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sabato 4 ottobre 2014

I CAMPI DI LAVORO PER I PALESTINESI AGLI ALBORI DELLO STATODI ISRAELE. UN NUOVO LAVORO STORICO.


da http://nena-news.it/da-una-ricerca-giunge-la-denuncia-agli-albori-di-israele-lavoro-forzato-palestinese-seconda-parte/


Almeno cinque i campi ufficiali noti alla Croce Rossa Internazionale, che contenevano fino a 3.000 prigionieri l’uno. 17 quelli non riconosciuti. Dal lungo lavoro di ricerca negli archivi della Croce Rossa, ricostruiti gli anni dopo il 1948.
Civili palestinesi internati dalle forze sioniste dopo la caduta di Lydda e Ramleh nel luglio del 1948 (Foto Salman Abu Sitta, Palestine Land Society – fonte al-Akhbar)
di Yazan al-Saadi – al-Akhbar

Roma, 30 settembre 2014, Nena News - Gran parte delle circostanze cupe e torbide della pulizia etnica sionista dei palestinesi alla fine degli anni ’40 è stata gradualmente portata alla luce nel corso del tempo. Un aspetto – raramente studiato o discusso approfonditamente – è l’internamento di migliaia di civili palestinesi negli almeno 22 campi di concentramento e di lavoro istituiti dai sionisti che sono esistiti dal 1948 al 1955. Ora, grazie alla ricerca completa del famoso storico palestinese Salman Abu Sitta e al membro fondatore del centro di risorse palestinese BADIL Terry Rempel, si sa qualcosa di più sui contorni di questo crimine storico.
Lo studio – che sarà pubblicato sul prossimo numero del Journal of Palestine Studies – si basa su quasi 500 pagine di relazioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR​​) scritte durante la guerra del 1948, che sono stati declassificate e rese disponibili al pubblico nel 1996 , e accidentalmente scoperte da uno degli autori nel 1999. Inoltre, gli autori hanno raccolto le testimonianze di 22 ex detenuti civili palestinesi di questi campi attraverso interviste che si sono svolte nel 2002 e in altri periodi.
Grazie a queste fonti gli autori, come dicono loro, sono riusciti a mettere insieme più chiaramente la storia di come Israele abbia catturato e imprigionato “migliaia di civili palestinesi come lavoratori forzati,” e li abbia sfruttati “per sostenere la sua economia in tempo di guerra”.

I CRIMINI PORTATI ALLA LUCE
“Mi sono imbattuto in questo pezzo di storia negli anni ’90 – racconta Abu Sitta ad al-Akhbar – mentre stavo raccogliendo materiale e documenti sui palestinesi. Più si scava, più si scopre che ci sono crimini che hanno avuto luogo, ma che non sono stati segnalati e non sono conosciuti”.
A quel tempo, Abu Sitta era andato a Ginevra per una settimana per controllare gli archivi di nuova apertura della Croce Rossa Internazionale. Gli archivi, secondo lui, erano stati aperti al pubblico dopo le accuse mosse alla CRI di essersi schierata con i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Vedere ciò che la CRI ​​aveva registrato degli eventi che si erano verificati in Palestina nel 1948 era un’opportunità che non poteva lasciarsi scappare: è stato lì che si è imbattuto nei documenti che parlano dell’esistenza di cinque campi di concentramento gestiti dagli israeliani.
Ha poi deciso di cercare testimoni o ex detenuti, intervistando i palestinesi nella Palestina occupata, in Siria e in Giordania. ”Tutti – dice – hanno descritto la stessa storia, e la loro esperienza di vita in questi campi”. Si è subito chiesto perché ci fosse a malapena qualche riferimento alla storia di questi campi, soprattutto quando è diventato più chiaro che esistessero mentre faceva ricerca, e che fossero più che solo cinque campi.
“Molti ex detenuti palestinesi – spiega Abu Sitta – vedevano Israele come un nemico feroce, così hanno pensato che la loro esperienza di lavoro in questi campi di concentramento fosse niente in confronto all’altra grande tragedia, quella della Nakba. La Nakba ha oscurato tutto“. ”Tuttavia, mentre cercavo nel periodo del 1948-1955 – aggiunge – ho trovato altre fonti, come Mohammed Nimr al-Khatib, che era un imam a Haifa: egli aveva registrato delle interviste con qualcuno della famiglia al-Yahya, che era in uno dei campi. Sono stato in grado di rintracciare quest’uomo fino in California e ho parlato con lui nel 2002″.
Altre fonti, lentamente scoperte da Abu Sitta,: includevano le informazioni ricevute da una donna ebrea chiamata Janoud, un’unica tesi di master sull’argomento all’Università Ebraica e i racconti personali dell’economista Yusif Sayigh. Tutto questo ha contribuito ad arricchire ulteriormente la portata e la natura di questi campi. Dopo più di un decennio Abu Sitta, assieme al suo co-autore Rempel, stanno finalmente presentando i loro risultati al pubblico.

