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venerdì 19 aprile 2019

NON FA RIDERE


da  https://www.esquire.com/it/news/politica/a27192738/inps-facebook-reddito-cittadinanza/?utm_term=Autofeed&utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0TMYFG-IOrNRBM1tshr7E207c9a_dY_QmFjWs8Z6f4yY4c9Q4b1bFcNxo#Echobox=1555596547

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È molto probabile che nella serata di ieri la vostra timeline su Facebook sia letteralmente impazzita per via di alcuni screenshot che raccontavano la giornata amara del social media manager del pagina dell’Inps, trovatosi a gestire la fiumana di commenti sull’erogazione del reddito di cittadinanza e dovendo fare fronte non solo alla normale amministrazione della gestione dei servizi (e dei disservizi) dell’Inps, ma anche alla legittima reazione di gente che nei suoi commenti dimostrava ingenuità, ignoranza, scarsa alfabetizzazione e tutto quello che incontrate ogni volta che vi capita di sospirare alzando gli occhi al cielo quando andate in coda all’anagrafe, alle Poste e sì, anche all’Inps.
È successo che dopo un po’ di ore passate a rispondere, pazientemente, colpo su colpo, a ogni tipo di richiesta (da chi gli chiedeva conto di responsabilità politiche del governo a chi non riusciva a capire come ottenere il Pin per entrare nel proprio profilo Inps e verificare tutto — e chiunque abbia un profilo sul sito dell’Inps sa benissimo non essere il processo più intuitivo dell’universo), il tono del social media manager è cambiato. In poche parole, in preda a una comprensibile esasperazione, il profilo Inps ha iniziato a insultare le persone dubitando delle loro facoltà intellettive usando come pretesto i selfie pubblicati sui alcuni profili personali come parte per il tutto per confermare la sua teoria. Comprensibile, ma non giustificabile. Soprattutto per un servizio pubblico.
È scoppiato il delirio. Screenshot di gente che comincia a dare al social media manager dell’Eroe. Post sul crollo dell’occidente (ed è la seconda volta in questa settimana: forse dovremmo darci una calmata), sull’idiozia del popolo, sull’esaltazione del blasting à la Burioni come metodo di interpretazione della realtà(e che, ormai lo sappiamo, non ci renderà delle persone migliori). Gli immancabili meme e Inps in trendig topic un po’ ovunque.
Adesso che il rumore di fondo si è un po’ attenuato possiamo provare a fare qualche valutazione su questa (triste) pagina che conferma non tanto il crollo dell’occidente, quanto il pessimo stato di salute della nostra vita democratica, del nostro vivere civile e del nostro costruirci comunità. Questo perché nella vicenda dell’Inps vs i questuanti del reddito di cittadinanza, abbiamo perso tutti. E abbiamo perso tutti perché sostanzialmente siamo tutte vittime.
Sono vittime le persone che ieri hanno intasato il canale dell’Inps per chiedere informazioni sulla misura simbolo del Movimento 5 Stelle che avrebbe dovuto, almeno in teoria, risolvere la piaga della povertà in questo paese. Sono vittime non solo perché in qualche modo truffate dalla propaganda elettorale del partito di governo (e non è questione di puntare il dito cinicamente affermando che “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ma di capire la natura profonda di questo Disagio degli Esclusi), ma perché non si fanno problemi a parlare su Facebook dei loro problemi personali — come la madre che denuncia inconsapevolmente il figlio che lavora in nero — mettendo in mostra e offrendo al ludibrio dei cinici la quotidiana dimostrazione plastica dei fallimenti della politica di questo paese. Sono vittime, anche, di oltre trent’anni di attacchi ai servizi pubblici — come ad esempio la scuola — e di delegittimazione della burocrazia (che diventa un Castello kafkiano di cui non ci deve fidare) e rinuncia allo Stato sociale come costruzione di uguaglianza. Nelle parole sgrammaticate degli utenti Facebook, si legge la sconfitta, la rassegnazione e la paura di un paese che ormai non può più trovare nessuna forza per scommettere su se stesso.
È vittima il social media manager. Vittima dello stress e della nevrosi che interessa quasi tutti i lavoratori del nuovo precariato cognitivo. Costretto dalle logiche di sopravvivenza a prendere un salario per lavorare senza sosta e senza diritto alla disconnessione. Usato come paravento, come Malaussène, membrana di quella stessa burocrazia kafkiana che lo costringe a un’ulteriore nevrosi. Vittima anche di se stesso, della dinamica mortale che sui social ci porta a essere soli in mezzo alla giungla a gestire il caos, e di anni e anni di retorica per cui è giusto blastare gli ignoranti. Colpirne uno per educarne cento. Come se questa strategia avesse portato qualche risultato sul medio termine e non avesse invece aumentato ancora di più la sfiducia tra persone e istituzioni. Purtroppo il ruolo pubblico di chi gestisce una pagina social impone una calma e una gestione della crisi forse incompatibili con i tempi e le dinamiche di questa ultima fase del tardo capitalismo accelerato. Forse stiamo parlando di un precario che per 1000 euro al mese o poco più sta connesso 24/7 e si trova ogni giorno tra l’incudine e il martello della comunicazione istituzionale per cui il tuo dovere è informare anche chi ha il diritto di essere ignorante.
Ma siamo vittime anche noi che questi post li abbiamo letti, visti, condivisi. Ci abbiamo scherzato sopra. Abbiamo fatto degli screenshot. Li abbiamo passati ai nostri gruppo Whatsapp. Ci abbiamo in qualche modo speculato dando al social media manager parimenti dell’eroe o del coglione, agli utenti della pagina delle capre ignoranti e o degli esclusi da compatire. Sempre, però, con l’approccio da colonialista digitale che divide in qualche modo chi “ci arriva” a gestire la complessità di questo ecosistema, da chi invece lo usa semplicemente come un ufficio reclami, un bar, un album dei ricordi personali. Vittime del nostro narcisismo, della nostra ricerca ossessiva del Like (la compensazione dell’ansia della notifica perenne ti arriva dalla dipendenza dalla dopamina data dai Like), dal nostro dimostrarci più brillanti, più edgy, più sul pezzo con la battuta più brillante, il commento più salace, la coolness più esasperata. Ormai in nome del consenso e della notorietà siamo disposti a fare una sorta di zapping cognitivo in cui tutto è uguale a tutto. Come se fosse uno sfottò dopo una partita di calcio. Che è un po’ il vero e autentico problema di questa epoca in cui non sembra più valere la pena lottare per qualcosa.
Ieri abbiamo dimostrato che l’esperimento dell’uso virtuoso dei social network è ufficialmente fallito. E tutte le nostre belle parole di tecno-entusiasti che anche solo qualche anno fa credevamo con sincera convinzione che queste infrastrutture avrebbero aiutato i processi pedagogici innescando dinamiche virtuose tra persone che, in nome del bene comune, avrebbero usato la velocità di connessione e la possibilità di accesso a tutta la cultura possibile del mondo per migliorare e migliorarsi, sono svanite come le proverbiali lacrime nella pioggia.
Come hanno fatto giustamente notare sui social, a comportarci così non siamo tanto diversi da un Salvini qualunque. Ormai non esiste più dialettica, ma solo prevaricazione. L’unica moneta di scambio è il bullismo, che sia istituzionale, da lotta nel fango, o da accademia. Abbiamo perso ed è ora di ammetterlo. Forse ha ragione Alexandria Ocasio-Cortez a staccarsi da Facebook perché è ormai un ambiente tossico e invivibile. Sicuramente la deriva della facebookizzazione della realtà, o peggio, della sua instagrammizzazione in cui tutto il mondo è diventato la sua fotografia — o il suo screenshot — ha cambiato una volta per tutte il nostro modo di pensare e di essere. Forse dovremmo rimettere le cose nella giusta prospettiva, perché qui non sta andando per niente bene.

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