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lunedì 17 agosto 2015

CINA. SE SI APRE UNA GUERRA FINANZIARIA....

da http://www.senzasoste.it/internazionale/la-cina-apre-una-guerra-finanziaria-se-e-cosi-e-gia-sbarcata-in-italia
 
Ricordate i moti di Milano del 1898? Provocarono cento morti, presi a cannonate dal generale Bava Beccaris, durante una protesta contro l’aumento del prezzo del pane. Prezzo che era repentinamente salito, a causa di una tassazione, come risposta interna una guerra finanziaria internazionale che allora trovò come epicentro la borsa di Vienna. L’immagine dei banchieri impiccati ai lampioni a causa del fallimento della globalizzazione finanziaria, evocata nel 2013 da Roubini, non stimola invece la memoria collettiva italiana. E’ invece patrimonio di quella americana, perlomeno nella versione dell’assalto alle banche da parte dei risparmiatori, alimentata a partire dalla crisi bancaria del 1873 e durata, secondo alcuni storici dell’economia, fino al 1896. Le proteste contro Wall Street, e per la nazionalizzazione di comunicazione e trasporti, si snodano infatti lungo tutti gli anni ’80 dell’ottocento americano. Fino ad arrivare alla formazione del People’s Party negli anni ’90 dello stesso secolo. C’è quindi un rapporto diretto, almeno nella memoria collettiva, tutto americano, tra esplosione delle bolle e protesta verso le banche. Rapporto che non c’è altrove: tra gli effetti delle bolle possiamo trovare Zuccotti Park, che è una protesta americana contro Wall Street, ma anche le primavere arabe. Queste ultime, tra l’altro provocate da un prezzo dei beni alimentari primari provocato direttamente dal quantitative easing americano, non si sono mai rivolte contro ciò che viene chiamato “il mercato” ponendo, al limite, il problema di una sua approssimativa ma riconosciuta regolazione. Come è accaduto per le rivolte contro l’aumento del pane in Inghilterra tra negli oltre cento anni che passano tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XIX. Rivolte popolari, a volte anche vincenti, spontaneamente fuori bersaglio rispetto al problema, all’epoca inconoscibile e che causò disastri di ogni genere, della formazione di un mercato nazionale e mondiale delle materie prime alimentari. Una distanza tra proteste, e comportamenti, delle popolazioni ed evoluzione dell’economia non colmabile spontaneamente, nell’Inghilterra di allora come nel Medio Oriente di oggi. Neanche immaginandosi un potere antropologico di Twitter, strumento occidentale visto come guida delle rivoluzioni arabe e quindi magico convertitore istantaneo di masse polimorfe in soggetti liberali, degno di qualche fantasioso evoluzionista dell’800.
Questo, evitando ogni meccanicismo nel rapporto tra guerre finanziarie e rivolte, per entrare nel fatto che le risposte possibili, nel rapporto tra comportamenti di massa e esplosione di bolle e di guerre finanziarie, è estremamente vario e può essere anche molto lontano dall’epicentro del problema. Ma anche per preparare ad una questione. La guerra finanziaria che può partire dalla Cina, con le ripetute svalutazioni dello yuan, può assumere una dimensione tale da scatenare comportamenti collettivi di ogni genere. Magari non necessariamente conflittuali, bitcoin e Uber sono una riposta alla crisi del valore apertasi dopo Lehman Brothers quanto le primavere arabe, ma sicuramente fenomeni incisivi sulla superficie delle società. Registrando inoltre che, in Italia, l’espressività dei movimenti di opinione in prossimità dei crack finanziari (in contemporanea o immediatamente successivi quindi al ’92, al 2008 e al 2011) si è concentrata soprattutto verso la richiesta di comportamenti più aderenti alla morale politica (nel rapporto tra magistratura ed eletti, nella denuncia degli sprechi finanziari delle assemblee elettive, nel supporto alle inchieste sui casi di corruzione). Non toccando quindi mai, se non in rari momenti, la questione finanziaria né quella della struttura economica del paese.
