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venerdì 6 aprile 2018

POVERI DI PAESE

Questo articolo ha di interessante la chiave di lettura dei dati ISTAT sulla povertà che, al di là degli appelli del redattore un po' retorici e nostalgici sulla paesanità, mostra la crisi, a nostro avviso irreversibile per questioni di concentrazione nazionale e internazionale del Capitale, del modello italiano della piccola impresa, spesso artigiana: modello che, chiariamoci bene, per le tutele degli operai non aveva nulla di meglio rispetto alla grande impresa, ma che era il fulcro dell'organizzazione economica della Penisola. Dato, a differenza dell'articolo, secondo noi per scontato il tramonto di questo modello, rimane la grande incognita di quale sarà il futuro dell'industria italiana, concetto a cui pochi prestano attenzione ma che è fondamentale per capire la redifinizione del sistema produttivo dentro la stessa UE, che, a quel che pare, sembra vedere l'Italia come Paese con alcuni settori industriali di punta destinati all'export, mentre per il resto si vede una dismissione che la classe dirigente nostrana, vista la scarsità di investimenti per infrastrutture di turismo ricreativo e culturale (patrimonio molto poco tutelato), sembra difficilmente in grado di recuperare.





da  http://www.linkiesta.it/it/article/2017/07/14/poverta-il-triste-declino-dellitalia-dei-borghi-e-dei-distretti/34917/


Secondo i dati di Istat i poveri raddoppiano nei piccoli borghi del centro Italia e si dimezzano nelle metropoli del Nord. Segno dei tempi? Forse, ma ci stiamo perdendo per strada un pezzo di Paese, quello che più ci rappresenta. Ed è un peccato


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Hai voglia a decantare le virtù civiche, l’estetica borghigiana, i sottotetti in pietra e mattoni dove tornano le rondini, sugli ermi colli, tra cipressi e girasoli. Hai voglia. E poi ti ritrovi di fronte i dati del rapporto Istat sulle povertà. Che d’accordo, racconta tante altre cose molto più titollabili del declino dell’Italia-più-Italia - le famiglie numerose più povere di quelle senza figli, gli anziani più ricchi dei giovani, gli operai che hanno pagato la crisi, il mezzogiorno con le pezze dove non batte il sole: wow - ma anche un bel po’ più ovvie.
Meno ovvio, invece, è constatare che l’unico pezzo d’Italia dove crescono in misura significative le povertà assolute e relative - rispettivamente dal 4,2% al 5,9% e dal 6,5% al 7,8% - è il Centro Italia, mentre il Nord è sostanzialmente stabile e il Sud è addirittura riuscito a migliorare il suo status. Ancora meno ovvio è osservare che, nel giro di un anno, tra il 2015 e il 2016, la povertà raddoppia nei piccoli comuni del centro Italia e si dimezza nelle metropoli del Nord (e pure in quelle del Sud, a dire il vero).
C’è stato il terremoto, direte voi. Più di un terremoto, in verità. Perché noi giornalini e giornalini che raccontiamo l’Italia da Milano e da Roma forse non ci siamo accorti di altre, ben più silenziose, catastrofi. Ad esempio, della crisi dei distretti delle aree interne dell'Italia di mezzo, nessuno dei quali - ad eccezione di quello dei vini fiorentini e senesi - è nella top ten dell’annuale rapporto di Intesa San Paolo dedicata a questa peculiare forma di capitalismo diffuso. Distretti del Centro che sono in coda anche nei piani di acquisizione all’estero e in quelli di reshoring produttivo.
Caso di specie, le Marche, la “regione più artigiana d’Italia”, forse quella che ha pagato il prezzo più duro alla crisi. Tra gennaio e marzo del 2017, a dieci anni dall’inizio della recessione, sono state 4233 le imprese che hanno chiuso i battenti, con un saldo negativo di 1200 unità circa - guarda un po’ - soprattutto nelle calzature, nella meccanica e nel legno arredo, figlio del crollo di ordinativi e investimenti.
Così non si può far finta di non vedere che quasi tutte le crisi bancarie sono figlie dei territori della Terza Italia dei distretti, da Siena ad Arezzo, da Vicenza a Ferrara, da Ancona a Chieti. Senza dimenticare, peraltro, ai faticosi tentativi di rilancio e alle inchieste giudiziarie che coinvolgono gli istituti di credito locale di Rimini, Cesena, Teramo, Pescara. Tutte piccole casseforti di ricchezza locale, fiori all’occhiello di comunità coese e operose, trasformatesi nella loro aberrazione. Che più dei capoluoghi hanno colpito duro la provincia, i territori, le aree interne.
Probabilmente non basta un piccolo editoriale a raccontarla tutta, questa metamorfosi dell’Italia, sempre meno provinciale e borghigiana, sempre più urbana e metropolitana. Nè tantomeno a spiegare se tutto questo sia un esito fisiologico o patologico, auspicabile o deteriore. Quel che è certo è che sta avvenendo, che le aree interne si stanno inesorabilmente nelle nuove sacche di sottosviluppo del Paese. Che rischiamo di perderci un pezzo fondamentale della nostra identità, del nostro tessuto sociale, della nostra unicità. Che forse è arrivato il momento di occuparci di aree interne così come ci occupiamo delle grandi città, partendo dalla legge sui piccoli comuni che è stata licenziata alla Camera e a breve sarà calendarizzata al Senato. Che le energie di chi fa innovazione sociale e urbanistica dovrebbero guardare lì, soprattutto lì. Che non possiamo lasciare morire, nel suo isolamento e nella sua bellezza, quel pezzo d’Italia che forse più di ogni altro ci definisce. Non possiamo, no.

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