da http://www.senzasoste.it/internazionale/italia-isis-alle-porte
Ma c’è anche un’altra questione che rende più complicata la vicenda libica. Numerose fonti occidentali sul campo fanno capire che l’area di Tripoli, compreso l’aeroporto, è in mano a bande, e in preda anche ad una guerra tra queste bande, di diversa natura che rendono difficile, quando non impossibile, commerciare secondo necessità occidentali. Presenza delle bande, ripiegamento del governo filo-occidentale, avanzata dell’Isis sembrano così imporre all’Italia la necessità di un intervento a protezione degli interessi, sempre più minacciati, delle proprie imprese. Ma c’è anche l’altra questione, di politica dei flussi migratori, che è all’attenzione del governo italiano. Quella che riguarda la strategia sul come “regolare” l’immigrazione verso le coste siciliane che non solo ha prodotto stragi, non solo è governata con strumenti militari ridotti rispetto alla missione Mare Nostrum, ma che piuttosto, in Libia, pare in mano a soggetti che la regolano ormai solo secondo proprie prioritarie esigenze. Nel complesso allora, se si configurasse una missione in Libia, e per farlo il governo dovrebbe tenere alta l’attenzione sul problema con una certa insistita continuità, potrebbe quindi avere queste caratteristiche 1) supporto militare agli interessi italiani sul territorio 2) istituzione di campi profughi in loco per regolare i flussi migratori secondo le esigenze di Roma (e di Bruxelles) 3) aiuto significativo al governo filo-occidentale in Libia 4) “bonifica” dei territori dalle bande e sconfitta, o quantomeno sostanziale contenimento, di Isis.
Ora non ci vuole molto a capire che non solo tutti e quattro i punti immaginati -ma anche solo uno, inteso come obiettivo principale entro una ipotetica missione italiana – rappresenterebbero uno sforzo politico e militare di notevoli, se non impossibili, proporzioni per il nostro paese. Di una entità mai sperimentata dal dopoguerra. Visto che l’Italia nelle missioni più pericolose o è sempre stata sotto comando alleato, di fatto Usa, oppure ha partecipato a missioni di garanzia di accordi di pace (come in Bosnia o in Libano). Non solo, un intervento militare, anche per il solo obiettivo di tenere gli impianti (comunque difficile da raggiungere), esporrebbe l’Italia, come è accaduto alla Francia, a dover considerare come prima linea, quindi a rischio attentati, le proprie principali città. Suscita quindi un certo stupore il fatto che le affermazioni del ministro Gentiloni, le più bellicose di un ministro degli esteri dal ’45, testualmente scandite in quel “siamo pronti a combattere”, siano state accolte con sostanziale indifferenza sia dalle opposizioni che dalle forze sociali. Si vede che, tra maggioranza e opposizioni, scherzare col fuoco è ritenuto un gioco che non espone a scottature.
Va anche registrato il fatto che alle affermazioni di Gentiloni, ma anche di Renzi, non è seguita alcuna dichiarazione di paesi alleati magari ufficialmente disposti a cooperare con l’Italia. Eppure, dopo la missione aerea che ha disintegrato il governo di Gheddafi dal cielo, sia gli Usa che la Francia all’epoca avrebbero avuto bisogno di una missione militare a terra. Ma anche pochi anni non passano senza lasciare tracce e non ci sarebbe da stupirsi anche se Usa e Francia hanno a suo tempo manifestato interesse geopolitico verso la Libia, se a) il calo del prezzo del petrolio abbia messo in secondo piano il problema di governare quel paese b) si voglia invece tenere in secondo piano proprio le esigenze subcoloniali dell’Italia.
Fatto sta che la clamorosa estromissione del ministro degli Esteri Ue Mogherini a Minsk, nelle trattative sul conflitto russo-ucraino, probabilmente andrebbe letta anche alla luce di un ipotetico attuale isolamento italiano sullo scenario libico. Eppure, nonostante che le dichiarazioni di Gentiloni, e quelle di Renzi sulla necessità di farsi sentire in sede Onu, siano rimaste, ad oggi, senza controcanto ufficiale il governo sembra insistere. La ministro Pinotti, in una intervista al Messaggero, ha parlato di una missione come quella del 2006 in Libano a sostanziale comando italiano su mandato Onu. La stampa si è spinta, commentando le frasi della Pinotti sui 5000 soldati inviati in Afghanistan, a parlare dello stesso numero di effettivi per la Libia.
Nel giornalismo italiano, si sa, riflettere con la propria testa è tassativamente proibito. Proviamo quindi ad immaginare noi lo scenario: mandato Onu, una copertura area contrattata con la Nato (per farla semplice), 5000 uomini a sostanziale comando italiano e via con la partenza in Libia. Solo che la missione non sarebbe quella libanese, invio di truppe come garanzia di accordi tra le parti sul campo. Ma una vera e propria spedizione di guerra per raggiungere obiettivi estremamente difficili da raggiungere sul piano politico, diplomatico e militare. Con 5000 uomini nettamente insufficienti a raggiungere lo scopo, qualsiasi sia vista l’intensità dei combattimenti sul campo, e con l’Isis che ha già bollato l’Italia come paese del ministro “crociato” (identificando quindi già ministro e paese come obiettivo). Tenendo conto che gli alleati, quelli grossi, si sono mostrati freddi fino ad adesso. Fattore che, più domani che oggi, potrebbe rivelarsi particolarmente critico in caso di difficoltà in corso d’opera.
C’è anche da aggiungere che, anche durante la lunga dittatura di Gheddafi, si è perpetuata la memoria collettiva dell’occupazione coloniale italiana e delle stragi volute dal generale Graziani. Una qualsiasi operazione militare che volesse mantenere la minima parvenza di peacekeeping non dovrebbe prevedere la presenza forte dell’ex potenza colonizzatrice. Ma qui, al di là delle formule fatte per i media a reti unificate e per una opinione pubblica che, al massimo, oggi attende solo i processi per corruzione per gettarsi nell’esecrazione collettiva del ladro c’è un’altra questione. L’eventuale intervento militare italiano sembrerebbe più somigliare alle avventure africane della Francia, come nel recente intervento in Mali, dove l’ex potenza coloniale va a regolare sul campo la questione degli interessi lesi o messi in discussione. Solo che l’Italia, nel caso, non ha mai fatto questo tipo di interventi e deve trovarsi la cornice istituzionale e politica per farlo. Se avverrà, come recitava una nota canzonetta, lo scopriremo vivendo visto che la capacità critica di informare dei processi in corso, da parte dei media italiani, tocca stabilmente lo zero. Oltretutto in Libia, oltre al pulviscolo di bande che lottano contro il governo filo-occidentale, ci sarebbe da trovarsi direttamente a contatto con lo stato islamico. E qui va ricordata la doppia logica di espansione di Isis: mediale e militare. Dopo il passo falso di Kobane non è un caso che la regia dei media center di Isis abbia messo l’accento sull’atroce esecuzione del pilota giordano: per ritornare in testa all’audience. L’avversario, nel caso, sarebbe quindi quelli che sa combattere su due piani. E, oltre a quello militare, non è chiaro, né tranquillizzante, immaginare l’impatto della eventuale politica mediale di Isis sull’Italia. Tale comunque da contribuire a trasfigurare il quadro politico e istituzionale, specie quello renziano che vive di immagine, da scommetterci sicuri.
Le avventure coloniali le fanno due tipi di stati: uno in salute, in grado di crescere espandendo la propria logica di potenza, ed uno debilitato, necessitante in modo disperato di nuova linfa economica e geopolitica. Essendo lo stato italiano un soggetto debilitato, e socialmente debilitante, c’è solo da sperare che qualcosa porti velocemente nel binario morto, quello delle intenzioni morte giovani, una avventura che, se davvero intrapresa, potrebbe anche rivelarsi particolarmente drammatica. Per tutti.
Redazione, 15 febbraio 2015
Non molti giorni fa avevamo pubblicato un nostro redazionale sulla situazione libicaevidenziando come, sul campo, si stesse ormai cronicizzando una guerra civile tra più fazioni. Di fatto, salvo una serie di piccole tregue, non si può realmente parlare di interruzione della guerra civile in Libia dopo la morte di Gheddafi nell’autunno del 2011. Ma, nel corso degli ultimi mesi, oltre alla radicalizzazione dello scontro tra governo riconosciuto dall’occidente e guerriglia autonoma di ogni genere (da settori legati ai fratelli musulmani a semplici gruppi di signori della guerra che riscuotono pedaggi) c’è stata la intromissione dello stato islamico. Con tanto di proclamazione del califfato a Derna.
La crescita di Isis in Libia ha anche spiazzato tradizionali alleanze italiane, una fonte esperta del campo intervistata da Rainews ha ammesso che gruppi autonomi che dialogavano con l’Italia sono passati direttamente allo stato islamico, ma naturalmente il grosso problema non sta solo in questi passaggi. Per l’Italia la questione sta nel fatto che, dopo la sconfitta del governo riconosciuto dall’occidente riparato a Tobruk (praticamente in Egitto), manca ormai da troppo tempo il referente forte per la garanzia del rispetto dei contratti italiani per l’estrazione delle materie prime. Non è un caso infatti che l’unica ambasciata a rimanere a Tripoli, tra i paesi occidentali, sia rimasta quella italiana. Si è provato, e si prova, fino all’ultimo a dare un supporto politico, diplomatico e amministrativo alle imprese italiane in Libia. Come si capisce dalle dichiarazioni, sempre più preoccupate, degli esponenti del governo Renzi questo supporto si fa, invece, sempre più difficile. Non c’è quindi da stupirsi che partano dichiarazioni di possibile intervento militare da parte del ministro degli esteri.Ma c’è anche un’altra questione che rende più complicata la vicenda libica. Numerose fonti occidentali sul campo fanno capire che l’area di Tripoli, compreso l’aeroporto, è in mano a bande, e in preda anche ad una guerra tra queste bande, di diversa natura che rendono difficile, quando non impossibile, commerciare secondo necessità occidentali. Presenza delle bande, ripiegamento del governo filo-occidentale, avanzata dell’Isis sembrano così imporre all’Italia la necessità di un intervento a protezione degli interessi, sempre più minacciati, delle proprie imprese. Ma c’è anche l’altra questione, di politica dei flussi migratori, che è all’attenzione del governo italiano. Quella che riguarda la strategia sul come “regolare” l’immigrazione verso le coste siciliane che non solo ha prodotto stragi, non solo è governata con strumenti militari ridotti rispetto alla missione Mare Nostrum, ma che piuttosto, in Libia, pare in mano a soggetti che la regolano ormai solo secondo proprie prioritarie esigenze. Nel complesso allora, se si configurasse una missione in Libia, e per farlo il governo dovrebbe tenere alta l’attenzione sul problema con una certa insistita continuità, potrebbe quindi avere queste caratteristiche 1) supporto militare agli interessi italiani sul territorio 2) istituzione di campi profughi in loco per regolare i flussi migratori secondo le esigenze di Roma (e di Bruxelles) 3) aiuto significativo al governo filo-occidentale in Libia 4) “bonifica” dei territori dalle bande e sconfitta, o quantomeno sostanziale contenimento, di Isis.
Ora non ci vuole molto a capire che non solo tutti e quattro i punti immaginati -ma anche solo uno, inteso come obiettivo principale entro una ipotetica missione italiana – rappresenterebbero uno sforzo politico e militare di notevoli, se non impossibili, proporzioni per il nostro paese. Di una entità mai sperimentata dal dopoguerra. Visto che l’Italia nelle missioni più pericolose o è sempre stata sotto comando alleato, di fatto Usa, oppure ha partecipato a missioni di garanzia di accordi di pace (come in Bosnia o in Libano). Non solo, un intervento militare, anche per il solo obiettivo di tenere gli impianti (comunque difficile da raggiungere), esporrebbe l’Italia, come è accaduto alla Francia, a dover considerare come prima linea, quindi a rischio attentati, le proprie principali città. Suscita quindi un certo stupore il fatto che le affermazioni del ministro Gentiloni, le più bellicose di un ministro degli esteri dal ’45, testualmente scandite in quel “siamo pronti a combattere”, siano state accolte con sostanziale indifferenza sia dalle opposizioni che dalle forze sociali. Si vede che, tra maggioranza e opposizioni, scherzare col fuoco è ritenuto un gioco che non espone a scottature.
Va anche registrato il fatto che alle affermazioni di Gentiloni, ma anche di Renzi, non è seguita alcuna dichiarazione di paesi alleati magari ufficialmente disposti a cooperare con l’Italia. Eppure, dopo la missione aerea che ha disintegrato il governo di Gheddafi dal cielo, sia gli Usa che la Francia all’epoca avrebbero avuto bisogno di una missione militare a terra. Ma anche pochi anni non passano senza lasciare tracce e non ci sarebbe da stupirsi anche se Usa e Francia hanno a suo tempo manifestato interesse geopolitico verso la Libia, se a) il calo del prezzo del petrolio abbia messo in secondo piano il problema di governare quel paese b) si voglia invece tenere in secondo piano proprio le esigenze subcoloniali dell’Italia.
Fatto sta che la clamorosa estromissione del ministro degli Esteri Ue Mogherini a Minsk, nelle trattative sul conflitto russo-ucraino, probabilmente andrebbe letta anche alla luce di un ipotetico attuale isolamento italiano sullo scenario libico. Eppure, nonostante che le dichiarazioni di Gentiloni, e quelle di Renzi sulla necessità di farsi sentire in sede Onu, siano rimaste, ad oggi, senza controcanto ufficiale il governo sembra insistere. La ministro Pinotti, in una intervista al Messaggero, ha parlato di una missione come quella del 2006 in Libano a sostanziale comando italiano su mandato Onu. La stampa si è spinta, commentando le frasi della Pinotti sui 5000 soldati inviati in Afghanistan, a parlare dello stesso numero di effettivi per la Libia.
Nel giornalismo italiano, si sa, riflettere con la propria testa è tassativamente proibito. Proviamo quindi ad immaginare noi lo scenario: mandato Onu, una copertura area contrattata con la Nato (per farla semplice), 5000 uomini a sostanziale comando italiano e via con la partenza in Libia. Solo che la missione non sarebbe quella libanese, invio di truppe come garanzia di accordi tra le parti sul campo. Ma una vera e propria spedizione di guerra per raggiungere obiettivi estremamente difficili da raggiungere sul piano politico, diplomatico e militare. Con 5000 uomini nettamente insufficienti a raggiungere lo scopo, qualsiasi sia vista l’intensità dei combattimenti sul campo, e con l’Isis che ha già bollato l’Italia come paese del ministro “crociato” (identificando quindi già ministro e paese come obiettivo). Tenendo conto che gli alleati, quelli grossi, si sono mostrati freddi fino ad adesso. Fattore che, più domani che oggi, potrebbe rivelarsi particolarmente critico in caso di difficoltà in corso d’opera.
C’è anche da aggiungere che, anche durante la lunga dittatura di Gheddafi, si è perpetuata la memoria collettiva dell’occupazione coloniale italiana e delle stragi volute dal generale Graziani. Una qualsiasi operazione militare che volesse mantenere la minima parvenza di peacekeeping non dovrebbe prevedere la presenza forte dell’ex potenza colonizzatrice. Ma qui, al di là delle formule fatte per i media a reti unificate e per una opinione pubblica che, al massimo, oggi attende solo i processi per corruzione per gettarsi nell’esecrazione collettiva del ladro c’è un’altra questione. L’eventuale intervento militare italiano sembrerebbe più somigliare alle avventure africane della Francia, come nel recente intervento in Mali, dove l’ex potenza coloniale va a regolare sul campo la questione degli interessi lesi o messi in discussione. Solo che l’Italia, nel caso, non ha mai fatto questo tipo di interventi e deve trovarsi la cornice istituzionale e politica per farlo. Se avverrà, come recitava una nota canzonetta, lo scopriremo vivendo visto che la capacità critica di informare dei processi in corso, da parte dei media italiani, tocca stabilmente lo zero. Oltretutto in Libia, oltre al pulviscolo di bande che lottano contro il governo filo-occidentale, ci sarebbe da trovarsi direttamente a contatto con lo stato islamico. E qui va ricordata la doppia logica di espansione di Isis: mediale e militare. Dopo il passo falso di Kobane non è un caso che la regia dei media center di Isis abbia messo l’accento sull’atroce esecuzione del pilota giordano: per ritornare in testa all’audience. L’avversario, nel caso, sarebbe quindi quelli che sa combattere su due piani. E, oltre a quello militare, non è chiaro, né tranquillizzante, immaginare l’impatto della eventuale politica mediale di Isis sull’Italia. Tale comunque da contribuire a trasfigurare il quadro politico e istituzionale, specie quello renziano che vive di immagine, da scommetterci sicuri.
Le avventure coloniali le fanno due tipi di stati: uno in salute, in grado di crescere espandendo la propria logica di potenza, ed uno debilitato, necessitante in modo disperato di nuova linfa economica e geopolitica. Essendo lo stato italiano un soggetto debilitato, e socialmente debilitante, c’è solo da sperare che qualcosa porti velocemente nel binario morto, quello delle intenzioni morte giovani, una avventura che, se davvero intrapresa, potrebbe anche rivelarsi particolarmente drammatica. Per tutti.
Redazione, 15 febbraio 2015
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