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martedì 11 agosto 2015

MORIRE DI TSO, MORIRE DI REPRESSIONE.


n seguito ai recenti tragici fatti, i quali dimostrano come l'inveterato uso repressivo della psichiatria sia ad oggi più che mai in auge, pubblichiamo due articoli.
Il primo, essendo di un collettivo antipsichiatrico (ovvero continuatore del progetto di Basaglia), denuncia con forza il TSO in quanto tale ed ha il pregio di mostrare la nuda e cruda realtà di questa pratica nel suo darsi concreto; il secondo, essendo di uno psichiatra più vicino ai canali ufficiali, ragiona sulla teoria con cui nasce il TSO e le sue degenerazioni pratiche.
A me, relativamente al secondo articolo, tutto il discorso sull'obbligo e la negoziazione pare proprio aria fritta -quell'utopismo ideologico tipico del borghese progressista che pensa che le pratiche infami della propria parte siano sempre degenerazioni morali di una teoria sana- nè credo che il TSO sia mai stato pensato in modo radicalmente altro dal ricovero coatto; tuttavia ha il pregio di integrare il primo articolo attraverso una serie di riflessioni più articolate sul problema -che spesso gli antipsichiatrici a mio avviso risolvono anche loro troppo ideologicamente vedendo nella malattia mentale solo e soltanto il lato della costruzione sociale della patologia- e ci conforta nel mostrare come, anche al di fuori dei circoli antipsichiatrici basagliani, ci sia chi denuncia vigorosamente questa pratica.

da http://popoffquotidiano.it/2015/08/09/basta-morti-in-tso/
Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud
Tre persone morte in TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in poco più di un mese. Il 5 agosto scorso a Torino, un uomo di 45 anni, Andrea Soldi, è morto mentre i vigili urbani lo stavano sottoponendo a TSO. Si parla di arresto cardiocircolatorio, non è riuscito ad arrivare vivo in ospedale. Testimoni parlano di vigili che l’hanno preso e stretto per il collo, finché non è caduto a terra privo di vita.
Il 30 luglio 2015 a Carmignano Sant’Urbano, in provincia di Padova, un ragazzo di trentatré anni, Mauro Guerra, è stato ucciso da un carabiniere durante un TSO. Nessuno sembra conoscere le reali cause che stanno dietro al trattamento sanitario obbligatorio che l’ha ucciso, né la famiglia, né il sindaco, il quale afferma di non aver neanche autorizzato il provvedimento (nonostante la legge 180 prescriva la disposizione del trattamento previa autorizzazione del sindaco, in quanto massima autorità per la sanità locale). All’arrivo di alcuni carabinieri presso la propria abitazione, Mauro, colto di sorpresa e in preda allo spavento, ha tentato la fuga. Uno dei carabinieri ha sparato e l’ha ucciso. Il maresciallo dell’arma si è giustificato dicendo di aver mirato al braccio ma Mauro è stato colpito alla schiena a soli due metri e mezzo di distanza.

Chi ha autorizzato il TSO? Perché sono intervenuti i carabinieri e non i sanitari del 118?
L’8 giugno è morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non gli sia mai stato concesso di vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Comune anche lo psichiatra coinvolto; il medico che avvisa la sorella della morte di Massimiliano, infatti, è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato (il sequestro stesso) e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si sono svolte le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre 2015.
Il regime terapeutico imposto dal TSO ha una durata di 7 giorni e può essere effettuato solo all’interno di reparti psichiatrici di ospedali pubblici. Deve essere disposto con provvedimento del Sindaco del Comune di residenza su proposta motivata da un medico e convalidata da uno psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il Sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al Giudice Tutelare operante sul territorio, il quale deve notificare il provvedimento e decidere se convalidarlo o meno entro 48 ore. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO sia rinnovato oltre i 7 giorni. La legge stabilisce che il ricovero coatto può essere eseguito solo se sussistono contemporaneamente tre condizioni: l’individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, l’individuo rifiuta la terapia psichiatrica, l’individuo non può essere assistito inaltro modo rispetto al ricovero ospedaliero.
Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi determina lo “stato di necessità” e l’urgenza dell’intervento terapeutico? E in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l’unica soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione di un TSO rimandano, di fatto, al giudizio esclusivo ed arbitrario di uno psichiatra, giudizio al quale il Sindaco, che dovrebbe insieme al Giudice Tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone.
Per la persona coinvolta l’unica possibilità di sottrarsi al TSO sta nell’accettazione della terapia al fine di far decadere una delle tre condizioni, ma è frequente che il provvedimento sia mantenuto anche se il paziente non rifiuta la terapia. Se, in teoria, la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti del ricoverato.
Molto spesso prima arriva l’ ambulanza per portare le persone in reparto psichiatrico e poi viene fatto partire il provvedimento. La funzione dell’ASO (Accertamento Sanitario Obbligatorio) è generalmente quella di portare la persona in reparto, dove sarà poi trattenuta in regime di TSV o TSO secondo la propria accondiscendenza agli psichiatri. Il paziente talvolta non viene informato di poter lasciare il reparto dopo lo scadere dei sette giorni ed è trattenuto inconsapevolmente in regime di TSV (Trattamento Sanitario Volontario); oppure può accadere che persone che si recano in reparto in regime di TSV sono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. Diffusa è la pratica di far passare, tramite pressioni e ricatti, quelli che sarebbero ricoveri obbligati per ricoveri volontari: si spinge cioè l’individuo a ricoverarsi volontariamente minacciandolo di intervenire altrimenti con un TSO. A volte vengono negate le visite all’interno del reparto e viene impedito di comunicare con l’esterno a chi è ricoverato nonostante la legge 180 preveda che chi è sottoposto a TSO “ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno”.
Il TSO è usato, presso i CIM o i Centri Diurni, anche come strumento di ricatto quando la persona chiede di interrompere il trattamento o sospendere/scalare la terapia; infatti oggi l’ obbligo di cura non si limita più alla reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità effettiva di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico per la costante minaccia di ricorso al ricovero coatto cui ci si avvale alla stregua di strumento di oppressione e punizione. Per questo ancora una volta diciamo NO ai TSO, perché i trattamenti sanitari non possono e non devono essere coercitivi e affinché nessuno più debba morire sotto le mani di forze dell’ordine al servizio degli psichiatri.
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Un ospedale psichiatrico di Palermo, nel 1995. (Josef Koudelka, Magnum/Contrasto)

da http://www.internazionale.it/opinione/peppe-dell-acqua/2015/08/10/malati-psichiatrici-tso

Peppe Dell’Acqua, psichiatra
Il 5 agosto a Torino, in una piazzetta del centro, Andrea Soldi, 45 anni, è morto soffocato mentre i vigili urbani eseguivano un’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio (tso).
Era seduto sulla “sua” panchina nei pressi del bar che frequentava. Le cronache raccontano che è stato preso alle spalle. Un vigile gli avrebbe fatto una “strozzina” per trattenerlo e permettere agli altri due di ammanettarlo. Pare che sia stato ammanettato con le braccia dietro la schiena mentre era a terra bocconi.
Andrea pesava 140 chili. Centoquaranta chili di vent’anni di neurolettici. Era conosciuto dai servizi, soffriva di schizofrenia dal 1990 e aveva subito molti tso, pare per praticargli l’iniezione di long acting (è un’iniezione di neurolettici ad azione protratta). Doveva essere il padre a chiedere che almeno gli facessero la puntura mensile. Anche questa volta se non fosse morto sarebbe stato sottoposto allo stesso trattamento.
Il 29 luglio a sant’Urbano, nelle campagne tra Padova e Rovigo, Mauro Guerra, trent’anni, è stato freddato con un colpo di pistola sparato da uno dei carabinieri che era entrato nel suo cortile per eseguire il tso. Sembra ora che il tso fosse solo un pretesto per entrare.
All’arrivo dei militari Mauro ha cercato di fuggire. Era in mutande e senza scarpe. La madre e la sorella, sconvolte, dicono: “Come poteva fare del male in quelle condizioni?”.
Di Mauro sappiamo poco, solo quello che scrivono i giornali. Si capisce che era un giovane speciale, intelligente e ossessivamente attento ai destini del mondo, degli uomini e delle donne. Era laureato in economia, lavorava e dipingeva t-shirt con lo slogan “Gesù ci salverà”. Doveva essere un sognatore e sicuramente la sua originalità non gli rendeva facile la vita.
Quel pomeriggio dicono che era agitato e che all’arrivo dei carabinieri si è agitato ancora di più.
Il 10 giugno a Sant’Arsenio, nella provincia cilentana di Salerno, nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura, Massimiliano Malzone, 41 anni, è morto per arresto cardiaco improvviso. Era stato ricoverato il 27 maggio a seguito di un tso che si era rivelato violentissimo nella sua esecuzione. Massicce dosi di psicofarmaci per sedarlo e la probabile contenzione le possibili cause della morte.
Prima ancora che la magistratura indaghi e chiarisca cosa è veramente accaduto, bisognerà dire quanto già sappiamo, quanto già abbiamo visto, quanto abbiamo già denunciato, quanto la deriva drammatica delle psichiatrie va producendo.
Il tso è pensato come strumento per accrescere il diritto di chi si trova in difficoltà, per garantire il diritto alla cura, alla salute, alla dignità
Per cominciare: il tso non è un mandato di cattura.
Il legislatore nel 1978 con la legge 180 intese restituire al cittadino, anche se folle, delirante, allucinato, agitato, “aggressivo”, confuso, violento, impaurito, terrorizzato il suo pieno diritto costituzionale.
Il tso è pensato come strumento per accrescere il diritto di chi si trova infragilito e in difficoltà, per garantire il diritto alla cura, alla salute, alla dignità: dopo due secoli di prepotenza oppressiva dello stato e della psichiatria della legge del 1904, finalmente siamo costretti a pensare a un incontro che deve tendere alla parità tra lo stato, le articolazioni dei servizi e delle istituzioni e il cittadino “malato di mente”.
Il tso e la cura psichiatrica da questo momento non possono essere più intese come sospensione del diritto e legittimazione della prepotenza delle istituzioni, delle psichiatrie, degli psichiatri. Il pressante invito a negoziare si legge in ogni passaggio della legge 180 a cominciare dal titolo: “Norme per l’attuazione del trattamento sanitario volontario e obbligatorio”.
L’aggettivo “obbligatorio” prima di tutto dice che l’altro esiste. Posso “obbligare” qualcuno con un’ordinanza, una norma, una legge quando ho riconosciuto la sua autonomia e la sua possibilità di rifiuto. La parola testimonia la tensione alla negoziazione. Obbligare qualcuno a qualcosa ha a che vedere anche con una assunzione di responsabilità: un sentirsi obbligato nei confronti dell’altro che sto obbligando, limitando la sua libertà, invadendo il suo spazio intimo e personale.
“Obbligatorio”, in questa lettura che io credo più propria, va riferito proprio ai servizi, alle istituzioni, agli operatori della salute e della salute mentale. Sono questi che hanno l’obbligo di garantire quella cura, quella salute, quella dignità che la costituzione (articolo 32) e lo stato riconoscono e che la condizione di malattia mette così drammaticamente a rischio.
Nelle (cattive) pratiche delle psichiatrie correnti e dominanti, la scomparsa ormai evidente della persona sofferente, del soggetto, del cittadino ha cancellato di fatto la legge 180.
La delicatezza e il rispetto che la legge 180 aveva voluto introdurre in un campo così rischioso si dissolvono
Il tso viene spesso inteso come un’inutile complicazione dell’antico ricovero coatto.
Non è raro leggere nei certificati dei servizi di salute mentale che il sig. Rossi è pericoloso per sé e per gli altri. Manca solo il pubblico scandalo.
Più spesso non si trovano neanche certificati scritti e ragionati a motivare la richiesta di ordinanza, ma prestampati dove lo psichiatra non deve far altro che barrare la casella. Il sindaco che riceve quel documento utilizza le stesse forme e modalità e compila un altro prestampato. Il giudice tutelare che dovrebbe garantire la corretta esecuzione di un atto delicatissimo che riduce la libertà personale di quel cittadino, fatto salvo rarissime eccezioni, non fa altro che sottoscrivere gli stessi prestampati.
La delicatezza e il rispetto che la legge 180 aveva voluto introdurre in un campo così rischioso si dissolvono.
Più si riflette su questi fatti più le domande ci assalgono. Sono troppi i luoghi dove si ricorre di routine alla contenzione, dove resistono invalicabili porte chiuse, dove istituti – sedicenti comunità terapeutiche – si riproducono numerose, costose, inutili e dannose (proprio come in Veneto e in Piemonte). Dove infine polizia, carabinieri e vigili urbani sono delegati dalle psichiatrie alla “cattura” delle persone.
Eppure buone psichiatrie capaci di incontrare l’altro, di disporsi all’accoglienza, di contrastare veramente lo stigma e di curare sono presenti e possibili.
Queste tre morti sono la punta dell’iceberg: quotidianamente accade quanto è accaduto a Padova, a Torino e a Salerno, per fortuna senza esiti così tragici.
Da tempo il Forum salute mentale denuncia l’assenza dello stato, il fallimento delle politiche regionali per la salute mentale, il declino dei servizi comunitari, l’inconsistenza delle scuole di formazione e la sottrazione ormai drammatica delle risorse.
Fino a quando continueremo a tacere? Fino a quando non troveremo il coraggio per urlare che di psichiatria non si deve più morire?

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