Testo

Tel. 3319034020 - mail: precariunited@gmail.com

lunedì 19 marzo 2018

LO SGUARDO LUNGO DELLA VAL DI SUSA


Un articolo molto lungo, quasi un saggio, di cui consigliamo la lettura per la capacità di partire dalla Val Susa  per aprirsi su innumerevoli temi collegati, agevolmente spiegati anche dove si parla di modelli scientifici.


da  http://gliasinirivista.org/2018/03/lo-sguardo-lungo-della-val-susa/


di Enzo Ferrara


disegno di Silvia Rocchi


In Val di Susa, il 2018 è iniziato con una settimana di neve e pioggia dopo mesi di siccità. Malgrado ciò la notte del 2 gennaio un incendio, probabilmente doloso, ha distrutto lo spazio sociale VisRabbia, un’area polivalente del comune di Avigliana in bassa valle. L’ennesimo luogo riconoscibile della lotta No Tav cancellato con violenza, sede di incontri dell’Anpi, luogo di aggregazione dei produttori locali di Genuino Valsusino e del comitato Spinta dal Bass. In valle si è già assistito ad attacchi incendiari che hanno distrutto i presidi di Borgone e Bruzolo nel gennaio 2010 e quello di Vaie nel novembre 2013. Non si può sottovalutare l’importanza aggregativa di queste piccole strutture condivise, costruite e ricostruite in poche settimane. Sorgono in luoghi strategici, come il presidio sul vecchio sito di Venaus o come quello della Baita Clarea posta a difesa della Libera Repubblica della Maddalena di Chiomonte, ora fagocitata dal cantiere. Entrambi subirono violenti attacchi delle forze dell’ordine: gli occupanti di Venaus furono sgomberati nel dicembre 2005, ma ripresero il presidio pochi giorni dopo. A Chiomonte le ruspe arrivarono nel febbraio 2012, poche settimane dopo l’ostentato passaggio di Beppe Grillo che subì poi un processo per la rottura dei sigilli della baita. In questi luoghi nascono e radicano riflessioni e relazioni. Qui, dove l’accoglienza e la condivisione sono pratica quotidiana, si rafforza la rete del movimento e qui trova ospitalità chi non ha altri spazi di socializzazione.
Per questi incendi la magistratura non avvia indagini approfondite mentre è attenta a perseguire per abuso edilizio e deturpazione del paesaggio i costruttori dei presidi, edificati con le abbondanti pietre del luogo e legna di bosco, raccolte magari proprio attorno a quel grumo di sabbia, asfalto e cemento che è il cantiere di Chiomonte – fortificato con filo spinato e barriere jersey, sopra al sito neolitico della Maddalena con annesso museo archeologico inaugurato nel 2004 ma inaccessibile – certamente non soggetto a ispezioni sul rispetto dei vincoli naturalistici e paesaggistici.
La mentalità del sistema finanziario e capitalistico è repressiva e dominata da un concetto di natura seicentesco, retto dai modelli della fisica meccanica che individua per ogni effetto un’unica singola causa, per ogni danno un unico colpevole. Il mercato riconosce i principi della termodinamica secondo i quali non è possibile alcun processo, nemmeno quelli naturali, in forma totalmente reversibile, cioè senza scarti materiali e dissipazione di energia. Tuttavia si irrita se gli si ricorda che lo spreco di risorse è proporzionale alla velocità dei processi e che non è possibile la crescita infinita in sistemi finiti come il nostro pianeta. Non ci si può illudere che chi giustifica il proprio potere con relazioni lineari causa-effetto, danno-colpa, problema-rimedio possa cogliere i concetti di reciprocità introdotti nel novecento dalla dinamica dei sistemi, che riconobbe i meccanismi di riproduzione, regolazione, lettura ed elaborazione dell’informazione su cui si basa l’adattamento degli insiemi complessi. Concetti che, pur nella fredda assimilazione di organismi e macchine, furono integrati nella cibernetica(l’autogoverno) con la statistica dal matematico Norbert Wiener e con la sociologia dall’antropologo Gregory Bateson. Riferimenti analoghi furono usati dagli scienziati dell’Mit per le previsioni del Rapporto sui limiti dello sviluppo (1972) e prima ancora fu Isaac Asimov a integrarli con il controllo dell’informazione nell’immaginaria scienza della psicostoriografia, ideata da Hari Seldon per gestire il futuro nella visionaria Trilogia della Fondazione.
La scienza sa che quanto più le dimensioni di un sistema crescono, tanto più gli equilibri che lo sostengono si fanno fragili e articolati mentre il rafforzamento e la moltiplicazione delle interazioni fra le sue diverse componenti è l’unica modalità di bilanciamento di un sistema fuori equilibrio. Per questo la diversità biologica e la diversificazione delle funzioni sono sempre una risorsa. Per questo la crescita di biomassa in un unico habitat può essere associata solo a meccanismi di differenziazione, come nelle barriere coralline o nelle foreste pluviali, i luoghi più ricchi al mondo di biodiversità. Biologicamente, i processi di uniformizzazione costituiscono una forma di deriva evoluzionistica.
Tuttavia, i potenti e le maggioranze asservite perfino di fronte all’irreparabile crisi disconoscono i meccanismi che autoregolano i sistemi complessi, anche se proprio a quelli – all’ingegneria dei sistemi – si rifanno le cosiddette intelligenze artificiali con le quali dicono di voler porre rimedio ai danni. Di poche cose possono vantarsi: quando ci riescono, della crescita di se stessi e di quelli come loro – causa prima del dissesto climatico e ambientale – e poi della forza repressiva che li difende.
Donald Trump si espone al ridicolo quando nega le variazioni climatiche chiamandole “eventi meteorologici estremi” e impone la censura sulle agenzie di controllo ambientale e sanitario cancellando nei documenti ogni riferimento ai gas serra e ai termini vulnerabile, diversità, transgender e feto. Eppure un impeto di negazionismo sembra condiviso anche da questa parte dell’Atlantico se si considera la ridefinizione di Trump dell’espressione “basato su prove scientifiche” con “basato sulle raccomandazioni scientifiche in considerazione di usi e desideri della società”. È un distinguo che calza per la recente decisione dell’Unione Europea di rinnovare per altri cinque anni l’autorizzazione all’erbicida glifosato nonostante il fatto che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) lo abbia valutato come probabilmente cancerogeno. L’inopportuno intervento della senatrice Elena Cattaneo a difesa della decisione Ue (“la Repubblica”, Gli equivoci sul glifosato, 1 dicembre 2017) ha ricevuto la risposta di quattro scienziati che sulla rivista “Epidemiologia & Prevenzione” hanno chiesto maggiore chiarezza su un problema di rilevanza per la salute pubblica prima ancora che per l’agricoltura, ricordando che i criteri di valutazione della Iarc sono accessibili, aggiornati e sottoposti al vaglio della comunità scientifica, mentre sui tentativi delle multinazionali di distorcere la conoscenza sulla nocività del glifosato esiste un dossier piuttosto sconvolgente prodotto da “Le Monde”, che ha avuto ampia circolazione anche in Italia.
Non paiono meno sbrigativi i ragionamenti del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina che, rispondendo al question time alla Camera per l’emergenza incendi della scorsa estate, ha sottolineato un netto aumento di controlli, denunce e arresti per il reato di incendio boschivo registrati nel corso del 2017. Le ex guardie della forestale inutilmente spiegano che a loro interessa il bosco con la sua complessità dai cinghiali, ai lupi, alla processionaria e che sono preparati per osservarlo e proteggerlo, non per l’individuazione dei colpevoli quando il bosco non c’è più. La prevenzione, però, è un lusso che non possiamo permetterci; le colpe dei piromani sono indubbie e gravissime, ma la situazione di abbandono del territorio facilità le loro azioni e ne amplifica le conseguenze. Il ministro ha sottolineato anche che il comando unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare dei carabinieri “già costituisce una forza di polizia ambientale tra le più avanzate in Europa” e ha ricordato che la competenza sulla prevenzione e la lotta agli incendi boschivi, “secondo la legge quadro, è affidata alle regioni e la riforma nulla ha cambiato nel riparto delle responsabilità”. La riforma è quella che nel 2017 ha accorpato il Corpo forestale dello Stato con l’Arma dei carabinieri proprio mentre in Europa per la siccità si contava il raddoppio degli incendi e in Italia il loro controllo, riducendo le risorse, era sempre più fondato sulla collaborazione delle guardie forestali con le squadre di volontari Aib (Anti incendi boschivi) presenti in tutti i comuni montani. Nonostante la buona volontà dei vigili del fuoco, il collaudato connubio fra le squadre Aib e il Corpo forestale costituiva un patrimonio insostituibile di conoscenza delle aree boscate e dei meccanismi con cui il fuoco può alimentarsi e travalicare con effetti incontrollabili.
Malgrado le dichiarazioni di Martina, gli esiti della riforma si sono visti in ogni incendio del 2017 sull’Etna, sulla Majella e in Val di Susa. In molte circostanze il fuoco è avanzato per chilometri prima di divampare senza che ne fosse percepito il rischio. È successo anche a Cantalupa in Val Chisone, dove lo scorso ottobre un infarto letale ha colpito un giovane che tentava di arginare un incendio, e dove prima di raggiungere il paese le fiamme hanno potuto attraversare inosservate per molti giorni prima la Val di Susa e poi l’intera Vallata del Sangone, passando più in alto dei centri abitati.
Anche la stampa piemontese era distratta, ha atteso una decina di giorni prima di dare notizia degli incendi, preoccupandosi soprattutto delle conseguenze in pianura per l’aumento di polveri sottili e la minaccia di blocco del traffico, quando nei quartieri a nord-est di Torino si sentiva l’odore del fumo. Le cronache degli incendi in valle si potevano seguire sui quotidiani del Portogallo colpito a sua volta a giugno e a inizio ottobre con oltre 100 morti, più che sulla cronaca della “Stampa” o della “Repubblica”.
Innescate a inizio ottobre le fiamme si sono estinte solo nei giorni successivi alla proclamazione, il 27 ottobre, dello stato di emergenza con l’intervento di elicotteri svizzeri e canadair francesi e croati, vista la scarsa disponibilità dei 16 canadair che l’inglese Babcock Mcs affitta alla protezione civile, e con l’arrivo della pioggia di novembre. Pro Natura e Legambiente hanno ricordato al ministro e al governatore del Piemonte – che minimizzava il più grande incendio boschivo delle Alpi negli ultimi cinquant’anni osservando fortunatamentel’assenza di danni alle abitazioni principali – i valori della rarissima biodiversità incenerita, del paesaggio d’eccellenza distrutto e il grave pericolo idrogeologico accresciuto ora che in quei valloni già ad alto rischio è andata perduta la vegetazione che ne stabilizzava i versanti ripidi.

Varianti di cantiere
Queste osservazioni non sono considerate dai progettisti di Telt (Tunnel euralpin Lyon Turin) – ex Lyon Turin ferroviaire ed ex Gruppo europeo di interesse economico Alpetunnel – secondo quanto appare dal definitivo, per adesso, progetto della tratta transfrontaliera. L’estate scorsa è stata pubblicata la variante di cantierizzazione del tunnel di base in Italia, per rispondere a una prescrizione del Cipe che chiedeva una localizzazione alternativa del cantiere principale per garantire la sicurezza di operai e mezzi, ma in senso militare, non come prevenzione a tutela del territorio e della salute. Poiché il fortino-cantiere di Chiomonte si è mostrato resistente a ogni forma di contestazione, sarà questo l’avamposto del tunnel di base. Lo scavo italiano sarebbe dovuto partire da Susa per congiungersi con quello francese proveniente da Saint-Jean-de-Maurienne. Susa è però vulnerabile, per cui la talpa di scavo si inabisserà da Chiomonte, creando un nuovo percorso verso il fondovalle, i cui scarti andranno almeno in parte a riempire il buco già esistente, cioè il tunnel geognostico scavato negli ultimi sei anni, diventato (quasi) inutile. Sono previsti undici anni di cantieri per gestire lo smarino del Tav, che sarà destinato in due luoghi in Val di Susa: prima al futuro sub-cantiere di Salbertrand in alta valle, dove verrà macinato, e poi al deposito dell’ex Cava di Caprie in bassa valle per il deposito. Un secondo sito di deposito sarà a Torrazza, vicino Chivasso, in una ex cava di ghiaia lungo il Po a 123 chilometri dal cantiere. Per il trasporto dello smarino grezzo o frantumato si useranno nuovi camion, nuovi binari, nuove piattaforme tutte gestite da Telt. Se non è un tentativo di dare ragione a chi sostiene che non si può contemporaneamente essere ben informati, in buona fede e favorevoli al Tav, allora è un progetto keynesiano concentrato sulla logica delle piccole opere e delle manutenzioni diffuse, più che sull’improbabile utilità della galleria sotto le Alpi.
Un recente saggio su questi temi è Sola andataTrasporti, grandi opere e spese pubbliche senza ritorno (Egea 2017) di Marco Ponti. L’autore, docente alla Bocconi di Milano, non tacciabile di ambientalismo, ha prodotto un testo ricco di ironia. Il punto di vista è puramente economico: il taglio della spesa in Italia è avvenuto a danno degli investimenti pubblici, per cui bisognerebbe compiere accurate analisi costi-benefici, di cui il Piano nazionale dei trasporti è privo, prima di stabilire le priorità. Tuttavia, con il marchingegno dell’opera strategica, ogni analisi è evitabile. Ponti parla anche di trasporti cittadini e di autostrade e osserva che in ogni dove invece di manutenzioni o interventi idro-geologici la spinta è verso investimenti di dubbio ritorno, come il Tav del Terzo Valico Milano-Genova, con affidamenti senza gara, che poi magari l’Ue non approva. È accaduto con l’appalto assegnato alla Cmc di Ravenna, capofila della Venaus Scarl che si occupa degli scavi del cantiere alla Maddalena di Chiomonte. Telt con la variante di cantiere ha accorciato di 500 metri il tunnel geognostico rispetto ai 7,5 chilometri iniziali, prevedendo di non completare più la galleria di ventilazione in Val Clarea e assegnando questa funzione al nuovo Tunnel. I 5 milioni di euro così risparmiati potevano secondo Telt essere usati per consolidare la galleria già realizzata, affidando i lavori direttamente alla Venaus Scarl. La Commissione Italo-Francese ha però bocciato questa scelta e chiesto una nuova gara di appalto in base alle norme Ue. Un pasticcio che ha interrotto i lavori, messo in crisi la Cmc che ha licenziato decine di propri dipendenti e minato l’occupazione in Val di Susa, invece di aumentarla come recita la pubblicità del Tav.
Keynes sostenne che per l’economia andrebbe bene anche far scavar buche ai disoccupati e poi riempirle di nuovo. Sembra che Telt lo abbia preso in parola, sarebbe però bastato riempire le buche già esistenti, senza crearne di nuove e pericolose. Pro Natura ha osservato che dal punto di vista ambientale la collocazione scelta per il sub-cantiere di Salbertrand non potrebbe essere peggiore, a raso su una piana alluvionale in un punto a monte di una stretta tra le montagne su cui incombono movimenti franosi e uno smottamento che nel 1957 ha inghiottito mezzo chilometro di statale poi ripristinata su una quota superiore.