I CAMPI DI LAVORO
L’istituzione di campi di concentramento e di lavoro si è verificata dopo la dichiarazione unilaterale dello stato di Israele nel maggio del 1948.
Prima di questo evento, il numero dei prigionieri palestinesi in mani sioniste era piuttosto basso, perché, come afferma lo studio, “la leadership sionista aveva concluso presto che l’espulsione forzata della popolazione civile era l’unico modo per stabilire uno stato ebraico in Palestina con una larga maggioranza ebraica necessaria per essere ‘vitale’”. In altre parole, per gli strateghi sionisti, i prigionieri erano un peso nelle fasi iniziali della pulizia etnica.
Quei calcoli vennero modificati con la dichiarazione dello stato di Israele e il coinvolgimento degli eserciti di Egitto, Siria, Iraq e Transgiordania, dopo che gran parte della pulizia etnica era stata effettuata. Da quel momento, “le forze israeliane avevano cominciato a fare prigionieri, sia tra i soldati arabi regolari (per eventuali scambi) che – in modo selettivo – civili palestinesi normodotati non combattenti”
Il primo campo fu quello di Ijlil, che era a circa 13 km a nord est di Jaffa, sul sito del villaggio palestinese distrutto di Ijlil al-Qibiliyya, svuotato dei suoi abitanti ai primi di aprile. Ijlil era prevalentemente composta da tende, che ospitavano centinaia e centinaia di prigionieri, classificati come prigionieri di guerra da parte degli israeliani, circondati da recinzioni di filo spinato, torri di guardia e un cancello con le guardie.
Con le conquiste israeliane che crescevano, e che facevano aumentare esponenzialmente il numero dei prigionieri, furono aperti altri tre campi. Questi sono i quattro campi “ufficiali” che gli israeliani avevano confermato e erano stati regolarmente visitati dal CICR.

Lo studio rivela che:
“Tutti e quattro i campi erano all’interno o accanto a installazioni militari istituite dagli inglesi durante il mandato. Queste erano state utilizzate durante la seconda guerra mondiale per la detenzione di tedeschi, italiani e altri prigionieri di guerra. Due dei campi – Atlit, istituito a luglio a circa 20 km a sud di Haifa, e Sarafand, istituito a settembre nei pressi del villaggio spopolato di Sarafand al-Amar nel centro di Palestina- erano utilizzati negli anni ’30 e ’40 per detenere immigrati ebrei illegali”.
Atlit era il secondo più grande campo dopo Ijlil e aveva la capacità di contenere fino a 2.900 prigionieri, mentre Sarafand aveva la capacità massima di 1.800 e Tel Letwinksy, vicino a Tel Aviv, di oltre 1.000.
Tutti e quattro i campi erano amministrati da “ex ufficiali britannici che avevano disertato quando le forze britanniche si erano ritirate dalla Palestina a metà maggio del 1948″ e le guardie del campo e il personale amministrativo erano ex membri della Irgun e della Banda Stern – entrambi designati come organizzazioni terroristiche dagli inglesi prima della loro partenza. In totale, i quattro campi “ufficiali” erano gestiti da 973 soldati.
Un quinto campo, chiamato Umm Khalid, era stato istituito sul sito di un altro villaggio spopolato vicino alla colonia sionista di Netanya: gli era stato anche assegnato un numero ufficiale nei registri, ma non ha mai raggiunto lo status di “ufficiale”. Aveva la capacità di contenere 1.500 prigionieri. A differenza degli altri quattro campi, Umm Khalid sarebbe stato “il campo più severo istituito esclusivamente come un campo di lavoro” ed è stato “il primo dei campi riconosciuti a chiudere prima della fine del 1948″.
In aggiunta a questi cinque campi “riconosciuti”, c’erano almeno altri 17 “campi non riconosciuti” che non sono stati menzionati nelle fonti ufficiali, ma scoperti dagli autori attraverso molteplici testimonianze dei prigionieri. ”Molti di questi campi – hanno notato gli autori – sembravano improvvisati, spesso composti da non più di una stazione di polizia, una scuola, o la casa del notabile di un villaggio” con capacità che spaziavano da decine a 200 detenuti.
La maggior parte dei campi, ufficiali e non ufficiali era situata entro i confini dello stato ebraico proposto dall’Onu, “anche se almeno quattro [campi non ufficiali] – Beersheba, Julis, Bayt Daras, e Bayt Nabala – erano nello stato assegnato agli arabi e uno era dentro Gerusalemme, allora a statuto speciale”.
Il numero di detenuti non-combattenti palestinesi aveva “di gran lunga superato” quelli dei soldati arabi degli eserciti regolari o prigionieri di guerra in buona fede. Citando un rapporto mensile del luglio 1948 redatto dal capo missione CRI ​​Jacques de Reynier, lo studio afferma che egli aveva osservato “che la situazione degli internati civili è stata ‘assolutamente confusa’ con quella dei prigionieri di guerra e che le autorità ebraiche ‘trattavano tutti gli arabi di età compresa tra i 16 e i 55 anni come combattenti e li tenevano rinchiusi come prigionieri di guerra’”. Inoltre, la CRI aveva trovato tra i detenuti dei campi ufficiali 90 uomini anziani e 77 ragazzi, di età inferiore ai 15 anni.
Lo studio mette in evidenza le dichiarazioni del delegato della CRI Emile Moeri nel mese di gennaio del 1949 sui detenuti del campo:
“E ‘doloroso vedere queste povere persone, soprattutto anziani, strappati ai loro villaggi e messi senza ragione in un campo, costretti a passare l’inverno sotto le tende bagnate, lontano dalle loro famiglie; coloro che non hanno potuto sopravvivere a queste condizioni sono morti. Figlioli (10-12 anni) si trovano ugualmente in queste condizioni. Allo stesso modo i malati, alcuni con la tubercolosi, languono in questi campi in condizioni che, pur accettabili per individui sani, certamente porteranno alla loro morte, se non troviamo una soluzione a questo problema. Per molto tempo abbiamo chiesto alle autorità ebraiche di rilasciare quei civili che sono malati e necessitano della cura delle loro famiglie o di un ospedale arabo, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta”.
Mappa dei campi di lavoro forzato ( Fonte Salman Abu Sitta, Palestine land society al-Saadi – al-Akhbar

di Yazan al-Saadi – al-Akhbar

Prima parte
Roma, 1 ottobre 2014, Nena News - Come osserva il rapporto, “non ci sono dati precisi sul numero totale di civili palestinesi detenuti da Israele durante la guerra del 1948-49″ e le stime tendono a non tenere conto di campi “non ufficiali”, oltre al movimento frequente di prigionieri tra i campi in uso. Nei quattro campi “ufficiali” il numero dei prigionieri palestinesi non ha mai superato le 5 mila unità secondo i dati dei documenti israeliani.
Prendendo come riferimento la capacità di Umm Khalid e le stime dei “campi non ufficiali”, il numero finale di prigionieri palestinesi potrebbe salire intorno alle 7 unità, e forse molte di più, come afferma lo studio, se si tiene conto del diario di ingresso compilato il 17 novembre 1948 da David Ben Gurion, uno dei principali leader sionisti e primo ministro di Israele, che afferma “l’esistenza di 9 mila prigionieri di guerra nei campi gestiti dagli israeliani”.
In generale, le condizioni di vita nei campi “ufficiali” erano di gran lunga inferiori a quello che sarebbe stato considerato appropriato dal diritto internazionale in quel momento. Moeri, che ha visitato i campi di continuo, ha riferito che a Ijlil nel novembre 1948: “molte delle tende sono strappate, il che significa che il campo “non è pronto per l’inverno,” le latrine non sono coperte e la mensa è ferma da due settimane. Riferendosi a una situazione apparentemente in corso, ha affermato che “la frutta è ancora guasta, la carne è di scarsa qualità e le verdure scarseggiano”.
Inoltre, Moeri ha riferito di aver visto “‘le ferite lasciate dagli abusi della settimana precedente, quando le guardie avevano sparato sui prigionieri, ferendone uno, e ne avevano picchiato un altro”.
Come mostra di studio, lo stato civile della maggioranza dei detenuti era chiaro ai delegati della CRI nel paese, che hanno riferito che gli uomini catturati “senza dubbio non erano mai stati in un esercito regolare”. I detenuti che erano combattenti, spiega lo studio, venivano “regolarmente uccisi con la scusa che stavano tentando di fuggire”.
Le forze israeliane sembravano prendere di mira sempre uomini validi, lasciando da parte di donne, bambini e anziani – quando non li massacravano – e la politica continuò anche dopo che vi erano bassi livelli di confronto militare. Tutto sommato, come mostrano i registri israeliani e come cita lo studio “la stragrande maggioranza (82 per cento) dei 5950 indicati come internati nei campi di prigionia erano civili palestinesi, mentre i palestinesi in generale (civili e militari) formavano l’85 per cento dei detenuti”.
Il rapimento in larga scala e la detenzione di civili palestinesi tendono a corrispondere con le campagne militari israeliane. Ad esempio, uno dei primi grandi rastrellamenti si è verificato durante l’Operazione Danj, quando 60-70 mila palestinesi furono espulsi dalle città centrali di Lydda e Ramleh. Allo stesso tempo, tra un quinto e un quarto della popolazione maschile di queste due città al di sopra dei 15 anni era stato inviato nei campi.
La più grande retata di civili proveniva dai villaggi della Galilea centrale, catturata durante l’Operazione Hiram nell’autunno del 1948.
Un sopravvissuto palestinese, Moussa, ha descritto agli autori ciò che ha assistito al momento: “Ci hanno rastrellati da tutti i villaggi intorno a noi: al-Bi’na, Deir al-Asad, Nahaf, al-Rama, e Eilabun. Hanno preso 4 giovani uomini e li hanno uccisi … Ci hanno condotti a piedi. Faceva caldo. Non ci era permesso bere. Ci hanno portati a [il villaggio palestinese druso, ndr] al-Maghar, poi a [ l'insediamento ebraico, ndr] Nahalal, poi ad Atlit”.
A 16 Novembre 1948 rapporto delle Nazioni Unite ha confermato il racconto di Moussa, affermando che circa 500 uomini palestinesi “sono stati fatti marciare a forza e trasferiti in un campo di concentramento ebraico a Nahlal”.