Veniamo quindi alla sostanza del problema: La Cina è un paese Bric, il gruppo dei paesi economici emergenti così codificato dall’inizio degli anni 2000, è diventata la seconda potenza economica mondiale in pochi anni ed è in crisi. La questione si fa problema economico ma anche finanziario. E su quest’ultimo piano, per evitare lo scatenarsi dei soliti miti metropolitani, vale la pena di pubblicare una cartina. Quella della dimensione dei paesi del mondo per capitalizzazione di borsa. Va visualizzata per una breve lettura.
 
In questo genere di visualizzazioni cambiano le relazioni di potere pensate con la pura geopolitica: come si nota, spariscono decine e decine di paesi, quasi interi continenti. Gli Stati Uniti sono il paese più grande, la Russia è molto più piccola degli Usa, e la Cina è di dimensioni ridotte non solo rispetto al Giappone ma anche nei confronti della Svizzera. La cartina di indica la geografia della globalizzazione finanziaria e quindi la mappa del livello di comando del capitale oggi. Allo stesso tempo si comprende, visibilmente, come una crisi della borsa Usa, del livello del 2008, possa sinistrare questo livello di comando fino a generare una crisi delle banche europee i cui effetti sono stati caricati sul debito sovrano della zona euro legittimando le politiche di austerità. Si capisce però che una crisi della borsa di Shangai, per quanto capace di portare in rosso le principali borse mondiali, non abbia immediatamente, mentre in un periodo più lungo le cose cambiano, capacità di essere un killer della borsa mondiale. Diverso sarebbe se società come Alibaba, l’Amazon cinese che fattura più di Amazon ed Ebay messe assieme, quotate a New York, cominciassero a crollare. Non a caso Alibaba, nei giorni della svalutazione ha acquistato 4 miliardi di dollari di proprie azioni. Dal punto di vista finanziario si tende quindi ad evitare il contagio tra ricchezza cinese e capitalizzazione in Usa. Comprensibilmente. Ma se la distruzione di capitale è interna alla Cina, come per la bolla immobiliare o qualche società di shadow banking dei mesi scorsi, l’edificio della finanza mondiale non crolla. Al massimo qualche crepa. La questione però cambia se si passa dai cieli della capitalizzazione in borsa alla terra dei rapporti economici.
Nonostante tutto, infatti, gira l’ipotesi seria che la Cina stia cominciando lo stesso a scatenare una guerra finanziaria. Non si tratta di ipotesi campate in aria oltretutto, se confermate, troverebbero il nostro paese nella condizione della spiaggia che attende lo Tsunami.
La Cina mostra segni di crisi. Come tutti i Bric: la Russia è in preda ad una recessione, e ad una guerra a bassa intensità ai confini con l’Ucraina che le ha portato in dote una guerra finanziaria che ha danneggiato economia e rublo; Il Brasile è in crisi, l’India non solo non cresce per come avrebbe bisogno ma ha anche le proprie performance legate a quelle dell’economia cinese. E quest’ultima non solo ha visto rallentare la crescita nel corso dell’ultimo biennio ma, oltre ad essere in preda a questioni sociali di ogni genere, ma deve confrontarsi con due bolle finanziarie di notevoli dimensioni: quella del debito e quella del settore azionario.
Sempre considerando che la bolla dell’immobiliare, che in Cina ha lasciato sul campo oltre sessanta milioni di vani invenduti, intere città nuove di zecca semideserte, si è già fortemente fatta sentire dal 2010-2011. E senza appesantire l’analisi, tra i tanti grafici e proiezioni da mostrare, sul contesto cinese, vale allora la pena far vedere la situazione dell’offerta di lavoro (in rosso) rispetto al Pil reale (linea tratteggiata). I dati sono ufficiali cinesi quindi, proprio perché certificano uno stato di crisi, non hanno bisogno di dietrologie interpretative.
 
Come si vede, dal 2009 in Cina, secondo i dati ufficiali, si è allargata una forbice tra Pil reale e offerta di posti di lavoro senza precedenti rispetto al passato. Forbice che si era creata con la crisi Lehman del 2008, richiusa in contemporanea con le gigantesche misure anticrisi successive, e di nuovo riaperta in questi anni. Socialmente parlando è una crisi economica, di valore degli sterminati processi di urbanizzazione, l’offerta di lavoro è prevalentemente metropolitana, che stavolta trova una risposta differente rispetto al post-2008. Caratterizzato, già nel 2009, da un pacchetto di stimolo gigantesco (4 trilioni di yuan, circa il 16 per cento del Pil cinese secondo l’Economist di allora). Oggi invece, per richiudere la pericolosa forbice posti di lavoro-Pil, non si punta sull’allargamento del mercato interno, ma sulla svalutazione. Dopo, come accaduto nelle settimane scorse, una forte immissione di liquidità nel sistema bancario-finanziario come accaduto in Europa nel 2011 in piena crisi del debito sovrano. E questo fatto è da sottolineare tanto più che, a inizio 2014, la Cina ha tentato di allargare il mercato interno aumentando i salari, almeno nominalmente, e favorendo il credito al consumo. I soldi del credito al consumo sono invece finiti nel circuito finanziario, evaporando con la bolla di primavera-estate, mentre la forbice posti di lavoro-Pil si è allargata. Quella cinese non è quindi solo una crisi di correzione di valori di mercato: è qualcosa che tocca nel profondo la struttura stessa della produzione di posti di lavoro, la velocità di accumulazione del Pil e, appunto, la bolla finanziaria.
Si parla quindi in generale di fenomeni, socialmente inquadrabili entro velocità e crisi dei processi di urbanizzazione, che riguardano proprio i processi di occidentalizzazione del paese. Esattamente al contrario di quello che sostengono diversi analisti, alcuni decisamente improvvisati, delle vicende di queste ultime settimane. La bolla del debito sovrano è ben conosciuta alla zona euro, quella dell’azionario è vecchia, e ciclica, come le borse stesse, quanto alla bolla dell’immobiliare, quella americana del 2008 ha deviato, in peggio, il corso della vita del pianeta. Attribuire ad una qualche specificità cinese questi fenomeni è pura ideologia. Il capitalismo, una volta globalizzato, tende a somigliarsi ovunque: la ciclicità dei processi di accumulazione-espansione-crisi tende ad avere caratteristiche universalmente riconoscibili. Figuriamoci in borsa dove il botto della borsa di Shangai, nelle sue fasi comportamentali di massa, non solo si è già visto anche nell’800 americano ma anche nella recente crisi dei subprime. Tanto che Hyman Minsky, storico delle bolle americane rivalutato nelle crisi di fine anni ’90, si applica benissimo a Pechino con la sua analisi delle fasi comportamentali delle crisi di borsa. Anche lo shadow-banking, il sistema bancario-ombra che è alla radice non solo delle bolle ma di importanti difficoltà del rapporto tra credito ed imprese cinesi, non è una specialità di Pechino. E’ cresciuto, enormemente, tra due bolle americane: quella dei tecnologici, esplosa ad inizio secolo, e quella che ha portato al botto Lehman Brothers. Quando importi il capitalismo, a Shangai come a Lumezzane, questo tende a comportarsi allo stesso modo, a favorire, a sua volta, l’importazione dei soliti prodotti finanziari specie quando le tecnologie finanziarie hanno il dono dell’istantaneità. Poi la differenza, quando appaiono le crisi e i conflitti, la fa la modalità di reazione delle società. E quella cinese non è solo differenziata in aree costiere e metropolitane che sono integrate nel capitalismo globale e zone rurali. Ma anche nella pluralità di economie esistenti, accanto a quella di mercato (si ricorda che la Cina applica ancora i piani quinquennali, che ha una considerevole rete di cooperative, una economia rurale informale etc.). Entro questo contesto va capita la quasi contemporaneità di due fatti estremamente differenti, in pochi giorni, che riguardano l’establishment cinese. La prima è stata quella di vedersi respinto dal FMI, lo status di divisa internazionale di riserva per la propria moneta. La seconda quella di svalutare, in più giorni, il rapporto di cambio. Certamente si tratta di due direzioni molto diverse, da parte dello stesso governo, nella politica monetaria: una non tende certo a svalutare ma a valorizzare, la seconda invece intraprende, e formalmente, questa strada di devalorizzazione della moneta.
Le ipotesi, su questo comportamento divergente possono essere varie: a) la domanda al FMI da parte della Cina è stata istruita in un periodo economico-finanziario diverso b) le divisioni nell’establishment cinese, che ci sono, portano a comportamenti ufficiali oscillanti quanto palesemente divergenti c) le svalutazioni al momento servono come avvertimento al FMI sulla capacità cinese di saper cambiare lo scenario globale d) il dado è tratto e si va verso una svalutazione competitiva quindi una guerra finanziaria tra aree valutarie, terreno di caccia privilegiato dei signori privati della guerra finanziaria (hedge fund, fondi sovrani, fondi pensione e ogni tipo di soggetto a caccia di rendimenti nei periodi di volatilità finanziaria tipici di questo tipo di guerre)
In ogni caso il FMI, subito dopo la prima svalutazione operata dalla Cina, ha emesso un comunicato, al quale si è aggrappata la stampa di mezzo mondo, dove si dice che “nel lungo termine” la direzione intrapresa è quella giusta e porterà la Cina verso una fluttuazione del prezzo della moneta molto più simile a dinamiche di quello che viene chiamato il mercato. Per capire se questo comunicato incontra il favore delle fazioni vincenti a Pechino bisogna quindi vedere se, al momento, ci sono fazioni vincenti e se queste vogliono, nel lungo periodo, far fluttuare la moneta sul mercato. Allo stesso tempo, il rischio del comunicato FMI è quello di contenere, con confuciana malizia, l’avvertimento a chi deve leggerlo, quello che recita un “ci vorrà un lungo periodo prima che le acque si calmino”. Certo, con la svalutazione intanto ci ha rimesso l’Argentina, che ha visto deprezzarsi circa 33 miliardi di dollari di riserve in moneta cinese, ma è si tratta solo di uno degli effetti degli spostamenti del dragone cinese. Certo che se la Cina intraprende la via della svalutazione competitiva, fino a che non si richiude la forbice ampia tra Pil e produzione, c’è tempo e spazio per una guerra finanziaria.
Viste poi le relazioni, sia economiche che finanziarie, tra Cina e Usa c’è anche a considerare un particolare importante. Che si possa innescare, come nel passato, una dinamica per cui chi esporta dalla Cina, grazie alla svalutazione, reinveste, con i dollari guadagnati, in debito americano. Questa dinamica può rivelare aspetti doppiamente rischiosi per l’Italia: in termini economici, con una domanda mondiale anche solo fiacca, e in quelli finanziari. Perché tanto più i capitali vanno verso gli Usa valorizzando il dollaro tanto più il debito italiano, uno dei maggiori al mondo, diventa più costoso da sostenere.
Ma cosa accadrebbe se la Cina innescasse una guerra finanziaria, rischio contenuto nello scenario odierno? Semplice, i paesi concorrenti sarebbero costretti, a loro volta a svalutare sempre più pesantemente, con una moneta più debole che renderebbe il loro debito in dollari sempre più insopportabile (con conseguente rischio paralisi di paesi chiave per la globalizzazione), lo stesso dovrebbe accadere anche ai paesi più forti. Una grande gara al dumping mondiale, una contrazione economica, e sociale, di spettacolare dimensione globale interpretata, magari in tempo reale, dal capitalismo contemporaneo. L’Italia finirebbe per lasciare diverse vittime sul campo. Come ha fatto tra la crisi dei subprime e quella debito sovrano quando, in sei anni, ha lasciato sul campo quasi dieci punti di Pil, un quarto di produzione, e qualche milione di disoccupati irrecuperabili almeno per un ventennio (fonte FMI). Chi ci guadagnerebbe? Altrettanto semplice: i signori della guerra finanziaria, magari gli stessi fondi pensione in astinenza di rendimenti a causa del fatto che le obbligazioni rendono poco, in grado di trarre profitto dalle oscillazioni create dalla crisi. Come i Soros per la crisi della sterlina del ’92 o soggetti più anonimi per le oscillazioni del rublo dell’autunno del 2014. Teniamo anche conto di analisti che parlano già ora di Currency War cinese che sarebbe cominciata nel 2010 come conseguenza della crisi del 2008. Storicizzare e codificare le guerre finanziarie, sotto le vesti dell’analista di mercato, può essere un’operazione ideologica quanto quella che si fa per le guerre sul campo. Il punto però è che, in epoca di stagnazione globale (o secolare), la svalutazione, e la guerra finanziaria, rimane uno strumento strategico per salvare i sistemi economici legati ad una moneta. Il problema è che ogni svalutazione trascina dietro, in modo più o meno regolato, quelle degli altri.
Naturalmente i signori della guerra finanziaria sono in grado di influenzare il comportamento dei governi ma, sia chiaro, niente dietrologie. Il capitale cinese ha cercato di salvare la borsa di Shangai, similmente al ’29 in USA, i venti capitalisti che più si sono arricchiti con quella borsa hanno cercato di contribuire materialmente a salvarla, solo che se dopo si apre una guerra finanziaria tutto può accadere.
Il calcio d’inizio della svalutazione cinese ha generato due tipi di reazioni: panico, deprezzamento delle azioni delle multinazionali europee presenti in Cina etc. da una parte; attesa, apprezzamento di chi può beneficiare da eventuali interventi della banca centrale giapponese o americana dall’altro. Perché, in un senso o in un altro, il comportamento delle banche centrali sarà un altro dei fattori decisivi nell’evoluzione del contesto cinese. Certo due segnali, due indicatori, vanno tenuti d’occhio: il primo è il petrolio che, assieme alle varie commodities, si tiene ancora basso e quindi non mostra segnali di previsioni di ripresa (la Cina è forte importatrice di petrolio); il secondo sono le previsioni di chi ha interesse a farsi seguire nella raccolta di fondi. Bill Gross, star assoluta della raccolta obbligazionaria su scala globale, ha accusato la Cina di esportare, con le mosse svalutative, deflazione in tutto mondo. E’ il preludio ad un attacco speculativo? Senza correre con la fantasia ricordiamo che i fondi pensione, attori essenziali della finanza globale, si nutrono di obbligazioni che, oggi, hanno bisogno di maggiore volatilità (leggi mercati più instabili) per spuntare tassi di interesse più alti.
Ma quello che accadrà non dipenderà più solo da Pechino o da Washington, dalle lotte tra correnti del Partito Comunista Cinese o dall’esito delle elezioni americane. E nemmeno solo dai comportamenti dell’eurozona anche se la Germania, che sta dando per scontata la perdita di settori di mercato importanti in Cina (quelli che gli permisero, nel 2009, di assorbire lo choc bancario, finanziario ed economico del botto Lehman). Oltre al comportamento futuro del FMI, sarà la risposta dei paesi concorrenti della Cina, l’andamento delle loro monete e la tipologie della loro scelte politiche, un parametro fondamentale per capire se la Cina sarà costretta, di nuovo, a svalutare accelerando quindi l’allargamento di una guerra finanziaria. Quali che siano le intenzioni reali di Pechino.
Altri due parametri da tenere bene in considerazione, per capire l’evoluzione dello scenario, sono 1) Il rapporto tra decisioni sui tassi della Federal Reserve e svalutazione cinese. Fino ad adesso i “mercati” hanno scommesso sul fatto che le mosse cinesi rallentano le decisioni della Fed di alzare i tassi (innescando quindi una fuga di capitali verso gli Usa e fallimenti a catena). Il mantenimento o la rottura di questa convinzione (che, come abbiamo visto, può essere anche errata) possono determinare tregua o precipitazione dello scenario finanziario ed economico globali 2) L’intervento, o meno, della banca centrale cinese. A scanso di equivoci la Cina non è la Russia la cui banca centrale, sotto i colpi della guerra finanziaria di quest’autunno ha arrancato favorendo processi di saccheggio da parte dei financial warlords globali. La Banca del Popolo Cinese detiene circa 3,70 trilioni di dollari in riserve e si tratta di una quantità tale da far capire che a) se decide collettivamente, la Cina ha strumenti monetari per attivare politiche diverse dalla svalutazione b) ha le munizioni per condurre una guerra finanziaria su larga scala.
Sulle previsioni ricordiamo che il Financial Times è cauto, il Telegraph ottimista, la Handelsbatt pessimista, almeno per quel che riguarda l’immediato futuro dell’export tedesco. Export che non è solo di merci, ricordiamo, ma anche finanziario. Visto che la Germania tende, quanto possibile, a riprodurre la propria legge aurea: “esportare merci tedesche con prodotti finanziari tedeschi”. In primavera un report della HSBC, una della big five delle banche inglesi in qualche modo anticipava però questo tipo di scenario: non certo celeste, sicuramente, nel migliore dei casi, contenente una stagnazione globale. Rendendo il mondo una sorta di Giappone, sospeso su bolle e bassa crescita, con dentro crisi sociali, ecologiche, politiche di ogni genere.
Certo, al di là delle previsioni e delle opposte mitologie (quelle che vedono il gruppo dirigente cinese fortissimo o debolissimo a seconda dei frame culturali con i quali si fanno le analisi) si può notare come l’attuale globalizzazione non abbia risolto, dal momento in cui è sorta dopo la guerra fredda ad oggi, nessuno dei drammi che hanno accompagnato quella precedente, del ciclo 1870-1914. Bolle finanziarie, repentini arricchimenti e fallimenti di economie e di popoli, migrazioni drammatiche, conflitti sociali di vaste dimensioni. Questo scenario può precipitare in caso di scatenamento di una guerra finanziaria come può congelarsi, mantenendo tutti i suoi mali, se prevalgono gli elementi mediatori che tendono a smorzarne gli effetti.
Per il nostro paese, pronto a congelarsi per come è in caso di glaciazione mondiale di ogni contraddizione, in caso di guerra finanziaria finirebbe per trovarsela direttamente in faccia. Non a caso, in una dimensione globale dove tutti guardano ovunque, Value Walk, un sito molto attento al rapporto tra mutazioni valutarie e speculazione, ha puntato il dito sull’Italia come paese principalmente a rischio.
Questo perché il nostro è uno dei tre-quattro più importanti mercati obbligazionari al mondo, ad esempio. E con il debito pubblico alto, che in caso di dinamiche di svalutazione, peggiorerebbe velocemente e finirebbe nel mirino dei signori della guerra finanziaria (come avvenuto, seppur in modo diverso, nel ’92 e nel 2011). Non è quindi solo questione diretta dell’export italiano in Cina ma eventuale problema sistemico. Certo, gli investimenti cinesi in Italia ci sono e oltretutto la loro caduta si farebbe sentire (ad esempio Pirelli e Infront, che gestisce i diritti del calcio italiano e che, quindi, lo tiene in piedi) ed eventuali problemi della madrepatria non potrebbero che farsi avvertire in Italia (anche per chi ha puntato a vendere mezza Italia ai cinesi, come da desiderio del governo Renzi, evidentemente con poco senso degli eventi).
Ma questi sarebbero, per quanto importanti, dettagli: con il permanere della stagnazione globale e con la guerra finanziaria, l’Italia non avrebbe strumenti reali di difesa. Né finanziari né politici. Si farebbe soprattutto sentire l’accelerazione di quel processo che, tra svalutazione reale e deflazione da salari, punta sempre a far pagare al reddito e al salario, non solo quindi alla spesa pubblica, le difficoltà di bilancio del paese e quelle di collocazione nei mercati. In questo senso, le promesse di “taglio delle tasse” punterebbero proprio a partite di giro, vendute come coraggiose rivoluzioni, che penalizzano reddito e salario, non solo la spesa pubblica, pena la perdita di competitività entro una moneta che non può scendere a precipizio proprio perché il paese egemone, la Germania, non punta a un euro basso. E siccome l’euro, dopo il Quantitative Easing di Draghi, ha già svalutato, senza che l’Italia prendesse chissà quali quote di export, è chiaro che redditi e salari saranno i primi soggetti da mettere (di nuovo fortemente) sotto tiro per stare nei mercati globali. E’ quindi chiara una cosa: se la Cina ha aperto una guerra finanziaria, l’Italia offrirà il petto in prima linea al piombo nemico. Come già accaduto i suoi salari, i suoi redditi, il suo stato sociale saranno poi le munizioni sparate, dai Cadorna del XXI secolo, per salvare la patria.
E chi ci possono essere problemi è evidente. Del resto un paese che cresce dello 0,2 per cento, come da ultime rilevazioni, impiegherebbe dai quaranta ai cinquanta anni, a seconda dei dati che si usano, a recuperare il Pil perso dal 2008 al 2014. Quando rischia di aprirsi una nuova stagione di crisi, e si è già con questi numeri, è comprensibile che una guerra finanziaria possa farsi sentire sul serio.
Il punto è anche un altro e ci riporta all’inizio della nostra analisi. Nelle culture politiche italiane attuali è in vigore una divisione del lavoro tipica del liberalismo politico e del liberismo economico. Una divisione che, nel pensiero politico, risale a Locke: quella tra sfera dell’etica e quella dell’efficienza. Quest’ultima sarebbe esclusiva del mercato, con proprie leggi e con codici linguistici che possono essere decodificati solo dagli addetti ai lavori. Nella seconda troverebbe spazio, piuttosto angusto, la politica costretta, al massimo, a fare opinione tra le tante voci esistenti, a declamare valori, norme o a cercare di drenare qualche risorsa, verso la società, nei momenti in cui il mercato ha eccedenza di ricchezza. Il punto è che il regno dell’efficienza ha mostrato di riprodursi, sul piano globale, solo di crisi del valore in crisi del valore, di bolla in bolla, persino di catastrofe in catastrofe. Insomma, o la politica entra nel regno, fino ad oggi esclusivo dell’efficienza, delle modalità di produzione di ricchezza complessive oppure ciò che oggi viene chiamata economia riprodurrà molto a lungo, e in modo drammatico, le crisi che ci attraversano. E tanto più questo compito è possibile nel momento in cui i cosiddetti mercati mostrano seri fallimenti globali.
In Italia, sostanzialmente nell’ultimo quarto di secolo, ad ogni squilibrio economico, ad ogni crisi materiale strutturale, ad ogni bolla finanziaria si è sempre risposto cercando di accelerare i processi ritenuti pressanti nella sfera dell’etica e della reinvenzione della democrazia. O in termini verticali, “la democrazia che decide” che altro non è che gerarchia istituzionale legittimata ad operare contro la società nei momenti di crisi. O in termini plebiscitari e referendari, oppure nei termini della denuncia dello stato della morale pubblica (corruzione, “costi della politica”, rapporto magistratura-istituzioni). Si è quindi sempre cercato, in modo più o meno scomposto, di rispondere alla crisi sistemica dell’economia puntando a ristrutturare ciò che si intende essere sistema democratico. Infatti, l’economia non è mai stata e toccata, se non con qualche referendum puntualmente scavalcato, e rovesciato negli esiti, dal “mercato”.
Se si vuole qualche seria soluzione alla crisi attuale, non sia pagata gravemente dalla stragrande maggioranza della popolazione, è non è tanto all’estetica della democrazia che bisogna guardare ma al governo diretto della produzione della ricchezza. Dopo il fallimento dei paesi dell’Est e in un mondo dove la moneta è egemonizzata dal neoliberismo globale, come insegna la vicenda greca, si tratta una bella sfida. Del resto i tempi sono questi: o un paese si reinventa, con una innovazione storica, sul piano della produzione di ricchezza oppure è destinato ad affondare. Altrimenti, se una guerra finanziaria si accentua, vivrà esplosioni sociali di cui non conosce la natura destinate a non avere indirizzo. Oppure si perderà nei rivoli dei piccoli epifenomeni della grande crisi: gli scontri televisivi sulle leggi elettorali o costituzionali, sulle schermaglie tra magistrati ed eletti, l’esecrazione verso i corrotti, la gara tra gli eletti ad abbassarsi i rimborsi etc. Il nulla, con tanto di assoggettamento alla governance europea, mentre il paese conosce una crisi straziante simile a quella che ha già vissuto, e subito, tutte le volte che sono cambiate le rotte dei commerci, della moneta e dei rapporti di forza nell’economia-mondo. E qui una rilettura dei Tempi della storia di Fernand Braudel non farebbe male. Per entrare nell’ordine di idee che vuole che chi non afferra questi tempi, sparisce velocemente dalla cronaca. Per non dire della geografia politica e dalla stessa esistenza come paese. Perché candidatura italiana al mantenimento della distanza tra comportamenti della popolazione, in caso di accelerazione delle crisi, e sostanza dell’evoluzione dell’economia, e della finanza, rischia di essere accolta meglio, e prima, di quella di Roma come sede olimpica. E con grande successo, viste le premesse.

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