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Finisce
in farsa l’avventura del governo gialloverde. Martedì scorso, il presidente del
consiglio Giuseppe Conte, dopo un lungo discorso al senato costellato di
attacchi al suo vice leghista Matteo Salvini, si è ufficialmente dimesso,
mentre la Lega ritirava la mozione di sfiducia presentata la settimana
precedente, dichiarandosi disposta a continuare l’esperienza di governo. Un
gioco del cerino oltre i limiti dell’imbarazzo, con cui Movimento Cinque Stelle
e Lega hanno provato fino all’ultimo a scaricare l’uno sull’altra le
responsabilità della fine del governo. Ma l’esperienza gialloverde è finita, a
meno di clamorose sorprese, e il M5S sta negoziando col Pd la formazione di un
esecutivo alternativo. Una mossa pragmatica e inaspettata, che sembra aver colto
di sorpresa lo stesso Salvini, convinto di poter disporre a proprio piacimento
dell’agenda elettorale.
Si appanna, quindi, il mito
del Salvini infallibile e invincibile sapientemente costruito dalla macchina
mediatica leghista e colpevolmente alimentato dai media mainstream nel corso
degli anni: il “Capitano”, stavolta, rischia seriamente di perdere e di passare
all’opposizione. Anche se accadesse, Salvini resterebbe comunque al centro
dello spazio politico, oggi più che mai diviso tra salviniani e antisalviniani,
come ai tempi del suo padre politico Silvio Berlusconi. Il fronte anti-Salvini
esce da questa settimana di crisi con un nuovo, bizzarro, eroe: Giuseppe Conte,
che un semplice discorso di sobrietà istituzionale ha portato a vette di
popolarità inaspettate e sinceramente immeritate. Il popolo delle maratone di
Mentana segue ormai la politica come un teatrino bipolare, mentre un M5S sempre
più camaleontico si veste di centrismo responsabile e poi sfida il Pd a
sinistra, cercando di occupare il più possibile lo spazio dell’antisalvinismo.
Ma quale alternativa si
prospetta al liberismo nazionalista di Salvini? M5S e Pd sono tentati da una
soluzione tutta istituzionale e moderatissima, ma una spinta diversa può venire
dal basso. Il prossimo governo, se ci sarà, di sicuro non sarà il nostro, ma
potrebbe essere un’occasione interessante per sindacato e movimenti, se
sapranno costruire nelle piazze un’agenda alternativa che non si accontenti
della normalità istituzionale anti-salviniana e contenda alla destra il
consenso popolare.
Salvini e il liberismo
autoritario
A determinare la crisi è
stata l’accelerazione imposta da Salvini al conflitto strisciante tra Lega e
Movimento Cinque Stelle in atto già dalle europee. Paradossalmente, il casus
belli della rottura tra Salvini e il presidente del consiglio Conte è stato il
voto parlamentare sulla Tav, che vedeva Conte e Salvini dalla stessa parte
della barricata, la stessa, del resto, sostenuta dalle istituzioni europee,
contro il Movimento Cinque Stelle. Lega e M5S si sono scambiati più volte le
parti in commedia, alternandosi nel mostrare il volto rassicurante ed europeista
e quello aggressivo e sovranista di questo governo. La rottura più forte, però,
è avvenuta sul voto del Parlamento Europeo alla nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen: nel nuovo
bipolarismo europeo modellato sullo schema Macron vs. Le Pen, tecnocrazia
liberale contro destra reazionaria, il M5S e soprattutto Conte si sono
schierati da una parte e Salvini dall’altra. Difficile pensare che il voto
grillino, decisivo per la nomina della Commissione, sia avvenuto senza precise
assicurazioni sul coinvolgimento italiano nelle scelte dei prossimi mesi, dal
rilancio del Quantitative Easing da parte della Bce alla proposta di riforma
del Trattato di Dublino sull’asilo politico. Di certo, Salvini si è sentito
tagliato fuori da quella partita, pur essendo lui il vincitore delle elezioni
europee.
Può mr. 34% (cifra che si
avvicina al 50% con gli alleati Berlusconi e Meloni) non avere voce in capitolo
sulle alleanze europee del governo che, di fatto, sente di avere titolo a
guidare? Poteva davvero Salvini continuare a recitare un ruolo da comprimario,
per quanto di lusso, nel governo Conte? Arrivati a questo punto, sarebbe stato
davvero difficile. Il suo progetto di liberismo
nazionalista si è raffinato e consolidato, rappresenta
un’avanguardia nella destra europea, e sta modellando su se stesso la politica
italiana. La figura del segretario della Lega è diventata talmente pesante che
il sistema ha iniziato a gravitare intorno a essa, dividendo il campo politico
tra salviniani o antisalviniani. Fortissima, a quel punto, la tentazione di
passare all’incasso. Di diventare direttamente presidente del consiglio e andare
direttamente, senza la mediazione di Conte e Tria, a negoziare con l’Ue.
È rarissimo, nella storia
politica italiana, il caso di un governo che viene fatto cadere dalla forza più
radicale e connotata e non da quella più moderata e ambigua: normalmente, è chi
ha a disposizione un secondo forno, come in questo caso il M5S, ad avere il
coltello dalla parte del manico. La scommessa di Salvini era che quel forno
fosse impossibile da aprire, che M5S e Pd sarebbero stato troppo prigionieri
dei propri limiti per fare la scelta pragmatica dell’alleanza. Per ora, sembra
aver avuto torto: sorprendendo molti, Pd e M5S stanno seriamente lavorando a un
accordo di governo.
Se così dovesse andare
(scenario al momento tutt’altro che certo), la figura di Salvini ne uscirebbe
ovviamente indebolita. La mossa del “Capitano” che nella smania di prendersi
tutto il governo si manda all’opposizione da solo resterebbe negli annali
dell’autolesionismo politico. E già ora, l’immagine del ministro dell’interno
costretto a restare per 45 minuti immobile e seduto ad ascoltare, borbottando e
rosicando, il discorso di Conte che lo redarguisce come un bambino un po’
discolo, non può far bene alla mascolinità ipertrofica di Salvini. Il mito
della sua invincibilità si è basato per lungo tempo sull’inettitudine altrui: è
bastato che i Cinque Stelle battessero un colpo e che il Pd per una volta non
si facesse trovare del tutto impreparato, per apparecchiare la prima vera
sconfitta del leader leghista.
Ma Salvini e il salvinismo
sono tutt’altro che morti. Chi in queste ore scommette sulla notte dei lunghi
coltelli dentro la Lega e sulla rivolta dei colonnelli contro di lui si sbaglia
di grosso. Salvini resta l’autore del miracolo che ha portato un partito
territoriale devastato dallo scandalo di Bossi a diventare la prima forza
politica nazionale: né Zaia né Giorgetti né Fontana sarebbero mai in grado di
prendere i milioni di voti che Salvini ha preso in Calabria, Campania, Puglia,
Sicilia.
E Salvini, oltretutto, ha una
cosa che nessun altro ha, oggi, in Italia: un progetto politico. Il liberismo
nazionalista di cui parlavaSalvatore Cannavò la settimana
scorsa, quella specie di fusione tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin di cui
Viktor Orbán è stato antesignano, è vivo e vegeto. Chiusura dei confini e flat
tax, scontro col resto d’Europa e privatizzazioni, stato minimo in economia e
braccio violento della legge con migranti e manifestanti. La versione nazionalista
e popolaresca della stessa fusione tra liberismo in economia e autoritarismo di
polizia che Emmanuel Macron sta mettendo in atto, in versione tecnocratica e
incravattata, in Francia.
Salvini e la sua destra
restano di gran lunga la più popolare tra le forze politiche in campo, e si
giocheranno con i favori del pronostico le prossime elezioni, a meno di
cataclismi. Il governo M5S-Pd, se nascerà, avrà di fronte un’opposizione feroce
e con gli occhi iniettati di sangue, pronta a occupare ogni spazio mediatico e
ad appropriarsi di ogni possibile tema di consenso. La sfida, se non si andrà a
votare in autunno, sarà solo rimandata. Il liberismo nazionalista di Salvini è,
oggi, l’unica vera proposta politica in campo in Italia. Non è egemone e
universale come spesso si dice, ma c’è, ed è l’unica. E non si sgonfierà da
sola.
Da Beppe Grillo a Giuseppe
Conte: il M5S nella palude
A uscire massacrato
dall’esperienza del governo gialloverde è il Movimento Cinque Stelle,
completamente schiacciato su Salvini per un anno e mezzo e ora frastornato e
diviso sulla reazione con cui affrontare l’attacco dell’ex alleato. I segnali
sono quelli del caos: da una parte Conte che in parlamento attacca per 45
minuti consecutivi Salvini, e viene poi osannato per giorni dall’intero apparato
grillino, dall’altra Di Battista che, a dieci giorni dallo scoppio della crisi,
ancora lancia messaggi di distensione alla Lega. L’impressione è che la
leadership di Di Maio non sia mai stata tanto debole, tanto che per lanciare
l’idea di un dialogo col Pd è dovuto tornare in campo il fondatore e garante
Beppe Grillo, da lungo tempo in silenzio.
Niente è ancora deciso, e non
stupirebbe se nei prossimi giorni Di Maio tornasse a dialogare con la Lega.
