Si è molto discusso sull'eco mediatica della foto al piccolo Aylan: io dico subito che sono d'accordo con la pubblicazione dell' immagine.
Spesso la sofferenza e la morte nella nostra parte di mondo sono talmente occultate ed invisibili da essere rimosse: l'essere umano è una strana bestia e spesso ha bisogno di un riferimento sensibile chiaro e netto per rendersi conto di un fenomeno anzichè parlarne a vanvera, e pochi riferimenti sono chiari e netti come quell'immagine.
Certamente, esiste ed è forte la classica reazione superficiale e virale tipica dei social network, quell'indignarsi che in realtà serve solo a fare chiacchiera e a passare il tempo e per cui Aylan oggi è quello che fu il Cocorico ieri o il leone Cecil ieri l'altro, ma questo è un problema di ordine generale legato alla superficialità delle persone (più che dei mezzi che esse usano), ed è un rischio da correre se si vuole smuovere il cuore e l'animo di qualcuno.
L'altra obiezione, più consistente, che mi è capitata di leggere e considerare, è quella dell'indignazione selettiva, nel senso che molti piangono su quella foto dimenticando i massacri di bambini che avvengono parallelamente in ogni parte del mondo, a cominciare dal Donbass dove i media tacciono per opportunismo, e dimenticando di quanti bambini al giorno muoiono per malnutrizione, fame e sete. Epperò va detto che pubblicare quell'immagine ha senso in quanto la morte di Aylan ci tocca da vicino visto che non è solamente una simbolizzazione della sofferenza, ma ci parla in quanto riguarda l'immigrazione sulle nostre terre e le reazioni di odio che molti stanno nutrendo, odio che paurosamente sostituisce la pietà. Ecco, quella foto serve per parlarci, e, seppure certamente esiste un'indignazione selettiva per cui Aylan nella mente di molti è come scisso e separato dalla violenza sui deboli che il Capitale e l'imperialismo generano, è un rischio anche questo da correre, altrimenti per non essere selettivi non si incide dove c'è la possibilità di farlo e su fenomeni molto urgenti e diretti, cioè la reazione della popolazione locale verso chi sbarca dalle terre che i nostri stessi padroni hanno scientemente deciso di martoriare.Sicuramente già domani quasi tutti si saranno dimenticati, ma forse non tutti, e ciò già sarebbe un piccolo sasso gettato nello stagno.
Chiuderei narrando da Il Manifesto la storia di Aylan, figlio di Kobane, una storia che interseca anche un percorso di resistenza e solidarietà, quello che i curdi stanno tentando di instaurare nel loro martoriato cantone del Rojava.
da http://ilmanifesto.info/la-fuga-interrotta-del-piccolo-aylan/
La foto. Il bimbo morto su una spiaggia turca era un kurdo siriano. La sua meta finale era il Canada, dove avrebbe raggiunto la zia Teema, parrucchiera a Vancouver. In viaggio con la madre Rihan e il fratello maggiore Galip, anche loro vittime del mare. Solo Abdullah, il padre, è sopravvissuto al naufragio del loro gommone
Aylan Kurdi e il fratello maggiore Galip
Il bambino kurdo siriano annegato nelle acque turche si chiamava Aylan Kurdi. Aveva tre anni: è nato quando la guerra civile siriana era già iniziata ed è morto insieme ad altri undici migranti, tra cui suo fratello Galip di cinque anni, mentre provava con sua madre Rihan e suo padre, a fuggire da Akyarlar in Turchia per raggiungere la vicina isola greca di Kos.
Il gommone dove viaggiava Aylan è affondato poco lontano dalla spiaggia di Bodrum perché non ha retto al peso dei 17 passeggeri a bordo. Dopo il naufragio dello scorso mercoledì, la polizia turca ha assicurato che sono stati arrestati quattro presunti scafisti, incluso un cittadino siriano. La guardia costiera turca ha aggiunto di aver tratto in salvo 42 mila persone che tentavano di attraversare l’Egeo negli ultimi cinque mesi.
L’unico superstite della famiglia di Aylan è il padre Abdullah che tentava di portare i suoi familiari in Canada, nonostante la loro richiesta di asilo fosse stata rifiutata. La zia Teema, da venti anni parrucchiera a Vancouver, ha confermato di aver ricevuto una telefonata da Abdullah in cui le ha raccontato della morte dei suoi bambini e di sua moglie in seguito al naufragio.
Teema aveva presentato la richiesta di asilo alle autorità canadesi e inviava regolarmente soldi alla famiglia in Turchia. «Insieme ad amici e vicini abbiamo fatto di tutto per farli venire in Canada, ma non siamo riusciti a farli scappare in tempo», ha denunciato la donna, scossa per la notizia.
Ma la terribile vicenda di Aylan è ancora più drammatica. Il bimbo fa parte delle decine di migliaia di kurdi scappati dalla città di Kobane dopo l’attacco lanciato dai jihadisti dello Stato islamico (Isis) lo scorso anno, e mai rientrati. Le autorità turche non hanno riconosciuto formalmente lo status di rifugiati alle migliaia di profughi kurdi (400 mila nel pieno della crisi) che hanno alloggiato per strada o nei campi di Suruç nel Kurdistan turco.
Sono più di un milione e nove cento mila i profughi siriani in Turchia, secondo l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). I siriani che fuggono dalla guerra, dopo il golpe militare al Cairo del 2013, non si vedono riconosciuti lo status di rifugiati in Egitto. Non solo, la percezione è che i profughi siriani vengano scoraggiati dalle autorità turche, libanesi (1,1 milioni di rifugiati siriani) e giordane (600mila) dopo l’esodo degli ultimi anni.
Ma i siriani non sono benvenuti neppure nei Paesi del Golfo e in altri paesi arabi (eccetto Mauritania, Algeria e Yemen) dove non viene riconosciuto loro nessun percorso preferenziale per l’ottenimento di un visto. Non resta allora che tentare a tutti i costi la carta dell’Europa.
In Turchia il tema dell’accoglienza dei profughi siriani è continuamente usato dagli ultra-nazionalisti per accrescere il loro consenso elettorale. Il flusso di profughi siriani al confine sud-orientale è andato aumentando come conseguenza dell’avanzata dello Stato islamico (Isis) nel Kurdistan siriano (Rojava). Nell’ottobre 2014, in pochi giorni, sono arri–vati a Suruç 100 mila kurdi siriani e per mesi non hanno ricevuto alcun aiuto internazionale. Nella sola città di Gaziantep 400mila kurdi siriani hanno trovato rifugio mescolandosi tra la popolazione locale.
La guerra contro i kurdi non si è mai fermata in Turchia. Solo ieri quattro poliziotti sono stati uccisi da militanti del Partito di Ocalan (Pkk) a Mardin. Sono centinaia i morti nel conflitto innescato dall’attentato di Isis a Suruç dello scorso luglio che è costato la vita a 33 attivisti che tentavano di portare aiuti a Kobane e dalla conseguente durissima campagna anti-Pkk e anti-Isis, lanciata delle autorità turche.
Gli attacchi hanno innescato la dura reazione della popolazione locale organizzatasi in comitati di resistenza. Ieri la città di Nusaybin è rimasta deserta per protesta contro l’arresto di Sara Kaya e Zinnet Alan, due co-sindaci della roccaforte del partito filo-kurdo, arrestati con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica.
La vittoria elettorale di Hdp lo scorso 7 giugno ha impedito al presidente Erdogan di perseguire i suoi calcoli politici. Il leader Akp ha indetto elezioni anticipate per il primo novembre innescando una dura censura della stampa indipendente. Il quotidiano Sozcu («Voce») è stato pubblicato con le colonne vuote per protestare contro le intimidazioni delle autorità turche. I giornalisti della testata hanno affrontato quasi sessanta cause per i loro articoli critici nei confronti di Erdogan. Neppure i reporter britannici di Vice, arrestati a Diyarbakir nei giorni scorsi, sono stati rilasciati. I giornalisti, trasferiti nel carcere di Adana in assenza dei loro avvocati, sono accusati di sostenere il terrorismo.
Spesso la sofferenza e la morte nella nostra parte di mondo sono talmente occultate ed invisibili da essere rimosse: l'essere umano è una strana bestia e spesso ha bisogno di un riferimento sensibile chiaro e netto per rendersi conto di un fenomeno anzichè parlarne a vanvera, e pochi riferimenti sono chiari e netti come quell'immagine.
Certamente, esiste ed è forte la classica reazione superficiale e virale tipica dei social network, quell'indignarsi che in realtà serve solo a fare chiacchiera e a passare il tempo e per cui Aylan oggi è quello che fu il Cocorico ieri o il leone Cecil ieri l'altro, ma questo è un problema di ordine generale legato alla superficialità delle persone (più che dei mezzi che esse usano), ed è un rischio da correre se si vuole smuovere il cuore e l'animo di qualcuno.
L'altra obiezione, più consistente, che mi è capitata di leggere e considerare, è quella dell'indignazione selettiva, nel senso che molti piangono su quella foto dimenticando i massacri di bambini che avvengono parallelamente in ogni parte del mondo, a cominciare dal Donbass dove i media tacciono per opportunismo, e dimenticando di quanti bambini al giorno muoiono per malnutrizione, fame e sete. Epperò va detto che pubblicare quell'immagine ha senso in quanto la morte di Aylan ci tocca da vicino visto che non è solamente una simbolizzazione della sofferenza, ma ci parla in quanto riguarda l'immigrazione sulle nostre terre e le reazioni di odio che molti stanno nutrendo, odio che paurosamente sostituisce la pietà. Ecco, quella foto serve per parlarci, e, seppure certamente esiste un'indignazione selettiva per cui Aylan nella mente di molti è come scisso e separato dalla violenza sui deboli che il Capitale e l'imperialismo generano, è un rischio anche questo da correre, altrimenti per non essere selettivi non si incide dove c'è la possibilità di farlo e su fenomeni molto urgenti e diretti, cioè la reazione della popolazione locale verso chi sbarca dalle terre che i nostri stessi padroni hanno scientemente deciso di martoriare.Sicuramente già domani quasi tutti si saranno dimenticati, ma forse non tutti, e ciò già sarebbe un piccolo sasso gettato nello stagno.
Chiuderei narrando da Il Manifesto la storia di Aylan, figlio di Kobane, una storia che interseca anche un percorso di resistenza e solidarietà, quello che i curdi stanno tentando di instaurare nel loro martoriato cantone del Rojava.
da http://ilmanifesto.info/la-fuga-interrotta-del-piccolo-aylan/
La foto. Il bimbo morto su una spiaggia turca era un kurdo siriano. La sua meta finale era il Canada, dove avrebbe raggiunto la zia Teema, parrucchiera a Vancouver. In viaggio con la madre Rihan e il fratello maggiore Galip, anche loro vittime del mare. Solo Abdullah, il padre, è sopravvissuto al naufragio del loro gommone
Il bambino kurdo siriano annegato nelle acque turche si chiamava Aylan Kurdi. Aveva tre anni: è nato quando la guerra civile siriana era già iniziata ed è morto insieme ad altri undici migranti, tra cui suo fratello Galip di cinque anni, mentre provava con sua madre Rihan e suo padre, a fuggire da Akyarlar in Turchia per raggiungere la vicina isola greca di Kos.
Il gommone dove viaggiava Aylan è affondato poco lontano dalla spiaggia di Bodrum perché non ha retto al peso dei 17 passeggeri a bordo. Dopo il naufragio dello scorso mercoledì, la polizia turca ha assicurato che sono stati arrestati quattro presunti scafisti, incluso un cittadino siriano. La guardia costiera turca ha aggiunto di aver tratto in salvo 42 mila persone che tentavano di attraversare l’Egeo negli ultimi cinque mesi.
L’unico superstite della famiglia di Aylan è il padre Abdullah che tentava di portare i suoi familiari in Canada, nonostante la loro richiesta di asilo fosse stata rifiutata. La zia Teema, da venti anni parrucchiera a Vancouver, ha confermato di aver ricevuto una telefonata da Abdullah in cui le ha raccontato della morte dei suoi bambini e di sua moglie in seguito al naufragio.
Teema aveva presentato la richiesta di asilo alle autorità canadesi e inviava regolarmente soldi alla famiglia in Turchia. «Insieme ad amici e vicini abbiamo fatto di tutto per farli venire in Canada, ma non siamo riusciti a farli scappare in tempo», ha denunciato la donna, scossa per la notizia.
Ma la terribile vicenda di Aylan è ancora più drammatica. Il bimbo fa parte delle decine di migliaia di kurdi scappati dalla città di Kobane dopo l’attacco lanciato dai jihadisti dello Stato islamico (Isis) lo scorso anno, e mai rientrati. Le autorità turche non hanno riconosciuto formalmente lo status di rifugiati alle migliaia di profughi kurdi (400 mila nel pieno della crisi) che hanno alloggiato per strada o nei campi di Suruç nel Kurdistan turco.
Sono più di un milione e nove cento mila i profughi siriani in Turchia, secondo l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). I siriani che fuggono dalla guerra, dopo il golpe militare al Cairo del 2013, non si vedono riconosciuti lo status di rifugiati in Egitto. Non solo, la percezione è che i profughi siriani vengano scoraggiati dalle autorità turche, libanesi (1,1 milioni di rifugiati siriani) e giordane (600mila) dopo l’esodo degli ultimi anni.
Ma i siriani non sono benvenuti neppure nei Paesi del Golfo e in altri paesi arabi (eccetto Mauritania, Algeria e Yemen) dove non viene riconosciuto loro nessun percorso preferenziale per l’ottenimento di un visto. Non resta allora che tentare a tutti i costi la carta dell’Europa.
In Turchia il tema dell’accoglienza dei profughi siriani è continuamente usato dagli ultra-nazionalisti per accrescere il loro consenso elettorale. Il flusso di profughi siriani al confine sud-orientale è andato aumentando come conseguenza dell’avanzata dello Stato islamico (Isis) nel Kurdistan siriano (Rojava). Nell’ottobre 2014, in pochi giorni, sono arri–vati a Suruç 100 mila kurdi siriani e per mesi non hanno ricevuto alcun aiuto internazionale. Nella sola città di Gaziantep 400mila kurdi siriani hanno trovato rifugio mescolandosi tra la popolazione locale.
La guerra contro i kurdi non si è mai fermata in Turchia. Solo ieri quattro poliziotti sono stati uccisi da militanti del Partito di Ocalan (Pkk) a Mardin. Sono centinaia i morti nel conflitto innescato dall’attentato di Isis a Suruç dello scorso luglio che è costato la vita a 33 attivisti che tentavano di portare aiuti a Kobane e dalla conseguente durissima campagna anti-Pkk e anti-Isis, lanciata delle autorità turche.
Gli attacchi hanno innescato la dura reazione della popolazione locale organizzatasi in comitati di resistenza. Ieri la città di Nusaybin è rimasta deserta per protesta contro l’arresto di Sara Kaya e Zinnet Alan, due co-sindaci della roccaforte del partito filo-kurdo, arrestati con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica.
La vittoria elettorale di Hdp lo scorso 7 giugno ha impedito al presidente Erdogan di perseguire i suoi calcoli politici. Il leader Akp ha indetto elezioni anticipate per il primo novembre innescando una dura censura della stampa indipendente. Il quotidiano Sozcu («Voce») è stato pubblicato con le colonne vuote per protestare contro le intimidazioni delle autorità turche. I giornalisti della testata hanno affrontato quasi sessanta cause per i loro articoli critici nei confronti di Erdogan. Neppure i reporter britannici di Vice, arrestati a Diyarbakir nei giorni scorsi, sono stati rilasciati. I giornalisti, trasferiti nel carcere di Adana in assenza dei loro avvocati, sono accusati di sostenere il terrorismo.
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