Testo

Tel. 3319034020 - mail: precariunited@gmail.com

mercoledì 20 agosto 2014

FORTI INTERESSI, POCHE IDEE

Il problema di questo articolo, come capita sovente, è il riferimento quasi soteriologico alle politiche di Keynes, che oggi è il riferimento principale dei nemici dell'austerity.
Va inanzitutto detto che, ad oggi, molti studiosi non sanno dire se la crisi del '29 fu effettivamente risolta dal New Deal o dalla Seconda Guerra Mondiale, visto che le crisi strutturali sono sempre state risolte dal Capitale con le guerre, che sono sostanzialmente distruzione di altre economie ed esportazione di capitali del vincitore.
Va aggiunto, argomento molto più risolutivo, che in un modello di sviluppo fortemente consumista, pensare di risolvere il problema incentivando continuamente i consumi, che è il nocciolo della poltica di Keynes insieme alla proprietà delle case, non sembra una posizione lungimirante.
Tuttavia pensare di comprimere violentemente i consumi, anzichè sostenerli in maniera tampone ricostruendo infrastrutture e tassando decisamente i Capitali troppo alti, è un argomento assurdo e in malafede che questo articolo smonta secondo me molto bene.
Per chiudere, una nota pessimista. Vedendo la situazione mondiale, il rischio che il Capitale finirà a risolvere il problema con uno scontro armato diretto tra poli in contrasto (USA-UE versus BRICS), diventa sempre più probabile. Tuttavia, al di là di ogni giusto riferimento etico contro la guerra, oggi la potenza militare e tecnologica è tale che uno scontro tra poli ci farebbe tornare, come diceva qualcuno, alle clave.
Ed è questo il motivo per cui, a livello mondiale, anche i due poli hanno evitato lo scontro frontale diretto. Ma lo sviluppo delle tensioni mondiali e il modello impazzito che ci muove, non promettono nulla di buono.
E chi avrà scatenato la guerra aperta, se guerra vi sarà, sarà proprio il folle modello di sviluppo consumista che ci ha portato fin qua.
da http://ilmanifesto.info/forti-interessi-poche-idee/—  Giorgio Lunghini, 18.8.2014
Salari e pensioni. In Italia il 5% dei contribuenti più ricchi concentra il 22,7% del reddito complessivo. Perché abbassare i salari e tagliare le pensioni non ha prodotto (né produrrà) la ripresa della nostra disastrata economia
Torna l’idea di pro­muo­vere la cre­scita tagliando i salari e le pen­sioni “d’oro”. Tagliando i salari e libe­ra­liz­zando il mer­cato del lavoro – si dice – aumen­te­rebbe la domanda di lavoro, dun­que l’occupazione, dunque il pro­dotto. È ancora la ricetta della Trea­sury View del ’29, che viene argo­men­tata nel modo seguente.
Le imprese assu­me­ranno nuovi lavo­ra­tori se e sol­tanto se il sala­rio non è mag­giore della pro­dut­ti­vità del lavoro. Dal punto di vista della sin­gola impresa ciò è ragio­ne­vole: la sin­gola impresa con­ta­bi­lizza il sala­rio sol­tanto come un costo, e se c’è disoc­cu­pa­zione, è per­ché il sala­rio è troppo alto rispetto alla pro­dut­ti­vità del lavoro. Segue: se non ci fos­sero impe­di­menti giu­ri­dici o sin­da­cali, cioè se il mer­cato del lavoro fosse fles­si­bile come il mer­cato del pesce, sul mer­cato del lavoro si sta­bi­li­rebbe un livello di equi­li­brio del sala­rio, tale che non ci sarebbe disoc­cu­pa­zione invo­lon­ta­ria. Risul­te­reb­bero non occu­pati sol­tanto quei lavo­ra­tori che pre­ten­dono un sala­rio più alto della loro pro­dut­ti­vità, le imprese pro­dur­reb­bero tutto quanto sono in grado di pro­durre, e tutto quanto ven­de­reb­bero, poi­ché tutta la moneta dispo­ni­bile ver­rebbe impie­gata per com­pe­rare merci e giam­mai trat­te­nuta in forma liquida o a fini spe­cu­la­tivi. L’argomentazione sem­bra con­vin­cente, e lo è tanto che ha ispi­rato e ispira tutte le cosid­dette riforme “strut­tu­rali” del mer­cato del lavoro. Però è una tesi che non regge, a meno che non si dia per scon­tato che tutte le merci pro­dotte pos­sano essere ven­dute, che conti sol­tanto l’offerta e non anche la domanda.
La domanda aggre­gata di merci è costi­tuita dalla domanda per con­sumi, dalla domanda per inve­sti­menti, e dalla domanda estera.
La domanda per con­sumi, a sua volta, è costi­tuita dalla domanda di quanti hanno un red­dito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di ren­dita o di pro­fitti. In una situa­zione di disoc­cu­pa­zione e di bassi salari, aumenta la quota — sul pro­dotto sociale — delle ren­dite e dei pro­fitti. Si può pen­sare che i mag­giori con­sumi di lusso bastino a com­pen­sare i minori con­sumi dei lavo­ra­tori? Ovvia­mente no.
Si può tut­ta­via pen­sare che gli alti pro­fitti indur­ranno le imprese a aumen­tare la pro­du­zione di beni di con­sumo, dun­que l’offerta, dun­que l’occupazione? No, per­ché le loro aspet­ta­tive di ven­dita di beni di con­sumo saranno pes­si­mi­sti­che e liqui­de­ranno le scorte. Com­pen­se­ranno forse la minor domanda per con­sumi con loro nuovi inve­sti­menti? No: per­ché mai aumen­tare la capa­cità pro­dut­tiva, se le pro­spet­tive di ven­dita sono pes­si­mi­sti­che? Dun­que l’unico effetto di bassi salari saranno alte ren­dite e alti pro­fitti, e l’impiego di que­sti e di quelle nella spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Spe­cu­la­zione finan­zia­ria che nel migliore dei casi è un gioco a somma zero, in cui Tizio gua­da­gna e Caio perde – ma tal­volta, come oggi, un gioco in cui perde anche Sem­pro­nio.
Resta la terza com­po­nente della domanda aggre­gata, le espor­ta­zioni. La capa­cità di espor­tare dipende forse da un basso prezzo delle merci offerte sul mer­cato inter­na­zio­nale? Per un lungo periodo così è stato, per le imprese ita­liane: fino a quando hanno potuto godere di sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive; ma su cui non potranno più con­tare, nem­meno se l’Unione euro­pea e dun­que l’euro si sgre­to­las­sero. La capa­cità di espor­tare dipende anche dal costo del lavoro, ma sopra­tutto dal con­te­nuto tec­no­lo­gico delle merci pro­dotte. Quanti pro­dotti a alto con­te­nuto tec­no­lo­gico abbiamo in casa, di pro­du­zione nazio­nale delle imprese nazio­nali?
Circa il taglio delle pen­sioni “d’oro”, giu­sti­fi­cato sol­tanto con una lamen­tosa mozione degli affetti, con l’invocazione alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, va detto che esso ha la natura di una impo­sta di scopo e che dun­que nel nostro ordi­na­mento è inam­mis­si­bile; e va ricor­dato che la Corte costi­tu­zio­nale si è già pro­nun­ciata, giu­di­cando tale pre­lievo in con­tra­sto con gli arti­coli 3 e 53 della Costi­tu­zione, rispet­ti­va­mente sul prin­ci­pio di ugua­glianza e sul sistema tri­bu­ta­rio: «L’intervento riguarda, infatti, i soli pen­sio­nati, senza garan­tire il rispetto dei prin­cipi fon­da­men­tali di ugua­glianza a parità di red­dito, attra­verso una irra­gio­ne­vole limi­ta­zione della pla­tea dei sog­getti pas­sivi».
Quanto alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, come ave­vano spie­gato Key­nes e Solow (che non sono i Gufi di Mat­teo Renzi e di Giu­seppe Giu­sti: «Gufi dot­tis­simi che pre­di­cate e al vostro simile nulla inse­gnate», ma due grandi eco­no­mi­sti) è molto dif­fi­cile deci­dere se sia cor­retto e ragio­ne­vole chia­mare la gene­ra­zione vivente a restrin­gere il suo con­sumo in modo da sta­bi­lire, nel corso del tempo, uno stato di benes­sere per le gene­ra­zioni future, e d’altra parte coloro che riten­gono prio­ri­ta­rio non inflig­gere povertà al futuro dovreb­bero spie­gare per­ché non attri­bui­scono ana­loga prio­rità alla ridu­zione della povertà oggi.
Resta, natu­ral­mente, la grave que­stione del bilan­cio pub­blico. Sotto i vin­coli oggi impo­sti dall’Unione Euro­pea, diventa cru­ciale la revi­sione della spesa – sopra­tutto della com­po­si­zione della spesa: non va ridi­men­sio­nato — come sinora si è fatto — ma va accre­sciuto il peso delle voci di spesa più ido­nee a ali­men­tare la domanda, e vanno sal­va­guar­date sanità, istru­zione e pen­sioni. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influen­zano la domanda a doversi ridurre, nella misura neces­sa­ria a rag­giun­gere il pareg­gio e a fare spa­zio nel bilan­cio alle spese da espan­dere e alla pres­sione tri­bu­ta­ria da limare. Con una simile, arti­co­lata mano­vra di finanza pub­blica, la domanda glo­bale, anzi­ché con­trarsi, rice­ve­rebbe soste­gno. Della revi­sione della spesa, tut­ta­via, molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male.
Oltre alla revi­sione della spesa, si deve pen­sare a una revi­sione delle entrate: in primo luogo al con­tra­sto all’evasione, e anche qui molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male. E si deve pen­sare a una revi­sione delle ali­quote dell’Irpef, secondo il det­tato della Costi­tu­zione al già citato arti­colo 53: «Tutti sono tenuti a con­cor­rere alle spese pub­bli­che in ragione della loro capa­cità con­tri­bu­tiva. Il sistema tri­bu­ta­rio è infor­mato a cri­teri di pro­gres­si­vità». Tut­ta­via l’aliquota mar­gi­nale mas­sima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i red­diti oltre i 75.000 euro, men­tre è noto a tutti che molti e di molto sono i red­diti più ele­vati: il 5% dei con­tri­buenti più ric­chi con­cen­tra il 22,7% del red­dito com­ples­sivo. Si potreb­bero dun­que ridurre le ali­quote per i red­diti più bassi e aumen­tarle per i red­diti più ele­vati, per ovvie ragioni di giu­sti­zia sociale e per­ché così aumen­te­rebbe la spesa per con­sumi, e molto di più di quanto non siano aumen­tati con la bene­fi­cenza degli 80 euro. Di ciò, tut­ta­via, non si parla affatto.
Per­ché di tutto ciò non si parla e sem­mai si fa poco e male? L’unica rispo­sta plau­si­bile è che a ciò si oppon­gono inte­ressi costi­tuiti che non si vogliono o non si sanno con­tra­stare. Scri­veva Key­nes, nel 1936: «Il potere degli inte­ressi costi­tuiti è assai esa­ge­rato in con­fronto con la pro­gres­siva esten­sione delle idee», qui però si sbagliava.

Nessun commento: