Testo

Tel. 3319034020 - mail: precariunited@gmail.com

martedì 29 novembre 2016

FIDEL: VALUTAZIONI DI CAROTENUTO E LIA DE FEO


Concludiamo questa tre giorni dedicata al compagno Fidel con due contributi: uno, molto articolato e comparativo di Carotenuto (su cui abbiamo qualche perplessità riguardo l'ottimismo verso il futuro...il tempo ci dirà!), analisi che guarda il lato storico-politico, l'altro che segue ha più un taglio letterario (secondo me anche molto godibile) da memorie di viaggio antropologico/sociale. Se ieri abbiamo sottolineato le incognite e le problematiche del futuro, è bene anche riflettere sul personaggio di primo rilievo che Castro è stato e di quello che è stata Cuba prima di questo salto nell'incognita che abbiamo davanti alla fase storica presente


da http://www.gennarocarotenuto.it/28137-fidel-castro-un-uomo-sinistra/


fidelmandela


New York – Con la morte di Fidel Castro finisce il Novecento. Non è una frase fatta, non finisce solo per Cuba o per l’America, ma finisce un mondo che vide nelle ideologie, nel liberalismo o nel socialismo, le forme del divenire umano alle quali aderire con scelte di campo nette e per molti irreversibili. Pur senza nostalgie per queste, il mondo odierno si è tornato a dividere su linee pre-democratiche, la razza, la religione, ma soprattutto il muro di ingiustizia, di dolore e di discriminazione mai così alto tra ricchi e poveri, che conferma come quella di un mondo senza classi fosse un’utopia, probabilmente irrealizzabile, ma la più alta delle utopie. Per decenni ai balseros cubani e a quelli haitiani sono state riservate sorti opposte: accolti come eroi i primi, respinti come indesiderabili i secondi. Oggi, che con la morte di Fidel il Novecento è finito, alcuni vigliacchi possono celebrare il fatto che possano democraticamente essere respinti tutti.
Fidel Castro, nella complessità del personaggio e del dirigente, ha rappresentato ben di più di un’adesione a un modello, quello marxista-leninista e quello del socialismo reale, venuto da altrove. L’appoggiarsi al campo socialista non fu solamente una scelta inevitabile, alla quale gli stessi USA spinsero la giovane rivoluzione cubana fin dai primi mesi del 1959, convinti di poter meglio controllarla e finendo invece per esaltarne l’epopea. Se la necessità di stare in un sistema di alleanze quale quello socialista era all’epoca l’unica via per smantellare il ruolo subalterno al quale Cuba era destinata nel sistema mondo, sarebbe errato ridurre a scelta tattica quella del socialismo e del ruolo dominante dello Stato come regolatore della società: questo resta il tratto fondamentale dell’esperienza politica di un leader comunista come Fidel Castro. Me declinarlo solo come tale, per uno che ha attraversato la storia da Kennedy a Obama, da Kruscev a Putin, da Allende a Chávez, da Ho Chi Min a Mandela, da Roncalli a Bergoglio in un’evoluzione intellettuale continua, sarebbe altrettanto riduttivo per ricordare un dirigente politico terzomondista – lasciatemi usare una categoria desueta – che ha cercato soluzioni in ognuno dei punti cardinali e non solo nel Nord.
Nato negli anni Venti, maschilista e omofobo nei suoi albori – tempi nei quali quasi tutti di qua e di là della barricata erano maschilisti e omofobi – come tutti i marxisti disattento e sospettoso delle differenze, il processo popolare del quale era alla testa ha aperto spazi inimmaginabili alle donne, comparabili forse solo ai paesi scandinavi, e poco è mancato che Fidel non morisse icona gay, con un’autocritica ampia e sincera, iniziata almeno vent’anni fa, dall’epoca di “Fresa y chocolate”. Dall’ateismo di Stato della realpolitik di epoca brezneviana – in un Continente dove giova sempre ricordare che la chiesa cattolica è stata spesso schierata dalla parte dei carnefici e contro la causa popolare – Castro aveva, da prima dello storico incontro con Karol Wojtyla, riaperto gli spazi di libertà religiosa come ampiamente riconosciuto dal Cardinale primate Ortega, che da anni dichiara di non avere alcun conflitto da lamentare con la Rivoluzione. Sentir parlare di “chiesa del silenzio” suona dunque stantio e riduttivo mentre centinaia di religiosi conciliari, che avevano scelto l’opzione preferenziale per i poveri, venivano assassinati, non a Cuba, ma nel resto del continente, da Carlos Mujíca a Óscar Romero, con il Vaticano che in genere guardava altrove e qualche volta giocava a tennis con gli assassini. Come lo definisce Frei Betto, e se ne facciano una ragione gli spiriti reazionari, Fidel era innanzitutto un uomo di sinistra, progressiva ed evolutiva, con la bussola puntata verso la giustizia e alla ricerca di soluzioni per un mondo troppo complesso, infinitamente più moderno e aperto sia dei suoi spesso insopportabili apologeti sia dei suoi infidi detrattori, entrambi attaccati pervicacemente a icone più che a fatti e volti a impedire anche solo il tentativo di un giudizio equanime.
Eppure, ridurre la storia di Castro all’interno della guerra fredda e della sconfitta esiziale del campo socialista di fronte a quello liberal-capitalista, è comodo per i critici ma fuorviante per chi vuol capire un percorso di lunga durata, non foss’altro perché il muro di Berlino è caduto trent’anni dopo la Rivoluzione e da allora ne sono passati quasi altrettanti nei quali Cuba si è reinventata completamente. Se Cuba fosse stata davvero il “gulag tropicale” e Fidel un Ceaucescu o un Honecker, la Rivoluzione sarebbe caduta nell’ormai remoto Ottantanove, come tutti i politologi, nessuno escluso, per tacere dei media, davano, superficialmente, volgarmente, per scontato. Non è andata così, e la storia come sempre è più complessa.
A Cuba, in particolare nella prima metà degli anni Settanta, il periodo più grigio che succedette al riallineamento dopo Praga, vi sono stati costantemente alcune decine e in alcuni periodi alcune centinaia di prigionieri politici. Sono una frazione dei disgraziati detenuti senza alcuna incriminazione a Guantanamo, alcuni ormai da 15 anni. Anche un solo prigioniero politico è di troppo, ma è scomodo dover costatare che non vi sia un solo paese del continente americano, Canada escluso, Stati Uniti inclusi, dove i diritti umani siano stati violati meno che dalla dittatura cubana in questi 57 anni. In tale contesto continentale, e anche senza voler calcare la mano sulla costante aggressività statunitense, sull’embargo, sulla baia dei porci, sull’infiltrazione e sull’uso del terrorismo di Stato di centinaia di Posada Carriles, chi volesse trovare nella repressione politica, nel “gulag tropicale”, il tratto distintivo dell’esperienza cubana sbaglierebbe.
C’è un episodio che chi scrive ha sempre considerato un episodio paradigmatico della storia della Rivoluzione cubana, ovviamente sottaciuto dai più nel Nord del mondo: l’intervento militare in Angola. Mentre di quello in Etiopia, con i cubani ascari del Cremlino, non c’è nulla di buono da ricordare, i cubani in Angola rappresentarono il più alto esempio di internazionalismo dai tempi delle Brigate Internazionali in Spagna.
Nelson Mandela affermò più volte ed esplicitamente che senza la Rivoluzione cubana, senza la volontà politica di Fidel Castro, senza il sangue di migliaia di combattenti cubani, oltre che degli angolani dell’MPLA di Agostinho Neto, delle milizie armate del suo African National Congress e dei namibiani della Swapo, l’apartheid non sarebbe finita. L’apartheid non finisce perché finisce la guerra fredda o per un atto lungimirante dei buoni razzisti come in Occidente piace pensare, ma perché fu sconfitto militarmente a Cuito Cuanavale, nella più grande battaglia campale in territorio africano dalla fine della seconda guerra mondiale. I cubani vi svolgono, tra la fine dell’87 e l’inizio dell’88, un ruolo decisivo e lì si aprono le porte del carcere dove il “terrorista” Mandela era sepolto da oltre un quarto di secolo. Per Cuba, per Fidel, l’internazionalismo e la lotta al razzismo non erano parole.
Anche perciò Cuba è stato ben altro, quando e come ha potuto, partendo da condizioni oggettive che restano quelle di un paese la “memoria del sottosviluppo” del quale tende a sfuggire ai più. Fidel Castro e la Rivoluzione hanno incarnato davvero quel nazionalismo umanista e latinoamericanista di José Martí, cosciente e progressivo, che sa che solo in un rapporto non subalterno con gli Stati Uniti, il rincontro con i quali (che vi piaccia o no) è parte delle cose, può esserci futuro per l’isola e i suoi abitanti. “El Caballo” conclude la propria esistenza con il declinare del ciclo progressista latinoamericano – del quale gli è stato da chiunque tributato il ruolo di padre nobile – alla fine della dignitosa presidenza Obama e alla vigilia di quella Trump. La sua stagione politica non è quella del rincontro con gli USA, che spetta a Raúl e a chi succederà a Raúl nel 2018, ma fu quella dell’insubordinazione, della pretesa del rispetto, della resistenza alle bastonate con le quali una decina di presidenti statunitensi hanno cercato di cancellare il problema geopolitico cubano nel mezzo del Mar dei Caraibi come lo avevano sempre risolto, esercitando il loro ruolo di potenza egemone nel Nord, Centro America e nei Caraibi: con la forza, appoggiandosi a orribili carnefici, tra i quali Fulgencio Batista. Cuba, Fidel, hanno tenuto loro testa.
È un bene che i cubani – in particolare le nuove generazioni – vogliano cambiare, evolvere, andare oltre, senza dover essere simboli di nulla e per nessuno. Ma possono farlo perché il fidelismo è stato un modello originale di ricostituzione della dignità offesa nell’origine della nazione nel 1898. Questa si era resa solo in parte indipendente con un pesante intervento militare straniero (che allo stesso tempo sanciva il definitivo ruolo di potenza globale che gli Stati Uniti stavano prendendo), che fin da subito riconosceva la propria subalternità e assegnava agli USA il diritto-dovere di intervenire nelle cose dell’isola. Oggi, 118 anni dopo l’indipendenza dalla Spagna e 57 anni dopo la Rivoluzione, Cuba e i cubani possono guardare a se stessi non più come un angolo subalterno del mondo. Quante migliaia di ore ha dedicato Fidel, con quell’oratoria sulla quale qualcuno ironizzava, a cercare di convincere i giovani cubani di non essere inferiori a nessuno!
