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sabato 15 novembre 2014

CONSIDERAZIONI SULL'ARTICOLO 18.

da http://www.senzasoste.it/speciali/perche-difendere-l-articolo-18
Non è un feticcio o un totem, è l’unico sostituto del ricatto e della paura ed è alla base del diritto del lavoro. Investimenti? Dopo il Jobs Act e il principio di acausalità del contratto a tempo determinato, gli imprenditori possono fare come vogliono. Senza l'articolo 18 saranno solo il ricatto e la paura a regolare i rapporti tra capitale e lavoro e ne risentiranno salari e sicurezza
 
A volte succede che chi ci governa ci racconta storie prive di fondamento, ma noi neanche ce ne accorgiamo. Nel caso di Renzi siamo addirittura in presenza di un imbonitore di talmente alto livello, che spesso le sue storielle sono raccontate così bene che l'ascoltatore rimane ipnotizzato e non verifica quanto sta sentendo. In questo caso parliamo del dibattito sull'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una norma di civiltà (come l'abbiamo più volte definita nelle nostre analisi degli ultimi anni) che pare oggi in serio pericolo.
Gli investitori stranieri
La cosa più insensata che si sente in giro è il fatto che gli investitori stranieri non vengono in Italia per colpa dell'articolo 18 (avete infatti mai letto di una grande azienda straniera che ha annunciato espressamente di voler venire in Italia solo in caso di abolizione della norma sui licenziamenti?). La porta ai capitali di rapina (o mordi e fuggi), invece, è già stata aperta nel 2012 dalla cosiddetta “Riforma Fornero” quando è stato tolto l'obbligo di motivare l'utilizzo di contratti a tempo determinato (la cosiddetta causalità del contratto). Dopo la il decreto 34/2014 (cd. Jobs act di Renzi) e la totale liberalizzazione e applicazione del principio di acausalità al contratto a tempo indeterminato, gli imprenditori possono fare come vogliono, avere 10 assunti a tempo indeterminato e 100 a tempo determinato senza dover spiegare perché (cioè senza dover specificare le esigenze produttive o organizzative). Insomma, il mercato del lavoro italiano è già straflessibile, con una miriade di forme contrattuali precarie ed atipiche oltre alla appena descritta normativa letale sui contratti a termine, e non si capisce quindi come possa essere incredibilmente definito "troppo rigido". Semmai ci sarebbe da capovolgere i termini del discorso: il capitalismo globale investe laddove ci sono salari polacchi o serbi, quindi per investire in Italia chiede salari da fame per avere garanzia di profitti e l’abolizione dell’art.18 è un buon viatico per la realizzazione di questa condizione. Ecco, abbiamo trovato il motivo per cui opporci e resistere.

Un po’ di storia
L'articolo 18, infatti, non ha niente a che fare con questioni produttive o salariali, perché serve solo a tutelare il lavoratore da abusi, licenziamenti discriminatori oppure da licenziamenti discriminatori mascherati da falsi problemi di natura economica. Fu pensato e rivendicato, infatti, dopo l’ondata di licenziamenti “politici” e sindacali fatti dalla Fiat con a capo Vittorio Valletta (il Marchionne degli anni ’60). Lo Statuto dei Lavoratori, in precedenza votato al Senato, venne approvato il 14 maggio 1970 dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – Dc, Psi e Psdi unificati nel Psu, Pri – con l'aggiunta del Pli, al tempo all'opposizione) e con l’astensione Pci, Psiup e Msi oltre che dieci voti contrari. Pci e Psiup volevano l’estensione anche alle aziende sotto i 16 dipendenti. Il ministro del lavoro dell’epoca, il democristiano Donat Cattin, strigliò i malumori del padronato e della destra, mentre i socialisti, all’epoca al governo con la DC nell’era del cosiddetto “centrosinistra”, esultarono (l’estensore, Giovanni Brodolini era uno di loro) e dichiararono: “Finalmente la Costituzione entra in fabbrica”. Erano anni di scioperi (veri e lunghi) e proteste e la politica istituzionale era stata costretta a codificare le rivendicazioni di un movimento operaio sempre più vasto e conflittuale.

L’importanza dell’articolo 18
Ma perché è così importante l'articolo 18? Semplice, perché senza l'articolo 18 saranno solo il ricatto e la paura a regolare i rapporti tra capitale e lavoro, tra imprenditore e lavoratore. Ma c'è di più. L'articolo 18 è l'essenza stessa del diritto del lavoro. Chi mai chiamerà in causa la propria azienda per stipendi arretrati da avere o per mancanza di sicurezza se la legge permette al datore di rivalersi su di lui con un licenziamento che al massimo sarà sanato con un pagamento di indennità e non con il reintegro, in un momento in cui la disoccupazione è alle stelle? L'articolo 18 non è né causa né stimolo per occupazione o economia, è però l'unica norma che riesce (o meglio, riusciva, prima che la riforma Fornero iniziasse a decapitarla) a tenere in equilibrio e regolare i rapporti tra capitale e lavoro. Se venisse abolito assisteremmo ad una inimmaginabile escalation negativa su salari e sicurezza. E quelli che non ne possono già ora usufruire? L'esistenza dell'articolo 18 è comunque un elemento di forza per il mondo del lavoro, che poi si esprimerà nei contratti nazionali di cui poi usufruiranno come base salariale e normativa anche coloro che non ne beneficiano. Se chi oggi è più tutelato, grazie anche all'articolo 18, perde forza nei confronti del capitale, a cascata c'è un arretramento di tutte le forme e situazioni contrattuali, cioè di tutto il mondo del lavoro.

