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martedì 8 gennaio 2019

L'AFFARE OPL245


da  https://www.internazionale.it/reportage/marina-forti/2019/01/07/processo-eni-shell-milano-petrolio




Una mattina d’autunno, davanti ai giudici della settima sezione penale del tribunale di Milano, si presenta un tenente colonnello della guardia di finanza. Una settimana dopo c’è un investigatore della polizia di Londra. Poi un’agente dell’unità contro la corruzione del Federal bureau of investigation (Fbi) degli Stati Uniti. Un’udienza dopo l’altra sfilano investigatori, diplomatici, analisti finanziari.
Sono testimoni dell’accusa in un processo che non sta facendo grande clamore. Eppure dovrebbe, perché riguarda il più grande caso di corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale. Denominato semplicemente “Scaroni e altri”, il procedimento ha tredici imputati – tra cui l’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il faccendiere Luigi Bisignani, l’ex vicepresidente della Royal Dutch Shell Malcolm Brinded e l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete – oltre alle aziende Eni e Shell. Secondo l’accusa sarebbero corresponsabili della sottrazione di oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano: soldi pagati in teoria per l’acquisto di una concessione petrolifera in Nigeria; in realtà andati a beneficio di alcuni politici e imprenditori nigeriani, con un codazzo di intermediari e faccendieri.
Tutto ruota intorno alla concessione petrolifera nota come Opl 245, che si trova in mare aperto, al largo del delta del fiume Niger. È considerato il più grande giacimento in Africa, con una riserva stimata di nove miliardi di barili di greggio, e fa gola. Nel 2011 l’Eni e la Shell si sono aggiudicate la licenza per sfruttarlo in cambio di un miliardo e trecento milioni di dollari. Ma gran parte di quel denaro è finita alla Malabu oil & gas, azienda che rivendicava un diritto sul giacimento, e dietro a cui si nasconde l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, tra gli imputati a Milano. È una storia che avevamo raccontato nel 2017 su queste pagine, uno scandalo finanziario che dalla Nigeria sconfina nei Paesi Bassi, in Italia e nel Regno Unito, con propaggini fino agli Stati Uniti.
Spetta ovviamente ai giudici stabilire se i vertici dell’Eni e della Shell sapevano con chi stavano trattando e dove sarebbe finito il loro denaro, come sostiene l’accusa, e sono quindi colpevoli di corruzione. Le compagnie petrolifere negano. Eni dice di aver avuto solo regolari transazioni con il governo federale della Nigeria e conferma la correttezza della transazione “sia rispetto alle leggi vigenti, sia rispetto alle pratiche utilizzate dall’industria a livello globale”.
Il processo avrà tempi lunghi. Cominciato nell’aprile 2018, in settembre è entrato nel vivo con i testimoni dell’accusa e promette di continuare per tutta la primavera, con i testimoni della difesa e gli imputati – che per il momento non si sono mai presentati in aula, lasciandosi rappresentare dagli avvocati: a difendere Descalzi è Paola Severino, ex ministra della giustizia nel governo guidato da Mario Monti. Presidente della corte è Marco Tremolada.
Intanto, il dibattimento in corso a Milano getta una luce inquietante su una vera e propria “industria della corruzione” che circonda lo sfruttamento petrolifero, in questo caso in Nigeria.
Sulle tracce dei soldi
Per prima cosa, i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spataro hanno ricostruito i passaggi di denaro. Per acquisire la licenza di sfruttamento del blocco Opl 245, l’Eni versa un miliardo e 92 milioni di dollari su un conto intestato alla Repubblica federale della Nigeria presso la banca J.P. Morgan a Londra. Fin qui tutto normale: solo che quei soldi, accreditati il 24 maggio 2011, dopo un paio di mesi sono scomparsi.
Un bonifico di quella entità, però, lascia tracce. Qui la testimonianza chiave è quella del tenente-colonnello della guardia di finanza Alessandro Ferri, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’indagine della procura milanese. Dunque: il 31 maggio 2011, la somma versata dall’Eni è trasferita dal conto J.P. Morgan a un conto presso la Banca della Svizzera italiana (Bsi). Tre giorni dopo però l’istituto rimanda il bonifico al mittente perché ha pesanti dubbi sul destinatario, l’azienda off shore Petro service, di cui era titolare il viceconsole onorario italiano in Nigeria Gianfranco Falcioni (anche lui imputato in questo processo). Secondo l’accusa, Petro service sarebbe stata un semplice tramite per la Malabu oil & gas ltd dell’ex ministro Dan Etete. Un dettaglio inquietante viene dalla deposizione di Antonio Giandomenico, allora console italiano in Nigeria. Ha dichiarato che fu lui a nominare Falcioni viceconsole onorario perché così gli fu suggerito da un dirigente dell’agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise), i servizi segreti italiani che si occupano di esteri.
allisce anche un secondo tentativo di trasferire il denaro, tramite un conto bancario in Libano. Infine, il 24 agosto 2011 dal conto londinese della Repubblica di Nigeria partono due bonifici di 400 milioni di dollari ciascuno, diretti su due conti intestati alla Malabu, aperti in due banche nigeriane: gli inquirenti hanno accertato che il titolare della firma è proprio l’ex ministro del petrolio Etete. Da qui i soldi si muovono ancora. La prima tranche di 400 milioni è versata su un conto intestato all’azienda Rocky top resources: anche questo conto appartiene a Etete. Gli altri 400 milioni sono suddivisi in vari bonifici sui conti di diverse aziende nigeriane, tutte però riconducibili all’imprenditore petrolifero Abubakar Aliyu, braccio destro dell’allora presidente della repubblica Goodluck Jonathan.
Aliyu, che in Nigeria è soprannominato Mister Corruption, è al centro di diverse indagini aperte dalla commissione nigeriana sui crimini economici e finanziari, una sorta di super procura contro la corruzione che ha ripreso slancio nel 2015, quando ad Abuja si è insediato l’attuale presidente Muhammadu Buhari, eletto proprio con un programma di lotta alla corruzione. Nel 2011 però il signor Aliyu era ancora onnipotente e dai conti che controllava sono partiti mille rivoli di denaro. In parte sono stati rintracciati nelle tasche di politici nigeriani, intermediari e familiari dell’allora presidente Jonathan, come ha raccontato al tribunale di Milano Debra LaPrevotte, ex agente dell’Fbi. Fino a tutto il 2015 LaPrevotte dirigeva un gruppo chiamato Cleptocracy Unit, incaricato di seguire movimenti di denaro fraudolenti legati all’industria petrolifera in Africa (oggi continua a fare lo stesso lavoro per un’organizzazione privata di nome Sentry). Dice che ha cominciato a vedere transazioni sospette legate alla licenza Opl 245, e a seguirle. Nel tentativo di confondere le tracce, spesso il denaro è passato attraverso uffici di cambio, ha spiegato LaPrevotte in teleconferenza ai giudici di Milano. Ma “siamo riusciti a rintracciare buona parte di quei fondi”, ha aggiunto.
Il ruolo dell’Eni e della Shell
Ma quali sono le responsabilità dell’Eni e della Shell in questa gigantesca sottrazione di fondi ai danni dello stato della Nigeria? A questo proposito è interessante la testimonianza di Luigi Zingales, professore di finanza all’università di Chicago, che dal maggio 2014 al luglio 2015 è stato nel consiglio d’amministrazione dell’Eni (era stato nominato dal ministero delle finanze, che rappresenta lo stato italiano nella proprietà del gruppo). In particolare, Zingales faceva parte del comitato “controllo rischi”, quello che doveva vegliare sull’osservanza delle regole da parte dell’azienda.
“Che ci fossero dubbi sul caso Opl 245 lo sapevo già prima della mia nomina, l’avevo letto in un articolo dell’Economist”, spiega in un’aula affollata a tal punto che molti giornalisti devono accomodarsi nella gabbia degli imputati. Per questo, dice, appena assunto l’incarico ha chiesto chiarimenti e ottenuto una nota informativa dall’ufficio legale dell’azienda, ma anche questa gli sembrava poco convincente. In particolare, non capiva perché comparisse un tale Obi, indicato come intermediario della Malabu, anche se l’azienda sosteneva di non usare mai intermediari. Continua Zingales: “Feci una nota al consiglio d’amministrazione per evidenziare le carenze del processo decisionale”.


Uno stabilimento della Shell a Ughelli, nello stato del Delta, Nigeria, 26 gennaio 2008. 

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