MANTENERE L’ECONOMIA DI ISRAELE “CON LA SCHIAVITÙ”
La politica di prendere di mira i civili, in particolare uomini “abili”, non era accidentale. Come afferma lo studio, “con decine di migliaia di uomini e donne ebrei chiamati per il servizio militare, gli internati civili palestinesi costituivano un importante complemento al lavoro civile ebraico impiegato ai sensi della legislazione di emergenza nel mantenere l’economia israeliana”, che anche la delegazione della CRI aveva notato nelle proprie relazioni.
I prigionieri erano costretti a fare lavoro pubblico e militare – come essiccare le zone umide – a lavorare come servi nella raccolta e nel trasporto delle proprietà saccheggiate ai rifugiati – spostando pietre demolite di case palestinesi – a pavimentare le strade, scavare trincee militari, seppellire i morti e molto altro.
Come un ex detenuto palestinese di nome Habib Mohammed Ali Jarada ha descritto nello studio, “a mano armata mi facevano lavorare tutto il giorno. Di notte, dormivamo in tenda. In inverno, l’acqua filtrava sotto i nostri giacigli, composti da foglie secche, cartoni e pezzi di legno”.
Un altro prigioniero in Umm Khalid, Marwan al-Iqab Yehiya ha detto in un’intervista con gli autori: “Dovevamo tagliare e trasportare le pietre [in una cava] tutto il giorno. Il nostro cibo quotidiano era solo una patata al mattino e mezzo pesce essiccato durante la notte. Picchiavano chiunque disobbedisse agli ordini”. Il lavoro veniva inframmezzato da atti di umiliazione da parte guardie israeliane: Yehiya parla di prigionieri “allineati e fatti spogliare come punizione per la fuga dei due prigionieri di notte”.
“[Ebrei] adulti e bambini venivano dal kibbutz vicino a guardarci in fila nudi e ridevano. Per noi – ha aggiunto – questa è stata la cosa più degradante”.
Abusi da parte delle guardie israeliane erano sistematici e diffusi nei campi, diretti verso paesani, contadini e la classe palestinese più bassa. Questo si è verificato, dice lo studio, perché i detenuti istruiti “conoscevano i loro diritti e avevano la coscienza necessaria per discutere e resistere ai loro carcerieri.”
Una cosa interessante notare dallo studio, inoltre, è come le affiliazioni ideologiche tra i detenuti e le loro guardie avevano altri effetti in termini di rapporto tra di loro.
Citando la testimonianza di Kamal Ghattas, che è stato catturato durante l’attacco israeliano in Galilea:
“Abbiamo avuto un litigio con i nostri carcerieri. Quattrocento di noi di fronte a 100 soldati. Hanno portato i rinforzi. Io e tre dei miei amici siamo stati portati in una cella. Hanno minacciato di spararci. Tutta la notte abbiamo cantato l’inno comunista. Ci hanno portato tutti e quattro al campo di Umm Khaled. Gli israeliani avevano paura della propria immagine in Europa. Il nostro contatto con il nostro Comitato Centrale e Mapam [Partito socialista israeliano] ci ha salvati. … Ho incontrato un ufficiale russo e gli ho detto ci avevano portato via dalle nostre case anche se eravamo civili, cosa che era contro le Convenzioni di Ginevra. Quando ha saputo che ero un comunista mi abbracciò e disse: “Compagno, ho due fratelli nell’Armata Rossa. Viva Stalin. Lunga vita alla Madre Russia”.
Eppure, i palestinesi meno fortunati facevano fronte ad atti di violenza che comprendevano le esecuzioni arbitrarie e le torture, senza ricorso. Le esecuzioni sono state sempre spacciate come arresto dei “tentativi di fuga” – reali o rivendicati dalle guardie.
Era diventato così comune che un ex detenuto palestinese di Tel Litwinsky, Tewfic Ahmed Jum’a Ghanim ha raccontato: “Chiunque rifiutava di lavoro veniva fucilato. Dicevano che [la persona] aveva tentato di fuggire. Quelli di noi che pensavano [che] stavano per essere uccisi camminavano all’indietro di fronte alle guardie”.
In definitiva, entro la fine del 1949, i prigionieri palestinesi vennero gradualmente rilasciati dopo forti pressioni da parte della CRI ​​e delle altre organizzazioni, ma i rilasci erano limitati in scala e molto concentrati su casi specifici. I prigionieri degli eserciti arabi vennero rilasciati durante gli scambi di prigionieri, mentre i detenuti palestinesi vennero unilateralmente espulsi attraverso la linea di armistizio senza cibo, forniture, o riparo: gli venne detto di camminare in lontananza e di non tornare mai più.
Questo non sarebbe successo fino al 1955, quando la maggior parte dei prigionieri civili palestinesi venne finalmente rilasciata.
L’importanza di questo studio è multiforme. Non solo rivela le numerose violazioni del diritto internazionale e le convenzioni dell’epoca, come i Regolamenti dell’Aia del 1907 e le Convenzioni di Ginevra del 1929, ma mostra anche come l’evento ha plasmato la CRI a lungo raggio.
Poiché la CRI ha dovuto affrontare un attore israeliano belligerante che non era disposto ad ascoltare e conformarsi alle leggi e alle convenzioni internazionali, la CRI si è dovuta adattare a ciò che considerava fossero metodi pratici per contribuire a garantire ai prigionieri civili palestinesi protezione al minimo dei loro diritti.
Nella sua relazione finale, lo studio cita de Reynier:
“La CRI ha protestato in numerose occasioni affermando il diritto di questi civili a godere della loro libertà se non trovati colpevoli e giudicati da un tribunale. Ma abbiamo tacitamente accettato il loro status di prigionieri di guerra, perché in questo modo essi godono dei diritti conferiti loro dalla convenzione. In caso contrario, se non fossero stati nei campi sarebbero stati espulsi [verso un paese arabo], e in un modo o nell’altro, avrebbero condotto senza risorse la vita miserabile dei rifugiati”.
Alla fine, la CRI e le altre organizzazioni erano semplicemente inefficaci, dal momento che Israele ha ignorato le sue condanne impunemente, oltre ad avere la copertura diplomatica delle grandi potenze occidentali.
Ancora più importante, lo studio getta più luce sulla portata dei crimini israeliani durante la sua nascita brutale e sanguinosa. E “rimane ancora molto da raccontare”, come è scritto sulla riga finale dello studio.
“E ‘sorprendente per me, e per molti europei che hanno visto il mio studio”, ha detto Abu Sitta, “che i campi di lavoro forzato siano stati aperti in Palestina tre anni dopo essere stati chiusi in Germania, e sono stati gestiti da ex prigionieri: ci sono state guardie ebree tedesche. Questo è un cattivo riflesso dello spirito umano, dove l’oppresso copia l’oppressore contro vite innocenti”.
Lo studio mostra essenzialmente i fondamenti e le origini della politica israeliana nei confronti dei civili palestinesi che si presenta sotto forma di sequestro, arresto e detenzione. Questi crimini continuano fino a oggi. Basta limitarsi a leggere le relazioni sulle centinaia di palestinesi arrestati prima, durante e dopo la recente guerra di Israele contro Gaza di quest’anno.
“Oggi Gaza – conclude Abu Sitta – è un campo di concentramento, non diverso rispetto al passato”. Nena News

Traduzione a cura della redazione di Nena News

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