Oggi i cubani sono profondamente diversi da allora, hanno studiato, sono sani, e sono capaci di guardare al bene e al male di un sistema politico che resta iper-burocratico e poco efficiente e che non è stato capace – ammesso che fosse possibile – di vincere tutte le dipendenze che la storia e la geografia hanno imposto all’isola, a partire da rendite agrarie sempre insufficienti e che, oggettivamente, il sistema statalista non poteva risolvere. Vivono in questo mondo, hanno aspirazioni, desideri, frustrazioni. Soprattutto, in un mondo dove il desiderio di consumo muove tutto, e in un paese dove questi restano straordinariamente compressi, neanche la barba di Fidel aveva il diritto di dire quanto rivoluzionario fosse rinunciare allo shampoo.
Strano dittatore dunque, questo Fidel Castro. Fu dittatore per mezzo secolo dell’unico paese del continente americano che non ha conosciuto il dramma dei desaparecidos. Centinaia di migliaia di persone sono state fatte sparire nel frattempo da dittature e democrazie filostatunitensi in tutto il continente. È triste pensare che solo la dittatura di Fidel Castro abbia fatto da argine al crimine contro l’umanità della sparizione forzata di persone e del terrorismo di stato. Senza libertà di stampa, Cuba è pur sempre l’unico paese al mondo dove non è mai stato ammazzato un giornalista. E neanche un sindacalista, laddove in paesi come il Brasile, il Messico, la Colombia ne cade senza rumore uno al giorno. E neanche un bambino è più morto di denutrizione nell’unico paese che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è libero dalla denutrizione infantile in un continente pieno di terre fertili e acqua potabile ma dove la fame resta uno scandalo. Il che non significa che per le famiglie cubane sia stato facile in questi decenni mettere sufficienti calorie a tavola, ma a Tucumán, nel pieno del neoliberismo reale e con il plauso del Consenso di Washington, si era arrivati al 70% di denutrizione infantile. Era questa l’alternativa alla rivoluzione cubana? Gli apologeti ne sono sicuri ma non vi è prova. Mentre a Cuba si faceva una gran fatica durante il periodo speciale, le democrazie rappresentative dell’America Latina straziata dal neoliberismo – il vero tratto della storia regionale che unisce la guerra fredda a noi – conoscevano i morti per fame, la riduzione indiscriminata dei diritti civili, della scolarità, della salute. Erano governate da signori per bene, da Carlos Andrés Pérez a Carlos Menem, da Fernando Henrique Cardoso a Felipe Calderón, senza dover neanche più scomodare i Pinochet, i Videla, i Trujillo, i Somoza.
È in questa America latina e in questo mondo che ha vissuto, operato e a volte sbagliato, l’uomo del Novecento Fidel Castro. Nell’esercizio della sua demonizzazione in molti hanno costruito carriere, in particolare i conversi, coloro che furono comunisti, che per Cuba si erano spellati le mani, e che nel ribaltamento della loro ideologia ne hanno sposato con altrettanto fervore l’opposto, rimanendo sostanzialmente quello che erano, pronti a servire il padrone del momento. Chi invece comunista non è stato mai è più libero di essere equanime e tratteggiare Fidel nelle sue luci e le sue ombre, come qui ho cercato di fare. D’altra parte anche quelli per i quali Cuba dovrebbe rimanere quello che forse è stata nei sogni della loro gioventù, dimostrano di non aver capito e rispettato veramente il divenire di una storia ammirevole.
Fidel Castro è stato probabilmente il più grande dirigente politico latinoamericano della Storia. Se il suo amico Nelson Mandela ha passato buona parte della vita come “terrorista” per poi essere santificato da tutti, con Fidel il destino è stato diverso, osannato da un campo e demonizzato dall’altro, anche se molti son saltati dalla parte più conveniente, lungo una linea divisoria ideologica che in questo secolo è sempre più sbiadita. La storia lo assolverà, lui ne è sempre stato convinto, ma anche i contemporanei potrebbero essere un po’ più onesti con Fidel.
--------------------------------------------------------

da  http://www.qualcosadisinistra.it/2016/11/28/omaggio-a-fidel/

fidel

Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.  E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni ’50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.
E’ difficile, per una come me, arrivare all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.
L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è di EcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possono fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en  Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gesù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo.
Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“.
Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni ’70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà:gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio.Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.
E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina,finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza.
Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.
Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni Novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere,sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.
Lia De Feo


Nessun commento: