razzismo istituzionale: negli Stati del Sud, il calcolo dei grandi elettori, proporzionale alla popolazione, era fatto aggiungendo ai cittadini bianchi il 60% del numero totale di schiavi, così da aumentare il peso specifico degli Stati di quella che sarà poi la Confederazione. E la vittoria del Nord nella Guerra Civile non cambiò le cose, anzi, le peggiorò: l’intera popolazione nera era ora inclusa nel conteggio per determinare il numero di grandi elettori, ma il sistema segregazionista l’escludeva de facto dal voto, inflazionando il potere di voto e di veto degli elettori bianchi. 
Grazie al movimento per i diritti civili, le cose finalmente cambiarono solo nella seconda metà del ventesimo secolo. Ma l’estensione della franchigia elettorale e l’implicita maggiore inclusività delle istituzioni politiche fu presto sovvertita da una struttura di potere, con istituzioni sia formali che informali, che remava in senso opposto. Come noto, i casi di «vote suppression» si moltiplicano con strumenti che vanno dall’impossibilità di voto per posta o anticipato (negli States si vota in giorni lavorativi e per molti non è possibile recarsi alle urne); alla richiesta di identificazione personale sempre più complicata; e, soprattutto, alla rimozione di decine di migliaia di votanti dai registri elettorali per ragioni a dir poco astruse. Le vittime sono, soprattutto, elettori afroamericani. Non solo: la pratica del gerrymandering, soprattutto negli Stati repubblicani, permette al governo locale di disegnare i distretti elettorali a propria discrezione così da rendere ininfluenti i voti della parte avversaria. Tale è il potere di questo strumento che, nel 2012, se l’elezione del presidente fosse avvenuta tramite i distretti elettorali (è una delle proposte di riforma per eliminare i grandi elettori) Mitt Romney sarebbe finito alla Casa Bianca nonostante Obama avesse ricevuto 5 milioni di voti di più del candidato repubblicano. La realtà è che negli Stati del Sud la situazione è cambiata solo nella forma ma non nella sostanza: gli elettori afroamericani non sempre possono votare e il loro voto continua a essere manipolato dal potere. 
Il problema però va al di là dei pur importantissimi meccanismi elettorali e coinvolge la vitalità delle cosiddette mid-level institutionsla famigerata sentenza della Corte Suprema «Citizen United» ha rimosso qualsiasi limite a quanto le corporations possano spendere per finanziare le campagne elettorali, peggiorando drammaticamente una situazione già critica. Il denaro, molto più delle idee e dell’ascolto dei bisogni dei propri elettori, è la variabile decisiva nella vittoria o sconfitta dei candidati, che sono così alla più completa mercé delle lobbies. L’efficacia dell’azione politica è chiaramente dipendente dalla capacità di influenzare i risultati elettorali: le vittorie del Movimento per i Diritti Civili furono possibili anche perché minacciando di boicottare i candidati democratici (che allora, nel Sud, erano i difensori della segregazione), King e i suoi forzarono la mano prima di Kennedy e poi di Lyndon Johnson. Scenari di questo genere sono impensabili ora. Il caso dell’elezione di Obama è istruttivo in questo contesto: se è vero che una parte maggioritaria dell’elettorato statunitense (ma non dell’elettorato bianco…) può eleggere un Presidente afroamericano, rimane impensabile che questi possa riformare il sistema. Non solo durante i due mandati di Obama nulla o quasi è cambiato, come vedremo, per quel che riguarda gli abusi razzisti della polizia e l’organizzazione di classe del sistema giudiziario; ma vale soprattutto la pena di ricordare che mentre la Casa Bianca si affrettava a salvare le grandi banche e le fortune azionarie di una minuscola percentuale di straricchi bianchi, milioni di famiglie afroamericane perdevano la casa. Questione di priorità e, appunto, di veri referenti politici. 

Legge diseguale e repressione

Il dato drammatico che ci aiuta a capire lo stato comatoso delle istituzioni democratiche viene dal sistema giudiziario: gli Stati uniti hanno il più alto pro-capite (ma anche assoluto!!) di persone carcerate; 0,7 persone ogni 100 sono in galera. E naturalmente le questioni sociale e razziale nuovamente si  accavallano: i poveri sono i più colpiti e tra loro, ovviamente, la popolazione di colore, che rappresenta il 40% della popolazione carceraria. In altre parole, oltre il 2% del totale degli afroamericani è «ospite» del sistema carcerario, il che peraltro ha anche implicazioni sul voto, essendo, in moltissimi stati, i condannati esclusi dall’elettorato attivo. Gli arresti, poi, sono 3.251 ogni 100 mila abitanti: secondo Aclu, per ogni tre bambini neri nati oggi, uno è destinato ad andare dietro le sbarre.
Questi numeri spaventosi implicano un sistema retto più dalla repressione (rule by force) che dalla legge (rule of law) e dal consenso. Il fattore principale per spiegare questa situazione è un contesto socio-economico di grande degrado, povertà e bassissima mobilità sociale: dati che indicano tensioni che normalmente non trovano una soluzione politica ma repressiva. Vale la pena di notare che il giro di vite sull’uso della prigione come strumento di governo è figlio del neoliberismo: politiche economiche estrattive e di sfruttamento sono state accompagnate dalla criminalizzazione, morale e legale, della povertà da esse provocate. Con Reagan la popolazione carceraria raddoppiò, ma fu poi l’amministrazione Clinton a istituzionalizzare il trend con il famigerato «federal crime bill» (scritto, tra gli altri, da Joe Biden) che portò al moltiplicarsi delle prigioni (con un gigantesco giro di affari) e ovviamente dei detenuti. Non è allora certo un caso che proprio a partire dagli anni Ottanta il gap salariale tra neri e bianchi sia cresciuto: da una parte la polarizzazione del reddito e dall’altra il fatto che un numero sempre maggiore di afroamericani finisca nel sistema penitenziario, perda il lavoro e sia costretto in low-skilled jobs
Il sistema penale è costruito su assi razziali e classisti. Anche tralasciando il sistema di cauzione che è prevalentemente basato sulla ricchezza e non sul rischio di fuga o reiterazione del reato, i «white-collars crimes» sono largamente ignorati, mentre un povero, a maggior ragione se nero, può essere arrestato per i più disparati motivi, come per esempio aver attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali. Innumerevoli sono i casi di cittadini afroamericani fermati, arrestati e poi rilasciati senza nessun motivo. Ciò che è peggio è che, molto spesso, è il portafogli a determinare innocenza o colpevolezza degli imputati a processo. C’è un che di perverso nel funzionamento della giustizia: anche tralasciando gli scandali di mala-giustizia (tipo quello dei Central Park 5, ragazzini neri e ispanici la cui unica colpa era trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato), che sono comunque non aberrazione ma conseguenza del sistema,  i procuratori preferiscono perseguire reati commessi da poveri difesi da legali d’ufficio così da mantenere il loro success rate alto; tralasciando invece i casi complicati contro armate di avvocati con risorse finanziarie pressoché infinite, in grado di tenere sotto scacco la pubblica accusa. Inoltre l’elezione diretta dei procuratori, come nel caso delle elezioni politiche, è fortemente influenzata dal sostegno economico dei più ricchi, che determinano di conseguenza anche la gerarchia dei crimini da perseguire. E quando non ci pensa il sistema giudiziario, interviene direttamente la politica: immunità per i dirigenti sanitari durante la crisi del Covid-19 sotto la presidenza Trump; e immunità per i finanzieri ai tempi di Obama – come ha chiosato Robert Reich «ci sono stati più arresti tra manifestanti e giornalisti nell’ultima settimana che tra banchieri durante la crisi». Ma nessuna pietà per i cittadini «normali», e men che meno per i neri e poveri. 

Il braccio violento della legge

In un contesto del genere, non può sorprendere che la polizia sia una scheggia impazzita ma funzionale al sistema. La repressione, lo abbiamo detto, è una scelta innanzitutto politica e rispecchia una distribuzione del potere che non ha nulla di inclusivo – e non è certo un caso che le società più violente, e quelle dove è maggiore il ricorso al «braccio violento della legge» siano quelle meno inclusive. Prova ne sia che negli Stati uniti la polizia, negli ultimi anni, è diventata a tutti gli effetti un esercito. Fin dai tempi di Clinton l’eccesso di produzione di armi per la forze armate è stato assorbito dalla polizia locale, inclusi tank leggeri che vengono usati per mantenere l’ordine pubblico, come durante le proteste a Ferguson (per l’uccisione, naturalmente, di un altro afroamericano, Michael Brown). Un’escalation militaresca – si pensi che gli interventi delle teste di cuoio sono cresciuti del 1.600% in trent’anni – che nemmeno l’intervento di Obama, a dire il vero piuttosto blando, riuscì a frenare.
A questo va aggiunto un razzismo «istituzionale» delle forze dell’ordine: non solo un retaggio culturale che viene da lontano; non solo un problema di scontro quotidiano nei ghetti più miseri. Ma una vera e propria scelta politica: addirittura l’Fbi ha indagato sui legami tra suprematisti bianchi. La popolazione nera è vittima di continue vessazioni; e proprio le scene di questi ultimi mesi e settimane danno un’idea drammatica di forze di polizia che nemmeno tentano di nascondere la loro partigianeria: spedizioni armate di cittadini bianchi platealmente ignorate mentre si bastonavano a più non posso manifestazioni pacifiche antirazziste.  
C’è un legame sistemico tra politica locale e polizia che va ben al di là dell’appartenenza partitica. Il caso più clamoroso è quello di Rahm Emmanuel, già capo di gabinetto di Obama, che si distinse come sindaco di Chicago per aver tentato in tutti i modi, insieme al procuratore, di insabbiare l’orrida vicenda di Laquan McDonald, un ragazzo assassinato con 16 colpi da un poliziotto con relativo depistaggio: tutto filmato, tutto a conoscenza delle autorità, ma che solo il caso portò alla ribalta. L’ottimo exposè su quel caso, girato da Richard Rowley, si intitola non a caso «Blue Wall» (Muro Blu) per sottolineare come dietro l’episodio non ci fosse la classica mela marcia ma un sistema compatto a difesa delle divise (blu). D’altronde la storia della polizia di Chicago è ricca di scandali anche peggiori, incluso un ricorso sistematico alla tortura fino alla fine degli anni Ottanta. E anche un  Democratico progressista e sostenitore di Bernie Sanders come il sindaco di New York Bill De Blasio, che pure aveva avuto qualche problema con la polizia locale, nei giorni scorsi si è affrettato a difendere lo spropositato uso della forza di alcuni agenti della Nypd che avevano tentato di investire con le loro macchine dei dimostranti. Ben peggio fecero i suoi predecessori, dall’incostituzionale e chiaramente razzista stop and frisk di Michael Bloomberg ai proiettili «bum bum» adottati durante l’epoca di Rudolph Giuliani. Allo stesso tempo, i procuratori non hanno incentivo a inimicarsi i poliziotti da cui dipendono per le loro indagini; e anche nei rari casi in cui l’esistenza di video-registrazioni porta a incriminazioni e processi, come nel celeberrimo pestaggio di Rodney King, il sistema rimane dalla parte della polizia: omertà, «spirito di corpo», uso «legittimo» della forza perché in situazioni soggettivamente e arbitrariamente giudicate di pericolo. Quel che risulta è che la polizia, che è organizzata a livello locale, è una istituzione senza check and balance e che gode quindi di un sostanziale livello di impunità che si manifesta in maniera chiara nelle brutalità quotidiane perpetrate; anche quando, raramente, il potere politico è ostile, le forze dell’ordine risultano fondamentalmente intoccabili, un vulnus gravissimo nell’ordinamento democratico.  
Il problema non è dunque, come propongono i Democratici in queste ore, una riforma della polizia: proprio a Minneapolis negli anni scorsi si era implementato un tentativo di riforma, platealmente ignorato e sabotato dalle forze dell’ordine.  Il nucleo della questione risiede nella distribuzione del potere nella società e, di conseguenza, in un sistema penale e di giustizia più inclusivo e non, come appare sempre più evidente, in guerra permanente contro una parte della propria nazione.  

Un contratto sociale rotto

Questi dati danno l’immagine di un «failed state» e in ogni caso di un paese dove il contratto sociale è rotto: seguendo Daron Acemoglu e James Robinson, la concentrazione di ricchezza e un sistema economico estrattivo porta, nei fatti, a un regime oligarchico, con le istituzioni di fatto asservite agli interessi delle élite. Come abbiamo visto, la popolazione afroamericana, rimane una delle principali vittime di questo sistema di potere: non è certo un caso che lo stesso Coronavirus mieta molte più vittime tra le minoranze razziali che tra i bianchi. Alle istituzioni baluardo del privilegio di classe si aggiunge un substrato culturale in cui il razzismo è più vivo che mai: dalla polizia all’alt-right passando per i milionari alla Donald Sterling. Ma che è ancora più viscido perché il «white privilege» è un fenomeno di cui godono tutti i bianchi, che siano o no razzisti. Il problema però va ben oltre il razzismo se pensiamo che, seguendo gli studi di Angus Deaton, è proprio la famigerata «white working class» a essere tra le prime vittime del sistema economico. È inutile girarci intorno: tanto l’elezione di Trump e le manifestazioni fascistoidi di gente armata contro il lockdown, quanto le proteste di questi giorni sono, pur venendo da direzioni completamente opposte, segnali di rottura del contratto sociale. Non mi dilungherò a parlare del significato politico e sociale dei riot, su cui hanno scritto in maniera eloquente Franco Palazzi e Paul Heidemann: basti dire che, come spiegava E.P. Thompson, la rivolta è, in sé stessa, il simbolo di un contratto sociale che non funziona; e una democrazia incapace di risolvere il conflitto (sia esso sociale, razziale, economico, religioso) in maniera pacifica, è, ipso factoun regime in crisi. L’appello al voto di questi giorni, dunque, lascia il tempo che trova – in fondo Joe Biden è quello che si è presentato ai suoi ricchi donors con lo slogan «nulla di fondamentale cambierà». Certo per «Sleepy Joe» queste rivolte potrebbero essere una maniera per ricompattare il fronte sinistro in nome della battaglia anti-razzista, nascondendo sotto il tappeto le tematiche di classe. Sarebbe inutile: seppure il razzismo ha radici storiche e culturali profonde negli Stati uniti, il cuore del problema rimane quel contratto sociale in pezzi. Come ho provato a spiegare altrove, le radici di questa situazione si trovano nella complessa relazione tra mercato e democrazia: un mercato senza controllo che concentra il potere economico e corrompe le istituzioni democratiche. Secondo Colin Crouch, il ciclo neoliberista ha portato a un parziale superamento della democrazia, trasformata in post-democrazia: le istituzioni formali del modello precedente rimangono ma sono vieppiù prosciugate del loro contenuto. Gli Stati uniti sono l’esempio migliore di questo fenomeno – neutralizzazione di fasce importanti dell’elettorato; asservimento del sistema partitico all’élite economica; repressione di massa. La crisi di legittimità di questo regime politico ne segnala però le fondamenta fragili. In questi giorni ne abbiamo avuto l’ennesima prova. 
* Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega Il Mulino.

sabato 13 giugno 2020

WEEK END MAGAZINE


PIANTO ANTICO

Giosuè Carducci: Pianto antico - ParlandoSparlando

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
(Giosuè Carducci)

giovedì 11 giugno 2020

IL PIANO COLAO

da  https://jacobinitalia.it/come-prima-piu-di-prima-il-piano-colao/



Durante il picco della pandemia e le fasi di lockdown totale l’economia ha retto grazie soprattutto a quei lavoratori e lavoratrici troppo spesso tacciati di bassa produttività e valore aggiunto e, per questo, meritevoli di  bassi salari. Si tratta dei lavoratori della logistica, schiacciati dallo strapotere di Amazon che impone loro ritmi e modalità di lavoro; dei rider vittime del caporalato digitale e ancora soggetti al ricatto dello status di falso autonomo e del salario a cottimo nonostante la sentenza 1663/2020 della Corte di Cassazione che stabilisce per loro le stesse tutele del lavoratore subordinato; si tratta dei lavoratori della filiera agro-alimentare, dai braccianti – vittime di una «regolarizzazione per utilità di mercato» – alle addette alle casse della grande distribuzione; si tratta degli infermieri che all’interno della stessa unità ospedaliera possono essere soggetti a condizioni differenti grazie alla possibilità di ottenere personale dalle cooperative attraverso operazioni di esternalizzazione del servizio. 
Queste categorie di lavoratori sono anche quelle più colpite: ogni crisi nella storia del capitalismo è stata scaricata sulla merce-lavoro e questa non è da meno. Vincenzo Galasso, così come il techincal report del Joint Research Centerconfermano come i più colpiti dalla crisi conseguente alla pandemia sono proprio i lavoratori e le lavoratrici, i soggetti con condizioni occupazionali peggiori e salari più bassi. 
Dalle grandi abilità e competenze dei tecnici nominati all’interno della task-force e guidati dal super-manager Vittorio Colao – ex amministratore delegato di Vodafone – ci si aspettava un rapporto realmente tecnico, con analisi e numeri a supporto delle loro proposte, con relativa quantificazione e fonti di finanziamento. In realtà, si tratta solo di una tenera e ideologica lettera del figlio liberale che, come in ogni fase di crisi capitalistica, chiede assistenza gratuita a papà Stato per aiutarlo a sopravvivere e porre la basi per la riproduzione e successiva accumulazione del capitale. 

Ripartire, ma senza lavoro

Questi lavoratori e lavoratrici, tuttavia, sono del tutto assenti nella concezione di lavoro attivo – cioè di partecipazione alle decisioni della produzione e quindi di dominio del soggetto sull’oggetto e non viceversa – dal piano tecnico presentato da Colao e dalla sua task-force. 
Nonostante il primo dei sei punti sia intitolato «impresa e lavoro, motore dell’economia» persiste indisturbata la logica liberale per cui sono considerati unicamente l’impresa e il capitale privato i reali carburanti del motore economico lasciando al lavoro il mero ruolo di merce-appendice. Questa visione, infatti, è del tutto coerente con la totale assenza della questione lavoro all’interno dell’intero piano tecnico e un totale sbilanciamento delle soluzioni sulle necessità delle imprese: una sfilza di proposte che spaziano dalla defiscalizzazione ai crediti di imposta per facilitare aumenti di capitale e accentramenti, garanzie su prestiti ed estensione dei meccanismi di accesso alla liquidità, aumento delle concessioni ai privati nel settore del turismo e alla partecipazione del privato nel definire i percorsi educativi. 
All’interno della prima sezione, infatti, pochi sono gli accenni al lavoro che si traducono, nei fatti, in soluzioni per l’impresa stessa. Come ad esempio, il suggerimento di derogare al «decreto dignità» in tema di rinnovo dei contratti a tempo determinato, «per almeno tutto il 2020». O i meccanismi di premialità associati alla sanatoria per il lavoro nero: lavoratori che auto-dichiarano lavoro nero saranno ricompensati con una riduzione del cuneo fiscale. Al contrario, nessun accenno ai controlli sulle imprese che lavorano in nero e generano un ammanco di versamento di contributi a loro carico di 6,4 miliardi (relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva anno 2018 – Mef). È un impianto logico coerente con quanto previsto durante il lockdown, ossia totale carenza/assenza di controlli sulle 192 mila imprese aperte in deroga. 
Inoltre si colpevolizza, di nuovo con la solita retorica liberale, il disoccupato/cassaintegrato attribuendo tale condizione alle loro mancanze tecnico-conoscitive. Infatti, la task-force propone di introdurre la «riqualificazione» come condizionalità di accesso ai sussidi. 
Quest’ottica di competenza per il mercato – e non per l’essere – è presente anche nel capitolo dedicato all’educazione dove viene proposta esplicitamente un’«education-to-employment», i cui corsi di formazione dovrebbero essere forniti (anche a pagamento) da imprese private e tenuti da manager/dirigenti, come norma raccomandabile/obbligatoria per accedere a sussidi quali il reddito di cittadinanza. Insomma, il mercato come ente supremo totalizzante che definisce la vita dell’individuo secondo le proprie necessità sin dalla scuola secondaria con «career education» e «career and life counselling» con le imprese private che possono finanziare miglioramenti tecnologici nella didattica tramite «l’adozione di una classe». 
Non solo mancano totalmente i problemi fondamentali del mondo del lavoro di oggi, quali la stagnazione salariale e la necessità di introdurre un salario minimo, le condizioni materiali e di sicurezza (ricordiamo che in tempi «normali» l’Italia presentava in media tre vittime sul lavoro al giorno), il lavoro in appalto, le forme di precarietà e di remunerazione a cottimo, ma viene invece delineata quale deve essere la natura dell’individuo e del lavoro. Per la task-force l’individuo sin dalla scuola secondaria deve essere un pezzo del mercato, un’appendice dell’impresa a cui deve adeguarsi, riproponendo l’ennesima visione passiva del lavoro. 
Il lavoro non viene considerato nemmeno nel capitolo secondo, dove il piano per il rinnovamento infrastrutturale è anche in questo caso definito solo per lo sviluppo competitivo delle imprese facilitando unicamente lo spostamento rapido delle merci. Insomma, per i soggetti-lavoratori non viene proposta alcuna riforma del sistema dei trasporti, specie su rotaia. Permane l’attuale impianto regressivo di alta velocità, improntato alla realizzazione del profitto, che razionalizza il trasporto locale-interregionale che interessa principalmente lavoratori e lavoratrici pendolari, con gli evidenti disservizi e carenza d’offerta nelle regioni meridionali i cui trasporti pubblici sono demandati a soggetti privati su gomma. 
Un altro timido accenno al lavoro si presenta nel terzo capitolo del piano dedicato all’arte e al turismo. L’Italia, come riporta la stessa task-force, ottiene circa il 13% del suo Prodotto interno lordo dal turismo e quindi secondo Colao e colleghi, è necessario elevarlo a vero e proprio brand. Un brand caratterizzato da basso valore aggiunto e alta intensità di sfruttamento del lavoro, con bassi salari e condizioni lavorative del secolo scorso (basti pensare alle polemiche della scorsa stagione sul caso Gabicce). L’unico obiettivo è tutelare l’occupazione, ma favorendo l’impresa attraverso il solito strumento della decontribuzione per i nuovi assunti stagionali e con riduzioni di imposte (Tari, Tarsu e Imu), con l’obiettivo di garantire la stagione turistica al settore. Non una parola sui lavoratori dell’arte o dello spettacolo, e delle guide turistiche, solo la retorica del miglioramento delle capacità formative attraverso stage e programmi di formazione «gestiti e condotti da grandi catene internazionali», in un contesto già saturo di precarietà, esternalizzazioni e privatizzazioni che generano spinte al ribasso dei salari e lavoro gratuito (come già ben spiegato sempre qui su Jacobin Italia).
Anche in questo caso il soggetto-lavoratore che viene dominato dalla produzione-turismo allo scopo di aumentare l’attrattività e i profitti. Infatti, l’idea della task-force è rafforzare il turismo di fascia premium (nautica, enogastronomia, itinerari dello shopping di alto livello) attraendo capitali esteri e dando anche in concessione, a uso alberghiero, beni immobili di valore storico e artistico, o estendendo quelle già in essere (spiagge) per evitare un calo dei profitti e investimenti nel settore. Insomma, di nuovo il fattore lavoro e il bene comune al servizio del profitto. 

Un piano senza Stato 

All’interno della relazione tecnica viene continuamente citata la parola «piano» o «pianificazione», soprattutto in tema di investimenti e rinnovamento delle infrastrutture. Tuttavia, sorge spontanea e immediata una domanda: Chi, come e con quali obiettivi dovrebbe concretizzare questo piano? 
Sono domande inevase da Colao, ma a cui si può facilmente rispondere leggendo la relazione proposta. Infatti, a seguito dell’ideologia del new-public management e dell’egemonia neoliberale, lo Stato ha esternalizzato le sue funzioni e perso le proprie competenze dopo i massicci piani di privatizzazione e smantellamento dell’Iri (l’Istituto per la ricostruzione industriale) negli anni Novanta. Questo implica che lo Stato, ad oggi, non è in grado di svolgere nessun ruolo attivo nel «piano» di Colao, ma è uno Stato limitato e assoggettato alle richieste delle imprese. Uno Stato facilitatore al servizio del privato che non può, ideologicamente e materialmente, partecipare attivamente alla definizione e implementazione del piano per l’economia post Covid-19, e non può democratizzare l’economia partecipando alla formulazione delle risposte alle domande su «come e cosa produrre». 
Infatti, ben consapevoli del ritardo dei nostri dipendenti pubblici rispetto agli altri paesi europei in termini di percentuale di occupazione pubblica (Eurostat) ed età degli occupati (Ocse), la task-force suggerisce una maggior valorizzazione del personale pubblico attraverso processi  selezione più efficaci, che dal loro punto di vista significa volti alle capacità tipicamente richieste da un’impresa privata – problem solving, attitudine a lavori di gruppo, soft-skills manageriali ecc. Nonostante sia evidentemente necessario un massiccio piano di assunzione per aumentare la qualità e le competenze del settore pubblico, la logica di fondo della proposta tecnica è fornire le competenze necessarie a una pianificazione al servizio del profitto privato, piuttosto che fornire allo Stato e a lavoratori e lavoratrici le necessarie abilità tecnico-conoscitive fondamentali per spostare l’attenzione da valore di scambio al valore d’uso di merci e servizi. 
Non ci si poteva aspettare nessuna sorpresa da questa relazione tecnica. Infatti, derogando sempre più a un reale principio democratico, le democrazie liberali fanno affidamento a presunti tecnicismi, che a volte sono astratti – i «mercati» – altri diretta espressione del mondo accademico-manageriale. Gli intellettuali e i tecnici della classe dominante sono riusciti nell’obiettivo di rovesciare il rapporto logico tra tecnica e politica presentando le competenze come neutrali. Tuttavia, la politica per definizione non è un campo neutro e nemmeno i rappresentanti della tecnica sono privi di orientamento ideologico, anzi. Come si evince facilmente dalla composizione della task force sono espressione intellettuale e competente della classe dominante e ne perseguono gli interessi. Lasciare la definizione delle politiche economiche post-pandemia a una task force «tecnica» significa non solo derogare ai principi democratici, ma anche ammettere quali sono i reali interessi di cui lo Stato si vuole prioritariamente occupare in questa nuova fase. Al contrario, occorre una reale democratizzazione dell’economia, con una visione del lavoro attiva e non come semplice merce a disposizione del capitale su cui scaricare i costi di ogni crisi.
*Luca Giangregorio PhD student in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.