I falsi numeri
La favoletta dice più o meno così: "Quello dell'Articolo 18 è un falso problema, perché riguarda solo 3mila persone all'anno in un paese di 60 milioni di abitanti". La teoria di Renzi, tra l'altro spiegata spostando numeri come se fossero noccioline, parte però da un punto clamorosamente fuorviante, ossia quello delle cause di lavoro riguardanti l'Articolo 18 e non, come invece dovrebbe essere, quello dell'intera platea dei soggetti ai quali tale articolo viene applicato. Se infatti l'Articolo 18 ha come conseguenza solo un numero limitato di cause di lavoro è perché è una legge di tutela. Vuol dire quindi che funziona benissimo nel suo scopo, perché agisce come deterrente a licenziare per le imprese. L’articolo 18 svolge quindi il suo compito di tutela per circa 6 milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici.

Giustizia sociale e diritto
L’essenza dell’articolo 18 va anche oltre il mondo del lavoro. E’ una norma a tutela della giustizia sociale ma anche dell’intero impianto del diritto. Ce lo spiega l’avvocato Marco Guercio in un articolo uscito sul suo blog: “Provate per un momento a pensare a due terreni confinanti di proprietà di due persone, i soliti Tizio e Caio, che hanno costruito una casa ognuno sulla sua proprietà. Pensate a questi due terreni come ad un unico terreno perché tra le due proprietà non è mai stato eretto alcun muro nonostante sia chiaro ad entrambi quale sia il confine per come è indicato al catasto. Ora provate a pensare ad uno dei due proprietari, Tizio, che un bel giorno, approfittando, ad esempio, dell'assenza del vicino, decide di erigere un muro e, deliberatamente, lo costruisce 50 metri all'interno della proprietà di Caio sottraendogli quindi svariati ettari di terreno. Ora pensate al malcapitato Caio che tornando a casa vede questa costruzione che invade letteralmente casa sua e che, infuriato, decide di rivolgersi ad un avvocato e, quindi, ad un tribunale per ottenere la rimozione coattiva del muro. A questo punto pensate al povero Caio che si sente dire dall'Avvocato e dal Giudice che purtroppo, a seguito di una recente riforma, il muro non si può più abbattere e che, al limite, lui avrà diritto ad un risarcimento del danno, peraltro in via forfetaria e quindi neanche commisurato all'effettiva perdita e all'effettivo danno ma compreso tra 10.000 euro e 20.000 euro. Il muro, però, se lo tiene e la proprietà del terreno sottratto, in pratica, non è più sua. Questo che può sembrare solo un esempio è esattamente lo schema che spiega la riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Nel nostro ordinamento, infatti, esistono due forme di risarcimento del danno che, ovviamente, possono essere azionate a fronte di una condotta illegittima posta in essere da qualcuno che lede un nostro diritto: il risarcimento in forma specifica (rimetti tutto a posto come prima) ed il risarcimento per equivalente (mi paghi quello che hai rotto). La prima soluzione consente al creditore, cioè a colui che ha subito il danno ingiusto derivante da un atto illecito o da un inadempimento contrattuale, di ottenere, ove possibile, il ripristino della situazione precedente al verificarsi della condotta illegittima. Nel caso del muro, quindi, il risarcimento in forma specifica consiste nell'abbattimento dello stesso a spese del prepotente Tizio. La seconda ipotesi è l'unica esperibile nel caso in cui non sia più oggettivamente possibile (si pensi al danneggiamento o al deterioramento di beni infungibili) ottenere il ripristino della situazione precedente per vari motivi oppure quando il creditore danneggiato possa scegliere questo tipo di risarcimento perché lo ritiene il più vantaggioso. Ebbene la reintegra nel posto di lavoro del lavoratore licenziato in maniera illegittima dal datore di lavoro non è nient'altro che una forma di risarcimento in forma specifica ed è sempre possibile perché il Giudice può sempre ordinare al datore di lavoro di restituire al danneggiato ciò che gli è stato tolto in ragione di un atto illecito, ovvero il suo posto di lavoro. E' prevista dall'art. 18 st. lav. ma in un certo senso non ce ne sarebbe stato bisogno perché, si ripete, è un principio generale del diritto civile, del codice civile di cui le norme in tema di lavoro sono parte integrante essendo collocare nel libro V, appunto, del Codice Civile.

Franco Marino
tratto da Senza Soste n.97 (ottobre-novembre 2014)

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