Oggi mettiamo due brevi articoli -il secondo del sempre ottimo Marco Bersani, preciso e sintetico- a proposito della privatizzazione delle poste
da http://www.contropiano.org/politica/item/21765-letta-fa-il-colpo-alle-poste
La battuta è facile facile, ma non è possibile trattenerla: il governo ha fatto un colpo alle Poste, stile rapina dei bei tempi andati, quando girava soltanto il contante e banche/uffici postali venivano assaltati un giorno sì e l'altro pure. Ma se la fa un governo si chiama in modo diverso:privatizzazione.Il “colpo” è stato deciso pochi giorni fa, in un normale consiglio dei ministri prescelti dalle banche. Ovvero dai soggetti che, insieme alle assicurazioni, si papperannno quel 40% di azioni di Poste che verrà al più presto immesso sul mercato. Dovrebbe portare quattro miliardi nelle casse dello Stato, il che sembra una buona cosa (meno tagli alla spesa), ma naturalmente non è così.
I quattro miliardi sono una prima tranche (la metà) di quanto serve al governo per soddisfare le richieste di Bruxelles. Intanto perché oberato dai 54 miliardi annuali da pagare in “interessi sul debito pubblico” (le cedole semestrali o annuali da versare sui conti correnti degli obbligazionisti, in genere banche, assicurazioni, fondi comuni, ecc). Comprensibile dunque che questi ultimi soggetti abbiano brindato alla decisione di privatizzare la cassaforte che contiene i risparmi di decine di milioni di cittadini – soprattutto poveri e pensionati – e alimenta la Cassa Depositi e Prestiti, ormai riguardata come l'unico salvadanio scassinabile per fare investimenti. Soprattutto quelli a cazzo, come le “grandi opere”, specialmente quelle inutili e danose (Tav, Corridoio, ecc).
Soprattutto, però Poste è un pericoloso concorrente – pubblico – di banche e assicurazioni private. Il bilancio della società è particolarmente illuminante: ormai l'80% del fatturato di Poste non deriva più dalla distribuzione di lettere e pacchi (la mail e i social network hanno quasi cancellato le prime, la concorrenza di Dhl e simili ha ridotto fortemente i secondi), o dal pagamento delle bollette, ma proviene dall'attività di banca-assicurazione. Una trasformazione risalente ormai a una quindicina di anni fa, quando venne nominato amministratore delegato un certo Corrado Passera (uno dei più abili nella giostra delle poltrone nei consigli di amministrazione).
Se ne parla ovviamente sottovoce, ma Poste è la più importante società di assicurazione italiana nel “ramo Vita”. Non solo: gestisce ben 18 milioni di carte prepagate, un flusso di denaro favoloso su cui trattiene un “aggio” molto leggero (al contrario dei “privati”). Inoltre ha una rete di sportelli incredibile (circa 14.000), con servizi offerti a costi “sociali”, ovvero inferiori – a volte anche di molto – rispetto a quelli pratucati da banche e assicurazioni private.
I 4 miliardi attesi dalla privatizzazione sono dunque una goccia nel mare, in pratica un mese di interessi sul debito (anzi, qualcosa meno). Mentre la liquidità di Poste – e i profitti generati – sono linfa vitale per lo Stato italiano. Non appare insomma una cosa saggia vendere i pozzi o la rete idrica nel momento in cui hai bisogno di acqua.
Sui media mainstream vige l'obbligo del “disorientamento di massa”, e quindi tutti straparlano di “public company” (fu così che venne varata la privatizzazione e distruzione di Telecom Italia, dal governo Prodi ai "capitani" amici di D'Alema) o di assegnazione delle azioni ai dipendenti, a prezzi naturalmente scontati come fu fatto per Alitalia.
Cosa dite? Facciamo esempi di clamorosi fallimenti? Beh, ma non c'è stata una sola privatizzazione, in questo paese, che abbia prodotto un successo industriale. Tutte le aziende pubbliche “messe sul mercato” funzionavano bene o benino, ma una volta date in pasto ai topastri mannari – i nostri imprenditori nazionali non brillano per lungimiranza e spirito competitivo, arraffano quel che possono, spezzettano, rivendono e vanno ai Caraibi; come i Riva, insomma, o i Ligresti – non ne è rimasto granché...
Quindi: la privatizzazione di Poste è insensata dal punto di vista della riduzione del debito pubblico, e si configura come un regalo a banche e assiurazioni private. Intanto perché la privatizzazione, di certo, porterà a un aumento delle tariffe praticate da Poste; sia nella classica distribuzione che, soprattutto, nei “servizi finanziari” offerti. Di quanto cresceranno non è possibile ora dire. Ma di certo verrà eliminato un limite (verso il basso) che costringeva anche gli istituti privati a non eccedere con i costi. Insomma: se si elimina il concorrente che pratica i prezzi più bassi, quantomeno, gli altri possono aumentarli. È così che funzionano in Italia il “principio della concorrenza” e “i criteri di mercato”.
Che questo 40% sia poi soltanto l'avvio della privatizzazione completa, è un'ammissione profferita a mezza bocca dal ministro competente, Fabrizio Saccomanni "si parte con il 40% poi si vedrà".
Prepariamoci dunque a vedere una grande impresa pubblica che fa profitti, offre occupazione ad alcune decine di migliaia di lavoratori e servizi poco costosi a tutta la cittadinanza, diventare in pochi anni un arcipelago di imprese “specializzate”, con poco personale (gli “esuberi” saranno messi a carico degli ammortizzatori sociali – sempre meno – finanziati direttamente dalla spesa pubblica) e costi “nella media del mercato” drogato. Dopo bisognerà cercare qualche cinese o emiro di Dubai perché ne acquisti i rimasugli...
Naturalmente i giornali mainstream - che soltanto "per caso" sono di proprietà di quanti correranno ad accaparrarsi le Poste - vi diranno che è un miracolo dell'”efficienza”, tutto il contrario di qul “baraccone burocratizzato” che custodisce i nostri risparmi e riesce persino a guadagnarci...
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da http://www.senzasoste.it/politica/il-postino-smettera-di-suonare
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane.
Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale.
Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 mld).
Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.
E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA : da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito.
Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.
Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato.
Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata.
Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.
Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare.
Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale.
Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.
Marco Bersani
da http://www.contropiano.org/politica/item/21765-letta-fa-il-colpo-alle-poste
I quattro miliardi sono una prima tranche (la metà) di quanto serve al governo per soddisfare le richieste di Bruxelles. Intanto perché oberato dai 54 miliardi annuali da pagare in “interessi sul debito pubblico” (le cedole semestrali o annuali da versare sui conti correnti degli obbligazionisti, in genere banche, assicurazioni, fondi comuni, ecc). Comprensibile dunque che questi ultimi soggetti abbiano brindato alla decisione di privatizzare la cassaforte che contiene i risparmi di decine di milioni di cittadini – soprattutto poveri e pensionati – e alimenta la Cassa Depositi e Prestiti, ormai riguardata come l'unico salvadanio scassinabile per fare investimenti. Soprattutto quelli a cazzo, come le “grandi opere”, specialmente quelle inutili e danose (Tav, Corridoio, ecc).
Soprattutto, però Poste è un pericoloso concorrente – pubblico – di banche e assicurazioni private. Il bilancio della società è particolarmente illuminante: ormai l'80% del fatturato di Poste non deriva più dalla distribuzione di lettere e pacchi (la mail e i social network hanno quasi cancellato le prime, la concorrenza di Dhl e simili ha ridotto fortemente i secondi), o dal pagamento delle bollette, ma proviene dall'attività di banca-assicurazione. Una trasformazione risalente ormai a una quindicina di anni fa, quando venne nominato amministratore delegato un certo Corrado Passera (uno dei più abili nella giostra delle poltrone nei consigli di amministrazione).
Se ne parla ovviamente sottovoce, ma Poste è la più importante società di assicurazione italiana nel “ramo Vita”. Non solo: gestisce ben 18 milioni di carte prepagate, un flusso di denaro favoloso su cui trattiene un “aggio” molto leggero (al contrario dei “privati”). Inoltre ha una rete di sportelli incredibile (circa 14.000), con servizi offerti a costi “sociali”, ovvero inferiori – a volte anche di molto – rispetto a quelli pratucati da banche e assicurazioni private.
I 4 miliardi attesi dalla privatizzazione sono dunque una goccia nel mare, in pratica un mese di interessi sul debito (anzi, qualcosa meno). Mentre la liquidità di Poste – e i profitti generati – sono linfa vitale per lo Stato italiano. Non appare insomma una cosa saggia vendere i pozzi o la rete idrica nel momento in cui hai bisogno di acqua.
Sui media mainstream vige l'obbligo del “disorientamento di massa”, e quindi tutti straparlano di “public company” (fu così che venne varata la privatizzazione e distruzione di Telecom Italia, dal governo Prodi ai "capitani" amici di D'Alema) o di assegnazione delle azioni ai dipendenti, a prezzi naturalmente scontati come fu fatto per Alitalia.
Cosa dite? Facciamo esempi di clamorosi fallimenti? Beh, ma non c'è stata una sola privatizzazione, in questo paese, che abbia prodotto un successo industriale. Tutte le aziende pubbliche “messe sul mercato” funzionavano bene o benino, ma una volta date in pasto ai topastri mannari – i nostri imprenditori nazionali non brillano per lungimiranza e spirito competitivo, arraffano quel che possono, spezzettano, rivendono e vanno ai Caraibi; come i Riva, insomma, o i Ligresti – non ne è rimasto granché...
Quindi: la privatizzazione di Poste è insensata dal punto di vista della riduzione del debito pubblico, e si configura come un regalo a banche e assiurazioni private. Intanto perché la privatizzazione, di certo, porterà a un aumento delle tariffe praticate da Poste; sia nella classica distribuzione che, soprattutto, nei “servizi finanziari” offerti. Di quanto cresceranno non è possibile ora dire. Ma di certo verrà eliminato un limite (verso il basso) che costringeva anche gli istituti privati a non eccedere con i costi. Insomma: se si elimina il concorrente che pratica i prezzi più bassi, quantomeno, gli altri possono aumentarli. È così che funzionano in Italia il “principio della concorrenza” e “i criteri di mercato”.
Che questo 40% sia poi soltanto l'avvio della privatizzazione completa, è un'ammissione profferita a mezza bocca dal ministro competente, Fabrizio Saccomanni "si parte con il 40% poi si vedrà".
Prepariamoci dunque a vedere una grande impresa pubblica che fa profitti, offre occupazione ad alcune decine di migliaia di lavoratori e servizi poco costosi a tutta la cittadinanza, diventare in pochi anni un arcipelago di imprese “specializzate”, con poco personale (gli “esuberi” saranno messi a carico degli ammortizzatori sociali – sempre meno – finanziati direttamente dalla spesa pubblica) e costi “nella media del mercato” drogato. Dopo bisognerà cercare qualche cinese o emiro di Dubai perché ne acquisti i rimasugli...
Naturalmente i giornali mainstream - che soltanto "per caso" sono di proprietà di quanti correranno ad accaparrarsi le Poste - vi diranno che è un miracolo dell'”efficienza”, tutto il contrario di qul “baraccone burocratizzato” che custodisce i nostri risparmi e riesce persino a guadagnarci...
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da http://www.senzasoste.it/politica/il-postino-smettera-di-suonare
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane.
Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale.
Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 mld).
Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.
E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA : da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito.
Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.
Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato.
Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata.
Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.
Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare.
Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale.
Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.
Marco Bersani
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