Però alcuni passaggi fondamentali di questi mesi, primo fra tutti il già citato
voto per la Commissione Europea, segnalano la graduale integrazione del
Movimento Cinque Stelle nel campo del centrosinistra liberal-europeista. Il
discorso di Conte in parlamento sembrava un annuncio programmatico e sapeva di
ricandidatura, snocciolando temi, dall’equilibrio di bilancio alla transizione
ecologica, poco distinguibili da quelli del Pd. Di fatto, se la politica
italiana si ricostruisce sulla divisione tra Salvini e anti-Salvini, Conte si è
candidato alla leadership del secondo campo, tentando la nuova edizione
dell’esperimento “leader centrista serio e responsabile in difesa delle
istituzioni contro i barbari populisti”, amatissimo dai media e che in passato
è quasi sempre sfociato nel tracollo elettorale, da Lamberto Dini a Carlo
Calenda passando per Gianfranco Fini e Mario Monti.
La traiettoria del presidente
del consiglio, che nato come prestanome è finito per diventare il massimo
rappresentante del M5S e per determinarne le scelte di fondo (come appunto
quella sulla Commissione Europea) segnala ancora una volta la centralità che la
figura del capo dell’esecutivo ha assunto nel nostro sistema politico. L’idea
di un “premier-notaio” è incompatibile con la realtà della politica italiana di
oggi, in cui il presidente del consiglio è di fatto il leader politico del
paese. Una lezione che M5S e Pd farebbero bene a tenere a mente, nella
costruzione dell’ipotesi di governo a cui stanno lavorando.
L’alternativa che non c’è
Mentre Conte in parlamento
mostrava la faccia centrista e responsabile del M5S e Di Battista ammiccava a
Salvini, Di Maio annunciava 10 punti per il prossimo governo che sfidavano il
Pd a sinistra: salario minimo, cuneo fiscale, rinnovabili, beni comuni. Sembra
di essere tornati al post-elezioni 2013, quando il M5S incalzava il
centrosinistra sui temi sociali, invece di allinearsi alla destra su sicurezza
e immigrazione.
Mosse tutte tattiche,
prodotte da un partito sempre più camaleontico e frammentato, e rivolte a un
Partito Democratico a sua volta diviso e confuso. A spingere il M5S tra le
braccia di Zingaretti e Renzi, sarebbe ingenuo non dirlo, è prima di tutto la
paura di nuove elezioni. Il prezzo pagato alle europee per l’esperienza del
governo Conte è stato salatissimo, e buona parte della truppa grillina, in caso
di voto anticipato, rischierebbe di cedere il seggio a leghisti e, in qualche
caso, piddini. Un governo raffazzonato, costruito sulla paura e segnato da una
conflittualità altissima sia tra le forze politiche sia al loro interno,
difficilmente durerebbe più di pochi mesi. Non è un caso che il segretario del
Pd Zingaretti, tra le condizioni per un accordo, abbia messo il riavvio del
percorso di revisione costituzionale per il taglio dei parlamentari:
storicamente non c’è assicurazione sulla vita migliore, per un governo, che un
processo di riforma della Costituzione, di durata almeno biennale, che impegna
gli attori a restare della partita fino alla fine.
Ma non ci sono solo paura e
convenienza a spingere il M5S verso il Pd. C’è anche la constatazione della
ristrutturazione politica di cui sopra: se si è solidificata una nuova destra
salviniana che punta alla maggioranza assoluta, è solo naturale che si provi a
formare un campo ad essa alternativo, con le stesse ambizioni maggioritarie e
di governo. Chiunque abbia guardato i numeri delle europee con un minimo di
onestà intellettuale non può non aver visto che M5S e Pd non hanno alternativa
al dialogo tra loro, se hanno l’ambizione di governare l’Italia. La sfida è
quella di un’alternativa al liberismo nazionalista di Salvini.
Quale alternativa? Se lo
schema è quello dell’elezione della Commissione Europea, è presto detto: la
tecnocrazia liberale, il riferimento italiano di Ursula von der Leyen e
dell’asse Merkel-Macron che l’ha proposta. Non è un caso che Romano Prodi abbia
parlato di “maggioranza Ursula”, proponendo di includervi anche Forza Italia.
Berlusconi, chiaramente, è abbastanza intelligente da sapere che per il bene di
questo governo non è il caso che lui vi si avvicini, ma il tema politico non
cambia, e lo si vede riflesso in molti dei nomi che girano come candidati alla
presidenza del consiglio, dalla giurista cattolica Marta Cartabia all’ex
ministra di Monti Paola Severino: un governo di tenuta istituzionale e di
garanzia verso le istituzioni europee, costruito sull’antisalvinismo e
sull’ortodossia di bilancio.
Se sarà questa la scelta,
l’eventuale governo M5S-Pd sarebbe sicuramente migliore del precedente in
termini di tenuta democratica e difesa delle norme basilari della civiltà e dell’umanità,
cosa da non sottovalutare di questi tempi, ma di certo non segnerebbe alcuno
scarto politico e, cosa ben più grave, rischierebbe di portare ancora più acqua
al mulino del consenso salviniano.
Non è detto, chiaramente, che
sia così, e il pallino ce l’hanno le istituzioni europee. Se a un eventuale
governo M5S-Pd fosse concessa una certa flessibilità di bilancio e la riforma
del Trattato di Dublino, ad esempio, già lo schema cambierebbe: di certo non
vedremmo le politiche espansive di cui l’economia e la società italiana hanno
bisogno, ma il governo potrebbe occuparsi, invece di concentrarsi sulle
clausole di aumento dell’Iva, di cosette come la stabilizzazione dei precari
della scuola, l’aumento dei salari attraverso la leva fiscale e quella contrattuale
(più difficile che si trovi un accordo sul salario minimo) e un primo piano di
investimenti su infrastrutture e transizione ecologica. Un governo che potesse
muoversi in questa direzione, pur nei limiti ristretti delle norme Ue, sarebbe
un governo che potrebbe puntare a erodere il consenso della destra, o
quantomeno a contendersi con essa l’egemonia sulla società italiana.
In tutto ciò, il ruolo della
sinistra parlamentare appare marginale, vista la sua esigua rappresentanza
(anche se paradossalmente potrebbe essere decisiva per la fiducia), ma una
parte importante la potrebbe giocare il conflitto sociale. La sociologia dei
movimenti sociali tende a considerare come situazione ideale per l’azione
collettiva un contesto in cui le opportunità politiche sono aperte, cioè c’è un
governo dialogante, e tale governo è diviso al suo interno, dando quindi la
possibilità ai movimenti di giocare sulle contraddizioni tra le diverse parti.
Un governo M5S-Pd, in cui i due partiti sono in competizione costante per il
consenso, potrebbe fornire a sindacato e movimenti un’insperata occasione di
protagonismo. Del resto, se una nuova scadenza elettorale porterebbe
inevitabilmente a schiacciare ogni alternativa sull’antisalvinismo, chiudendo
lo spazio per ogni proposta davvero alternativa allo schema dell’austerità e
del neoliberismo, un governo “giallorosa” (non ce la facciamo davvero a
considerare “rosso” il Pd) rimetterebbe al centro del dibattito il
centrosinistra liberal-progressista con le sue ambiguità e le sue contraddizioni,
su cui sinistra e movimenti potrebbero aver modo di agire. Il governo che
nascerà potrà essere tante cose, dal “governo di Ursula” evocato da Prodi al
“governo di svolta” di cui parla Zingaretti, passando per le mille sfumature
intermedie. Non sarà, in ogni caso, il nostro governo, e sarebbe bizzarro
pensare che lo possa essere, rappresentando un parlamento in cui la sinistra è
assolutamente marginale e nascendo dal compromesso tra due forze politiche
sostanzialmente liberali. Ciò non significa che il destino degli uomini e delle
donne di sinistra sia di ridursi a spettatori compulsivi delle maratone di
Mentana, godendo dell’evolversi della narrazione tra un colpo di scena e
l’altro, senza alcuna possibilità di incidere su ciò che accade. Per forzare la
logica del “There is no alternative” e del bipolarismo tra liberismo
tecnocratico e liberismo nazionalista, l’unica strada è quella dell’azione
collettiva. Senza illusioni di impatto immediato su un governo che avrà
un’agenda propria, ma anche senza timori nel provare a rovesciarla. Se c’è uno
spazio di possibilità da aprire scardinando questo bipolarismo opprimente, sarà
la partecipazione collettiva a costruirlo.
Lo sciopero del clima di fine
settembre, lo sciopero generale che continua ad aleggiare, e le altre date di
mobilitazione di un autunno che si annuncia caldo come non capitava da un po’,
potrebbero essere le chiavi con cui interpretare la fase politica che si apre,
costruendo nelle piazze un’agenda di alternativa che non si schiacci sulla
semplice tenuta istituzionale garantita dall’eventuale governo e che non lasci
alla destra di Salvini l’esclusiva sullo scontento sociale. Emergenza
climatica, questione salariale, diritti: far irrompere la dura realtà sul
teatrino della politica è l’unico modo per non cadere dalla padella
liberal-sovranista nella brace liberal-tecnocratica.
* Lorenzo Zamponi, ricercatore in
sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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