Fuori dalla Val di Susa
Uno degli obiettivi del movimento è allargare lo sguardo oltre la Val di Susa, de-valsusinizzare la lotta anche per allentare la pressione su questo territorio. Un modo è quello di guardare alla sicurezza dei trasporti di persone e merci, dal punto di vista di una valle attraversata anche da treni di scorie radioattive che vanno e vengono dalle centrali nucleari francesi. Sicurezza è una parola-chiave dopo la sentenza di primo grado per la strage ferroviaria di Viareggio, in solidarietà con l’associazione Il Mondo che Vorrei. Familiari Vittime 29 giugno 2009 che si batte per evitare la prescrizione. Sicurezza intesa anche per chi nei cantieri ci lavora. Perfino in Val di Susa sono pochi a conoscere la storia di Pietro Mirabelli, il minatore sindacalista calabrese che aveva denunciato i ritmi disumani dei cantieri Tav, morto per un incidente nel 2010 in Ticino durante gli scavi della galleria del Gottardo. Lungo l’arco alpino i cantieri che danno lavoro, ma in condizioni precarie e rischiose sono sette, già completi o in costruzione: il Koralm, il Semmering, il Brennero, il Ceneri, il Gottardo, il Lötschberg e il Moncenisio. E sempre in merito alla sicurezza, dopo i gravi incidenti avvenuti a Pioltello, alle porte di Milano, il 26 gennaio 2018, e sulla tratta a binario unico fra Andria e Corato, in Puglia, il 12 luglio 2016, sono sempre più apprezzabili le parole pronunciate da Élisabeth Borne, titolare del ministero francese per la “transizione ecologica e solidale” con delega ai trasporti. Lo scorso luglio, in un’audizione della Commissione del Senato francese per la gestione del territorio e lo sviluppo sostenibile, riferendosi anche all’ipotesi della nuova linea transfrontaliera Torino-Lione la signora Borne ha dato il via alla pausa di ripensamento in Francia affermando che nelle ferrovie: “Occorre soprattutto migliorare l’esistente, prima di reclamare miliardi per una nuova linea da ricavare accanto a quella vecchia”.
Devalsusinizzare, perché le ragioni profonde del Tav sono lontane dalla valle. Sergio Bologna in Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale (Derive Approdi 2017), per esempio, analizza le derive della logistica via mare, denunciando il peso eccessivo che la finanza esercita prelevando rendite parassitarie dall’economia reale in ogni sua espressione, compreso il trasporto. La questione riguarda il Tav perché sul fantomatico corridoio 5 dovrebbero transitare merci da e verso l’Oriente, da Est lungo la via della seta – in realtà impraticabile per la quantità di conflitti armati che si incontrerebbero – oppure via mare dai porti del Mediterraneo o dell’Europa del Nord. L’idea è che un’infinita marea di merci disponibili a basso prezzo (si costruisce un nuovo tunnel a bassa quota proprio per diminuire i costi di trasporto) possa attivare un circolo virtuoso di sviluppo. Invece, secondo l’analisi di Sergio Bologna, il capitale delle merci si è rivelato nel settore dello shipping – lo spostamento via mare – una marea sì, ma che ha travolto con i suoi scambi colossali ogni altra forma di trasporto, ridisegnando i porti, i moli e gli scenari del lavoro di carico e scarico sull’unica dimensione dei grandi container. Nel 2016 la coreana Hanjin Shipping, settima compagnia al mondo nel trasporto transoceanico con una flotta di 141 portacontainer, è fallita letteralmente abbandonando in mare più di 60 navi cariche di merci per un valore di circa 14 miliardi di dollari, assieme agli equipaggi, aprendo una crisi di tutto il trasporto marittimo mondiale. In mare, la rincorsa al ribasso dei costi di gestione, raggiunto per esempio con i tagli al personale, con l’elefantiasi delle navi container e con la riduzione dei tempi di attesa in porto, ha messo a rischio di naufragio – oltre ogni metafora – anche imbarcazioni d’avanguardia, costrette ad affrontare tempeste reali ed economiche trascurando ogni prudenza, per rispondere ai ritmi disumani che solo il capitale può imporre. Le merci trasportate crescevano, effettivamente, ma le grandi navi crescevano ancora più velocemente perché il loro guadagno stava nella quantità, non nella qualità, del trasporto, ed è accaduto infine che si arrivasse ad avere più navi disponibili che merci da spostare a costi non più sostenibili.
