Un tributo alla storia del movimento anarchico, tornato alla mente dopo una serata di cantastorie.
Per chi volesse approfondire, consiglio il Canzoniere Anarchico, in cui si trova veramente tanto.
INNO DEI PEZZENTI (O MARSIGLIESE DEL LAVORO)
Noi siamo i poveri siamo i pezzenti
la sporca plebe di questa età
la schiera innumere dei sofferenti
per cui la vita gioie non ha.
Nel crudo inverno la nostra prole
per lunga inedia languir vediam
solo pei ricchi risplende il sole.
Mentre essi esultano noi fame abbiam.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Non sia pace tra i mortali
finchè un uom' sovr'altro imperi
i nemici a noi più fieri
sono i nostri sfruttator
Triste spettacolo le nostre donne
per noi primizie non hanno d'amor
ancora impuberi sciolgon le gonne
si danno in braccio di lor signor.
Son nostre figlie le prostitute
che muoion tisiche negli ospedal
le disgraziate si son vendute
per una cena o per un grembial.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Di patria al nome talor sospinti
contro altri popoli noi si pugnò
ma vincitori fossimo vinti
la sorte nostra mai non mutò.
Tedesco o italico se v'ha padrone
il sangue nostro vuole succhiar
la patria libera è un'irrisione
se ancora il basto ci fa portar.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Nelle officine sui monti e i piani
nelle miniere sudiam sodiam
ma delle nostre fatiche immani
il frutto intiero non raccogliam.
Poi fatti vecchi veniam rinchiusi
dentro un ricovero di carità
e sul berretto di noi reclusi
bollano i ricchi la lor pietà.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Ma se sperare non è utopia
nella giustizia dell'avvenir
il privilegio di tirannia
e turpe regno dovrà finir!
Le nostre lacrime, gli stenti, l'onte
le grandi ambasce sparir dovran
noi già leviamo alta la fronte
per salutar l'astro lontan.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
(Carlo Monticelli 1896)
Per chi si avvicina o sente l'ebollizione del soffio viscerale e aurorale, interiore e materiale, della poesia, credo che non si tratti e non vi sia assoluto bisogno e necessità di proporgli o ricordagli di scrivere in metrica. Tu parti da chi sei; la poesia muore e nasce dal vento; dal mare in tempesta; quando la lotta langue immortale; un animale che muore perché conosce il suo destino; il vento che brucia le speranze, la nave che affonda nel deserto dell'anima e, l'amore che rincorriamo in una corsa di trotto.
Per questo scriverai nel dormiveglia delle mani. Nelle catastrofi delle tue emozioni tenute nel guardaroba del cuore. Nella scia della solitudine con cui giochi a carte. Nelle risacche mai sopite, quando il sole fa ombra ai bambini e il mare risuona dalle caverne di Poseidone. Scriverai mentre stai mangiando. O col fuoco del digiuno. Scriverai con gli occhi pieni di lacrime, perché in fondo hai ancora bisogno di piangere. Scriverai lasciandoti andare; e tu, parla alla pari con la parola e non ordinerai a nessuna di esse di vestirsi coi pantaloni stirati, né le indicherai il confino, né l'oblio, o alla parte della vita che chiamiamo morte. Prima di morire per l'ultima volta, moriamo almeno mille di volte ed è in queste mille volte che scriverai la tua poesia, o semplicemente, la poesia.
I pantaloni, cioè ‘e cazune culor cucozza d’o guaglione
Quand’ero piccolo il giallo zucca per me e tutti i guaglincielli di vico Lepre ai Ventaglieri a Montesanto, era ‘o culore cucozza.
Una domenica mattina, mi lavai per ultimo nella bagnarola in cui si erano lavati mamma, quattro fratelli e cinque sorelle, che stava appesa al muro e tenuta da un crocco gruosso accussì e che prendevamo solo nel giorno di festa. Nel settimo tutta la gente andava a messa per festeggiare la domenica come il giorno di festa. Nella mia famiglia nessuno andava a messa la domenica e negli altri giorni d’a semmana. Tutti sanno che il settimo juorno d’a semmana è festa. io non sapevo perché la mia famiglia non andava in chiesa né sapevo perché il settimo giorno era festa.
Per me e la mia famiglia un giorno di festa era quando ci si lavava uno dopo l’altro nella bagnarola e che tenevamo sopra il cesso per non togliere altro spazio all’unica stanza della nostra casa. Questo non capitava sempre di domenica. CAPITAVA DI FARE FESTA SE I MIEI FRATELLI PORTAVANO AL SABATO LA PAGA d’a semmana. Io fin da piccolo non riuscivo a dire termini come: mio, mia e nostra e nemmeno casa: mi veniva sempre l’allergia. Non solo starnutivo, ma i miei occhi diventavano due palle come quelli di un rospo. Una bambina che teneva la puzza sotto al naso disse:
- Sei il principe trasformato in rospo? –
- E tu scema perché sci-sci e scè-scè ti tieni la puzza- le risposi.
A lei, la sera prima di dormire, la famiglia, le leggeva le favole. A me mazzate, coppol’e cazz’ e niente piatto in tavola. Al posto dei piatti tenevamo i plattò delle auto e come tavola una ballerina:la imprestavamo alla famiglia Sgueglia del basso dirimpetto.
Colomba Mammazezzella, cioè mamma mia, teneva questo soprannome perché quando partoriva e partoriva assai, teneva sempre le zizze piene e le altre femmine del vicolo,che non tenevano nè il latte e nè gli occhi per piangere, le chiedevano di far zucare alle sue zizze anche dai loro criaturi, pallidi e secchi; allora mamma non resisteva e diceva: – Si, c’o dongo ‘o latte –
Il pantalone, cioè ‘o cazone color cucozza, comprato un sabato, in un negozio nello stretto della Pignasecca all’inizio di Spaccanapoli, Colomba Mammazezzella disse:
– Domanica è dummeneca. Ti lavi dint’a bagnarola e ti ‘ngegni con i vestiti lavati e stirati del giorno di festa. Esci, ti do cento lire e ti compri una pizza margherita e poi vai al cinema Mazzini che ci stà Zorro contro i ricchi; accussì, sia la gente del vicolo e sia i tuoi cumpagni possano vedere come sei bello, fresco e profumato. M’arraccumanno, però, non devi giocare a pallone e nemmeno sporcarti. E nun te scurdà che l’aggio pagato cinquciento lire stù cazone color cucozza.-
Invece di andare al cinema Mazzini, che Zorro già l’avevo visto cinque volte, tutto alliccato e ammartenato, e tirandomela, con indosso ‘o cazone culor cucozza, me andai all’oratorio salesiano.
Sia nell’ingresso e sia attraverso l’ampio e lungo corridoio, in penombra, perché la mattina non accendeva i neon posti in alto, chiunque incontrassi ci scambiavamo il saluto tranquillamente.Ma,appena varcai salii i quattro gradini che davano sul cortile sia quelli che stavano disputando una delle partite della domenica mattina e sia quelli assiepati attorno al campo, non appena entrai nel cortile, iniziarono a guardarmi e a ridere e a fare battute e a sfottermi. l’unico che mi fece i complimenti fu Franco Martino, che sceglieva i suoi vestiti a Resina di Ercolano tra le balle di abbigliamento che venivano niente meno che dagli Stati Uniti d’America.
Tutto inquartato, alzai i tacchi e subito me ne andai. era la prima volta che avevo indossato un pantalone nuovo anche se di colore cucozza. Ed era stato quel colore sgargiante a farmi prendere in giro. E mentre andavo a caso caddi e mi sporcai ‘o cazone cucozza. Quando arrivai mamma prima fece la faccia brutta, poi disse: – Nun te preoccupà, adesso lo lavo e così tra un paio d’ore è già asciugato. -
Ancora arrabbiato, mi ero addormentato. E quando mi svegliai, Mammazezzella, stupita e col pantalone in mano disse: – Guagliò, a mamma toja, guarda come si è combinato stù cazone: si è arritirato tutto quanto. E’ divintato ‘o cazone di Cicciobello -
Il cazone, sia prima che dopo, normale e arritirato, mi stava ‘ntussecanno la vita mia. A quel punto, lo tagliai e lo buttai fuori di casa, casa poi. Ma se un giorno, alto nel cielo, vedete volare ‘o culore cucozza, quello, è ‘o cazone mille pezzi d’o guaglione.
(Transit)
Per chi volesse approfondire, consiglio il Canzoniere Anarchico, in cui si trova veramente tanto.

INNO DEI PEZZENTI (O MARSIGLIESE DEL LAVORO)
Noi siamo i poveri siamo i pezzenti
la sporca plebe di questa età
la schiera innumere dei sofferenti
per cui la vita gioie non ha.
Nel crudo inverno la nostra prole
per lunga inedia languir vediam
solo pei ricchi risplende il sole.
Mentre essi esultano noi fame abbiam.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Non sia pace tra i mortali
finchè un uom' sovr'altro imperi
i nemici a noi più fieri
sono i nostri sfruttator
Triste spettacolo le nostre donne
per noi primizie non hanno d'amor
ancora impuberi sciolgon le gonne
si danno in braccio di lor signor.
Son nostre figlie le prostitute
che muoion tisiche negli ospedal
le disgraziate si son vendute
per una cena o per un grembial.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Di patria al nome talor sospinti
contro altri popoli noi si pugnò
ma vincitori fossimo vinti
la sorte nostra mai non mutò.
Tedesco o italico se v'ha padrone
il sangue nostro vuole succhiar
la patria libera è un'irrisione
se ancora il basto ci fa portar.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Nelle officine sui monti e i piani
nelle miniere sudiam sodiam
ma delle nostre fatiche immani
il frutto intiero non raccogliam.
Poi fatti vecchi veniam rinchiusi
dentro un ricovero di carità
e sul berretto di noi reclusi
bollano i ricchi la lor pietà.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
Ma se sperare non è utopia
nella giustizia dell'avvenir
il privilegio di tirannia
e turpe regno dovrà finir!
Le nostre lacrime, gli stenti, l'onte
le grandi ambasce sparir dovran
noi già leviamo alta la fronte
per salutar l'astro lontan.
Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un'aspra guerra
ai ladroni sfruttator.
(Carlo Monticelli 1896)
Per chi si avvicina o sente l'ebollizione del soffio viscerale e aurorale, interiore e materiale, della poesia, credo che non si tratti e non vi sia assoluto bisogno e necessità di proporgli o ricordagli di scrivere in metrica. Tu parti da chi sei; la poesia muore e nasce dal vento; dal mare in tempesta; quando la lotta langue immortale; un animale che muore perché conosce il suo destino; il vento che brucia le speranze, la nave che affonda nel deserto dell'anima e, l'amore che rincorriamo in una corsa di trotto.
Per questo scriverai nel dormiveglia delle mani. Nelle catastrofi delle tue emozioni tenute nel guardaroba del cuore. Nella scia della solitudine con cui giochi a carte. Nelle risacche mai sopite, quando il sole fa ombra ai bambini e il mare risuona dalle caverne di Poseidone. Scriverai mentre stai mangiando. O col fuoco del digiuno. Scriverai con gli occhi pieni di lacrime, perché in fondo hai ancora bisogno di piangere. Scriverai lasciandoti andare; e tu, parla alla pari con la parola e non ordinerai a nessuna di esse di vestirsi coi pantaloni stirati, né le indicherai il confino, né l'oblio, o alla parte della vita che chiamiamo morte. Prima di morire per l'ultima volta, moriamo almeno mille di volte ed è in queste mille volte che scriverai la tua poesia, o semplicemente, la poesia.
I pantaloni, cioè ‘e cazune culor cucozza d’o guaglione
Quand’ero piccolo il giallo zucca per me e tutti i guaglincielli di vico Lepre ai Ventaglieri a Montesanto, era ‘o culore cucozza.
Una domenica mattina, mi lavai per ultimo nella bagnarola in cui si erano lavati mamma, quattro fratelli e cinque sorelle, che stava appesa al muro e tenuta da un crocco gruosso accussì e che prendevamo solo nel giorno di festa. Nel settimo tutta la gente andava a messa per festeggiare la domenica come il giorno di festa. Nella mia famiglia nessuno andava a messa la domenica e negli altri giorni d’a semmana. Tutti sanno che il settimo juorno d’a semmana è festa. io non sapevo perché la mia famiglia non andava in chiesa né sapevo perché il settimo giorno era festa.
Per me e la mia famiglia un giorno di festa era quando ci si lavava uno dopo l’altro nella bagnarola e che tenevamo sopra il cesso per non togliere altro spazio all’unica stanza della nostra casa. Questo non capitava sempre di domenica. CAPITAVA DI FARE FESTA SE I MIEI FRATELLI PORTAVANO AL SABATO LA PAGA d’a semmana. Io fin da piccolo non riuscivo a dire termini come: mio, mia e nostra e nemmeno casa: mi veniva sempre l’allergia. Non solo starnutivo, ma i miei occhi diventavano due palle come quelli di un rospo. Una bambina che teneva la puzza sotto al naso disse:
- Sei il principe trasformato in rospo? –
- E tu scema perché sci-sci e scè-scè ti tieni la puzza- le risposi.
A lei, la sera prima di dormire, la famiglia, le leggeva le favole. A me mazzate, coppol’e cazz’ e niente piatto in tavola. Al posto dei piatti tenevamo i plattò delle auto e come tavola una ballerina:la imprestavamo alla famiglia Sgueglia del basso dirimpetto.
Colomba Mammazezzella, cioè mamma mia, teneva questo soprannome perché quando partoriva e partoriva assai, teneva sempre le zizze piene e le altre femmine del vicolo,che non tenevano nè il latte e nè gli occhi per piangere, le chiedevano di far zucare alle sue zizze anche dai loro criaturi, pallidi e secchi; allora mamma non resisteva e diceva: – Si, c’o dongo ‘o latte –
Il pantalone, cioè ‘o cazone color cucozza, comprato un sabato, in un negozio nello stretto della Pignasecca all’inizio di Spaccanapoli, Colomba Mammazezzella disse:
– Domanica è dummeneca. Ti lavi dint’a bagnarola e ti ‘ngegni con i vestiti lavati e stirati del giorno di festa. Esci, ti do cento lire e ti compri una pizza margherita e poi vai al cinema Mazzini che ci stà Zorro contro i ricchi; accussì, sia la gente del vicolo e sia i tuoi cumpagni possano vedere come sei bello, fresco e profumato. M’arraccumanno, però, non devi giocare a pallone e nemmeno sporcarti. E nun te scurdà che l’aggio pagato cinquciento lire stù cazone color cucozza.-
Invece di andare al cinema Mazzini, che Zorro già l’avevo visto cinque volte, tutto alliccato e ammartenato, e tirandomela, con indosso ‘o cazone culor cucozza, me andai all’oratorio salesiano.
Sia nell’ingresso e sia attraverso l’ampio e lungo corridoio, in penombra, perché la mattina non accendeva i neon posti in alto, chiunque incontrassi ci scambiavamo il saluto tranquillamente.Ma,appena varcai salii i quattro gradini che davano sul cortile sia quelli che stavano disputando una delle partite della domenica mattina e sia quelli assiepati attorno al campo, non appena entrai nel cortile, iniziarono a guardarmi e a ridere e a fare battute e a sfottermi. l’unico che mi fece i complimenti fu Franco Martino, che sceglieva i suoi vestiti a Resina di Ercolano tra le balle di abbigliamento che venivano niente meno che dagli Stati Uniti d’America.
Tutto inquartato, alzai i tacchi e subito me ne andai. era la prima volta che avevo indossato un pantalone nuovo anche se di colore cucozza. Ed era stato quel colore sgargiante a farmi prendere in giro. E mentre andavo a caso caddi e mi sporcai ‘o cazone cucozza. Quando arrivai mamma prima fece la faccia brutta, poi disse: – Nun te preoccupà, adesso lo lavo e così tra un paio d’ore è già asciugato. -
Ancora arrabbiato, mi ero addormentato. E quando mi svegliai, Mammazezzella, stupita e col pantalone in mano disse: – Guagliò, a mamma toja, guarda come si è combinato stù cazone: si è arritirato tutto quanto. E’ divintato ‘o cazone di Cicciobello -
Il cazone, sia prima che dopo, normale e arritirato, mi stava ‘ntussecanno la vita mia. A quel punto, lo tagliai e lo buttai fuori di casa, casa poi. Ma se un giorno, alto nel cielo, vedete volare ‘o culore cucozza, quello, è ‘o cazone mille pezzi d’o guaglione.
(Transit)
4 commenti:
Per chi si avvicina o sente l'ebollizione del soffio viscerale e aurorale, interiore e materiale, della poesia, credo che non si tratti e non vi sia assoluto bisogno e necessità di proporgli o ricordagli di scrivere in metrica. Tu parti da chi sei; la poesia muore e nasce dal vento; dal mare in tempesta; quando la lotta langue immortale; un animale che muore perché conosce il suo destino; il vento che brucia le speranze, la nave che affonda nel deserto dell'anima e, l'amore che rincorriamo in una corsa di trotto.
Per questo scriverai nel dormiveglia delle mani. Nelle catastrofi delle tue emozioni tenute nel guardaroba del cuore. Nella scia della solitudine con cui giochi a carte. Nelle risacche mai sopite, quando il sole fa ombra ai bambini e il mare risuona dalle caverne di Poseidone. Scriverai mentre stai mangiando. O col fuoco del digiuno. Scriverai con gli occhi pieni di lacrime, perché in fondo hai ancora bisogno di piangere. Scriverai lasciandoti andare; e tu, parla alla pari con la parola e non ordinerai a nessuna di esse di vestirsi coi pantaloni stirati, né le indicherai il confino, né l'oblio, o alla parte della vita che chiamiamo morte. Prima di morire per l'ultima volta, moriamo almeno mille di volte ed è in queste mille volte che scriverai la tua poesia, o semplicemente, la poesia.
I pantaloni, cioè ‘e cazune culor cucozza d’o guaglione
Quand’ero piccolo il giallo zucca per me e tutti i guaglincielli di vico Lepre ai Ventaglieri a Montesanto, era ‘o culore cucozza.
Una domenica mattina, mi lavai per ultimo nella bagnarola in cui si erano lavati mamma, quattro fratelli e cinque sorelle, che stava appesa al muro e tenuta da un crocco gruosso accussì e che prendevamo solo nel giorno di festa. Nel settimo tutta la gente andava a messa per festeggiare la domenica come il giorno di festa. Nella mia famiglia nessuno andava a messa la domenica e negli altri giorni d’a semmana. Tutti sanno che il settimo juorno d’a semmana è festa. io non sapevo perché la mia famiglia non andava in chiesa né sapevo perché il settimo giorno era festa.
Per me e la mia famiglia un giorno di festa era quando ci si lavava uno dopo l’altro nella bagnarola e che tenevamo sopra il cesso per non togliere altro spazio all’unica stanza della nostra casa. Questo non capitava sempre di domenica. CAPITAVA DI FARE FESTA SE I MIEI FRATELLI PORTAVANO AL SABATO LA PAGA d’a semmana. Io fin da piccolo non riuscivo a dire termini come: mio, mia e nostra e nemmeno casa: mi veniva sempre l’allergia. Non solo starnutivo, ma i miei occhi diventavano due palle come quelli di un rospo. Una bambina che teneva la puzza sotto al naso disse:
- Sei il principe trasformato in rospo? –
- E tu scema perché sci-sci e scè-scè ti tieni la puzza- le risposi.
A lei, la sera prima di dormire, la famiglia, le leggeva le favole. A me mazzate, coppol’e cazz’ e niente piatto in tavola. Al posto dei piatti tenevamo i plattò delle auto e come tavola una ballerina:la imprestavamo alla famiglia Sgueglia del basso dirimpetto.
Colomba Mammazezzella, cioè mamma mia, teneva questo soprannome perché quando partoriva e partoriva assai, teneva sempre le zizze piene e le altre femmine del vicolo,che non tenevano nè il latte e nè gli occhi per piangere, le chiedevano di far zucare alle sue zizze anche dai loro criaturi, pallidi e secchi; allora mamma non resisteva e diceva: – Si, c’o dongo ‘o latte –
Il pantalone, cioè ‘o cazone color cucozza, comprato un sabato, in un negozio nello stretto della Pignasecca all’inizio di Spaccanapoli, Colomba Mammazezzella disse:
– Domanica è dummeneca. Ti lavi dint’a bagnarola e ti ‘ngegni con i vestiti lavati e stirati del giorno di festa. Esci, ti do cento lire e ti compri una pizza margherita e poi vai al cinema Mazzini che ci stà Zorro contro i ricchi; accussì, sia la gente del vicolo e sia i tuoi cumpagni possano vedere come sei bello, fresco e profumato. M’arraccumanno, però, non devi giocare a pallone e nemmeno sporcarti. E nun te scurdà che l’aggio pagato cinquciento lire stù cazone color cucozza.-
Prima parte
Seconda parte
Invece di andare al cinema Mazzini, che Zorro già l’avevo visto cinque volte, tutto alliccato e ammartenato, e tirandomela, con indosso ‘o cazone culor cucozza, me andai all’oratorio salesiano.
Sia nell’ingresso e sia attraverso l’ampio e lungo corridoio, in penombra, perché la mattina non accendeva i neon posti in alto, chiunque incontrassi ci scambiavamo il saluto tranquillamente.Ma,appena varcai salii i quattro gradini che davano sul cortile sia quelli che stavano disputando una delle partite della domenica mattina e sia quelli assiepati attorno al campo, non appena entrai nel cortile, iniziarono a guardarmi e a ridere e a fare battute e a sfottermi. l’unico che mi fece i complimenti fu Franco Martino, che sceglieva i suoi vestiti a Resina di Ercolano tra le balle di abbigliamento che venivano niente meno che dagli Stati Uniti d’America.
Tutto inquartato, alzai i tacchi e subito me ne andai. era la prima volta che avevo indossato un pantalone nuovo anche se di colore cucozza. Ed era stato quel colore sgargiante a farmi prendere in giro. E mentre andavo a caso caddi e mi sporcai ‘o cazone cucozza. Quando arrivai mamma prima fece la faccia brutta, poi disse: – Nun te preoccupà, adesso lo lavo e così tra un paio d’ore è già asciugato. -
Ancora arrabbiato, mi ero addormentato. E quando mi svegliai, Mammazezzella, stupita e col pantalone in mano disse: – Guagliò, a mamma toja, guarda come si è combinato stù cazone: si è arritirato tutto quanto. E’ divintato ‘o cazone di Cicciobello -
Il cazone, sia prima che dopo, normale e arritirato, mi stava ‘ntussecanno la vita mia. A quel punto, lo tagliai e lo buttai fuori di casa, casa poi. Ma se un giorno, alto nel cielo, vedete volare ‘o culore cucozza, quello, è ‘o cazone mille pezzi d’o guaglione.
SONO BRUNACCIO
Innanzitutto buona giornata della Befana a tutte e tutti.
Due righe sugli anarchici.
Un conto è la solidità di una teoria e delle pratiche che ne conseguono, un altro parlare di immaginario evocativo e dunque artistico.
Io credo che, su questo campo, gli anarchici nel periodo che va da metà '800 ai primi del '900 non abbiano rivali.
E' capitato di ricordarci perchè, durante una serata all'Arvu, un gruppo di cantastorie ha tirato fuori queste perle a cui molti non pensavamo da anni.
Transit,
la parte iniziale di letteratura e poetica è esaltante, ma lo è anche il racconto.
Per non sbagliare aggiorno con entrambi i contributi.
Sempre un grande ringraziamento per la preziosa partecipazione a queste pagine!
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