Lo storico Pier Paolo Poggio e Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale dell’Adriatico orientale, nei loro contributi al libro di Bologna osservano che le nuove forme di trasporto merci travalicano ogni possibilità di scambio della cultura materiale associata alla loro produzione e all’uso. Il saper fare, le tecniche vengono nobilitate quando le transazioni permettono un reciproco aumento di ricchezza anche sotto forma di conoscenza “dando luogo a trasformazioni lente dei quadri ambientali, fisici e mentali in cui si forgia l’umanità”. In merito alla Torino-Lione, il Piano generale dei trasporti 1998-2001 espresse chiaramente l’opinione che non fosse una priorità. “Formulazione che poteva essere interpretata come: è un’opera inutile”, precisa Bologna aggiungendo che di fronte alla vantata dimensione colossale delle grandi navi o alla lunghezza abnorme di treni che dovrebbero attraversare i tunnel “abbassando i costi” bisogna sempre chiedersi a quali condizioni questi si riducono e dove, invece, i costi salgono assieme ai rischi per la sicurezza. Il grave errore che ha portato a forme di shipping insostenibili, eppure finanziate all’inverosimile è stato quello di pensare che il settore potesse crescere infinitamente, in modo “disumano”. Prescindere dalla limitatezza e dall’umanità del mondo, dei porti, delle fabbriche e dei magazzini non è solo eticamente sbagliato, è un errore strategico e gestionale. L’efficienza determinata sulla celerità e sulla quantità dei prodotti in transito è effimera, un’intera filiera di valori, saperi e diritti che viaggiano con le merci non può essere cancellata a vantaggio di pochi chilometri di velocità inebriante, a solo conforto della speculazione e dell’immaginario malato di chi crede nella crescita infinita.
L’umanità si ritrova invece su un itinerario della Val di Susa meno conosciuto ai foresti e perciò da sempre utilizzato per i passaggi degli irregolari. Lungo la strada del Fréjus che sale a Nord, da Bardonecchia, sopra gli impianti del Melezet, un lembo d’Italia si estende verso Est fino al colle della Scala (l’Echelet) dov’è già Francia. Dopo che il Brennero e Ventimiglia sono state chiuse militarmente per impedire loro il passaggio, da questa strada gli irregolari tentano la fortuna, lasciando i campi da golf in alta quota e scendendo per una valle secondaria che in estate, in sei ore, riporta sul percorso regolare a Briançon – l’antica Brigantio, nome che è tutto un programma. Basta un appoggio, un rifugio a metà strada, per rendere il percorso fattibile anche d’inverno purché equipaggiati. Al contrario, senza equipaggiamento basta un imprevisto perché anche questo valico secondario si aggiunga alla lista dei luoghi di non ritorno sulla rotta dei migranti. Ad assisterli arrivano a turno dalla Val di Susa e da Torino, come in Francia, volontari riuniti nella rete “Briser les frontières”. Su quei valichi il Tav assume un profilo storico riconoscibile: lo scambio di merci e potere torna a intrecciarsi con la presenza degli eserciti e dei briganti.
Il tunnel ferroviario del Frejus, ammodernato nel 2012, è perfettamente funzionante ed è attraversato ogni giorno dai Tgv, i treni francesi ad alta velocità, ma è presidiato dai militari e dalla polizia che hanno il compito di respingere merci e persone superflui per i meccanismi economici, mentre si pretende che i territori attraversati facciano da spettatori a progetti imposti anche su di loro. Dovrebbe essere inquietante per i fautori del Tav: il progetto ad alta velocità, garanzia della libera circolazione di passeggeri e merci, incontra il proprio opposto. Una contraddizione lunga quanto i 57 chilometri del tunnel di base da realizzare con 21 miliardi di euro per “agevolare e velocizzare lo spostamento di merci e persone lungo il corridoio 5 Lisbona-Kiev”, parole di quegli stessi governi che bloccano, respingono e rimpatriano. Queste contraddizioni, non sono sfuggite ai valsusini che sanno guardare lontano. Il sostegno ai migranti che tentano il passaggio in Francia portandosi dietro la bandiera No Tav è la pratica che sorpassa per significato tutto quanto in questi anni è stato raccontato di questa valle.

Nessun commento: