da https://jacobinitalia.it/quelli-senza-biglietto-genesi-del-razzismo-ferroviario/?fbclid=IwAR02rKAToRTbmHR3AjHPAJiHRYA76PDdtA0FRPMz_tcq3RI8W03UrJSW9nU
La frase suona più o meno così: «io
non sono razzista, sono loro che non pagano il biglietto».
Argomento, pur nella sua banalità, penetrante. Al punto che i benpensanti di
sinistra, quando qualcuno la pronuncia, vanno in confusione. Balbettano
sciocchezze dal sapore coloniale, quali: «Eh, già, ma noi dovremmo dare il buon esempio,
e invece…». Oppure si irrigidiscono e scandiscono: «Ci vogliono più controlli!
Tutti devono essere multati, senza distinzione di colore. Questo è il principio
base dell’eguaglianza: uguali diritti, uguali doveri!».
Quante volte mi è toccato sentire
simili miserie – e parlo tanto dell’affermazione quanto delle risposte
automatiche che genera. Assai di rado invece viene pronunciata la semplice
verità: a chi non ha soldi né sicurezze anche pochi euro per qualche fermata di
treno locale aggravano il bilancio personale e familiare, e dunque da un punto
di vista morale è pienamente legittimo il tentativo di evitarne il pagamento.
C’è un lungo lavoro dietro la
scomparsa di questa semplice verità. Provo, qui di seguito, a ricapitolarne i
passaggi, spesso costituiti da fattarelli apparentemente di poco conto, come
sono le prassi di bigliettazione e di verifica dei titoli di viaggio. Perché è
tra le pieghe inosservate di quelle prassi che si sono educate le persone al
nuovo razzismo classista.
Il momento inaugurale di questo
processo è da collocarsi a New York nel 1990, quando Bill Bratton diventa
commissario capo della polizia della metropolitana, il New York
Transit Police Department. Bratton è generoso di ricordi, e racconta così quel
periodo cruciale:
«Graffiti, auto
bruciate e rifiuti sembravano essere dappertutto […]. Non appena entravi a
Manhattan, incontravi […] la piaga dei lavavetri. […] Procedendo lungo la
Quinta strada, tra negozi di stilisti ed edifici famosi, c’erano ovunque
venditori abusivi e mendicanti. Poi giù nella metropolitana dove ogni giorno
più di duecentomila persone evadevano il biglietto, saltando i tornelli o
passandovi sotto […]. I mendicanti erano su ogni treno. Ogni marciapiede
sembrava ospitare una città di cartone dove i senzacasa avevano preso la
residenza. Era una città che aveva smesso di prendersi cura di sé stessa.»
La «cura di sé stessa», nel senso
moralistico in cui la intende Bratton, non c’entra proprio nulla: New York è
una città devastata dai tagli al welfare e ai servizi pubblici (metropolitana
inclusa) operati in seguito alla crisi del 1975. David Harvey definisce le
pretese dei creditori, che avevano condotto ai tagli, quasi un «colpo di stato
da parte delle istituzioni finanziarie contro il governo democraticamente
eletto della città», che aveva preparato «la strada alle pratiche neoliberiste,
sia a livello nazionale, sotto Reagan, sia a livello internazionale attraverso
l’Fmi negli anni Ottanta».
È in questa città sofferente che
Bill Bratton decide di applicare la Broken Windows Theory, l’aberrante teoria formulata nel 1982 da
George L. Kelling e James Q. Wilson, che si sostanzia nella smisurata
persecuzione dei piccolissimi illeciti e persino dei semplici «comportamenti
disordinati», ovvero della vita di strada delle classi svantaggiate.
Nella subway il commissario Bratton declina cosìquella
teoria:
«Non avremmo ignorato
le piccole cose. L’evasione del biglietto e il graffitismo non sarebbero più
stati considerati troppo insignificanti per meritare la nostra attenzione. In
effetti ci saremmo concentrati su di essi con tanta energia quanto sui crimini
gravi come i furti, se non di più».
Concentrarsi sull’evasione del
biglietto come e più che sui reati gravi: è allora che questo pensiero
demenziale diventa dicibile. Quattro anni dopo, quando il nuovo sindaco Rudy
Giuliani nomina Bratton a capo dell’intero dipartimento di polizia, lo stesso
catechismo dell’oppressione diventa la Zero
Tolerance, il cui
nome ufficiale, non a caso, è proprio Broken
Windows Policing.
Nel corso degli anni Novanta le
finestre rotte sbarcano in Europa: si acclimatano a Londra e di lì,
attraversando la Manica, appestano l’intero continente. Loïc Wacquant, in Parola
d’ordine: tolleranza zero (Feltrinelli, 2000) racconta con stile caustico gli intrecci di
ambizioni politiche, finanziamenti di think tank neoconservatori e pavido
conformismo accademico che sospingono il triste corteo securitario da questa
parte dell’oceano. E, ciò che è più importante, mostra come l’avanzata dello
stato penale non sia affatto una risposta al crimine, come pretendono i suoi fautori, ma
semplicemente l’altra faccia della dismissione dello stato sociale. A questa
dismissione partecipano con entusiasmo i partiti socialisti europei, e in
Italia quello ex comunista. Il trasporto pubblico si presta perfettamente a
questa coreografia: tre passi indietro per il welfare, pirouette securitaria, feroce balzo in
avanti neoliberale.
Fare paura con la sicurezza
Nel 1994 la regione Emilia Romagna
istituisce il progetto di ricerca Città Sicure e lo affida a Massimo
Pavarini, stimato criminologo di sinistra. Ho raccontato altrove le
contraddizioni del gruppo di studiosi raccolto attorno a Pavarini, e qui mi
accontento di riportare una sintetica ammissione di Tamar Pitch, che
ne fece parte: «siamo stati apprendisti stregoni». Che significa: abbiamo
evocato, da sinistra, forze che la destra avrebbe ben presto utilizzato a
proprio vantaggio. Prima tra tutte la paura irrazionale generata dalla voluta
confusione, in stile finestre rotte, dei crimini violenti con il «disordine» e i piccoli
illeciti (tra i quali troverà posto anche il mancato pagamento del biglietto).
E, in secondo luogo, l’allarme creato dallo stesso articolare ossessivamente il
discorso pubblico attorno ai temi della sicurezza. Questo farsi monotematico,
ovviamente, servirà a togliere il welfare dal centro del discorso.
Giova un esempio di questo duplice,
infelice, incantesimo. Lo troviamo in Sicurezza
personale e prevenzione del conflitto nel trasporto ferroviario di Elena Zaccherini, una
ricerca del 1999 sostenuta da Regione, comune di Bologna, Fs e pubblicata
da Città Sicure nel suo Quaderno n. 25 Al
centro della ricerca c’è la somministrazione di un questionario il cui scopo è
indagare la paura del crimine, le esperienze di vittimizzazione eccetera. Il
questionario, un quadernetto che viene consegnato dal controllore ai
viaggiatori, ha il titolo di Un treno di tranquillità: sicurezza
personale nel trasporto ferroviario, e reca sul risvolto di copertina le seguenti
indicazioni:
«Per sicurezza
personale nell’ambito del trasporto ferroviario si intendono tutte quelle
eventuali situazioni e condizioni ambientali degradate, nonché tutti quei
fenomeni (quali furti, borseggi, attenzioni indesiderate, molestie o violenze)
che possono accadere o si teme che accadano, sui treni, nelle stazioni o nelle
loro prossimità, e che sono fonte di disagio […]. Stiamo cercando di migliorare
questo aspetto del trasporto ferroviario. Per questo La preghiamo di compilare
attentamente il questionario e di restituirlo al personale FS».
L’autrice del saggio insiste molto
sul clima di paura che si respira in quel periodo, sullo «spettacolo fortemente
mediatizzato» della criminalità, che conduce a un «sovradimensionamento dei
fenomeni» e alimenta «le ansietà dei cittadini». Curiosamente, però, le sfugge
quanto sia ansiogeno – per come è impostato e premasticato – quel suo stesso quadernetto
di domande che suggerisce, fin dal testo introduttivo, una sorta di equivalenza
tra le cose brutte che accadono e le cose che semplicemente si teme possano
accadere.
Nonostante la premasticazione, però,
il presunto allarme sicurezza è solo al terzo posto delle
preoccupazioni espresse da chi compila il questionario, ben dopo la richiesta
di puntualità dei treni e richiesta e quella di prezzi calmierati. In effetti
ho già riscontrato altrove questa resistenza al discorso securitario da parte
dei ceti popolari di allora, resistenza che gli approcci come quello di Città Sicuresembrano avere proprio la funzione
di fiaccare – non mi interessa qui soppesare quanto intenzionalmente. Infatti
Zaccherini, immersa nel frame securitario, non si dà per
vinta dai risultati del questionario, e suggerisce che anche il nervosismo per
un ritardo ferroviario abbia a che fare con la sicurezza:
«non bisogna
sottovalutare l’impatto in termini di sicurezza personale che possono avere i
tempi di attesa o gli imprevisti cui può dar luogo questo disservizio: attese
impreviste, impossibilità di programmare con certezza i propri movimenti e
tempi morti del viaggio sono fattori di grande ansia […]».
Nel testo sono poi assunti in modo
pedissequo diversi luoghi comuni delle finestre
rotte (le
richieste di elemosina e i graffiti sono per esempio considerati fonti di
insicurezza percepita), e l’immigrazione come fenomeno in sé viene associata
ripetutamente e direttamente a fatti negativi («droga, criminalità e
immigrazione» pag. 78; «esclusione, disoccupazione, immigrazione e insicurezza»
pag. 23). D’altra parte, però, non c’è nel saggio di Zaccherini alcun tentativo
di associare la mancanza del titolo di viaggio all’insicurezza: per arrivarci
bisognerà aspettare ancora un poco.
Gli utenti diventano clienti
Parallelo al securitarismo corre
l’altro binario della controrivoluzione neoliberale, ovvero la trasformazione
dei servizi pubblici di trasporto in un nuovo segmento di mercato. Dal 1997 in
poi si susseguono gli interventi legislativi nazionali e comunitari con cui si
introducono elementi aziendalistici come il contratto di
servizio e si
impone la trasformazione dei consorzi municipali di trasporto in società di
diritto privato. Deroghe temporali e inerzie renderanno il processo graduale,
facendolo passare sotto la soglia di attenzione degli utenti – che da un certo
punto si sentiranno chiamare clienti – , ma il virus del mercato è
penetrato e agisce sottopelle.
È quasi difficile dire a quali di
questi due binari – quello securitario o quello aziendalistico – appartengano
una serie di provvedimenti assunti da Fs a partire dagli anni Novanta. Sono, in
parte, surrogati di aumenti tariffari;
ma al contempo plasmano una nuova relazione tra controllore e viaggiatore. Il
primo, infatti, non si limita più a verificare i biglietti ed emetterne a chi è
senza, ma dal 1995 applica
una maggiorazione significativa alla tariffa, di fatto una multa, per
l’emissione a bordo. Essere senza biglietto non è quindi più semplicemente una
situazione da sanare quando passa il controllore, ma diventa un’infrazione da
sanzionare.
Negli stessi anni continua il taglio delle linee e
degli sportelli di biglietteria nelle stazioni secondarie (si può leggere qui un
dibattito valdostano a questo proposito, ma il fenomeno è generalizzato).
Mettendo in relazione questi processi è chiaro come ogni nuova, punitiva, norma
sulla bigliettazione sia pensata per compensare tagli di personale e di
presenza territoriale: dall’obbligo di vidimare il viaggio di ritorno
introdotto nel 1991, alla maggiorazione per l’emissione a bordo del 1995,
all’obliterazione generalizzata del 2004, fino
alla vessatoria introduzione del biglietto a data fissa per i treni
regionali del 2016.
Ogni passo indietro delle società di
trasporto pubblico viene riequilibrato, per così dire, dalla loro capacità di
imporre una prestazione al viaggiatore, che dovrà procurarsi il biglietto da
solo, o farlo alla macchinetta, sempre che funzioni; poi obliterarlo, oppure
gettarlo inutilizzato e inutilizzabile quando si cambia programma di viaggio (a
chi non è mai successo?); più di recente viene spinto a farlo sul proprio device mobile, sgravando Fs di ogni
costo di struttura (salvo la semplice manutenzione del software). Quando uno
qualsiasi di questi complessi passaggi non funziona, spetterà comunque
all’utente pagare il sovrapprezzo per il biglietto emesso a bordo. Tutto
questo, si faccia attenzione, ha la funzione di ridurre i costi in un’ottica
neoliberale di profitto aziendale (che tocca il massimo storico nel
2017), ma viene sistematicamente spacciato come un disagio che l’azienda si
vede costretta a imporre al bravo utente, a causa dei furbetti che non pagano il
biglietto.
Foto segnaletiche
Fer, società privata interamente di
proprietà della regione Emilia Romagna, lancia nel 2011 un’aggressiva campagna
contro il mancato pagamento del biglietto. I tempi sono ormai maturi per la
criminalizzazione, e Fer lo fa senza pudore: le immagini scelte per la
campagna, affisse nelle stazioni e sulle fiancate dei treni, sono foto
segnaletiche, come se gli evasori del biglietto fossero stati appena tratti in
arresto. Tra le mani hanno un cartello che,
in luogo della matricola penitenziaria, reca la scritta: «SENZA
BIGLIETTO». In perfetto
stile finestre rotte e tolleranza zero, quindi, un illecito di
trascurabile importanza viene associato, grazie al marketing dell’odio e della
paura, a reati che prevedono la privazione della libertà personale.
Nella stessa precisa occasione
diviene esplicito come questa trasformazione investa i lavoratori del servizio
ferroviario. Essi vanno disciplinati, piegandone l’autonomia (e di conseguenza
l’umanità). Viene a perdersi, così e in un colpo solo, non solo la specificità di piccolo illecito del
mancato pagamento del biglietto, ma persino la particolarità professionale del funzionario
incaricato ad accertarlo, che viene costretto ad agire non più in base
all’esperienza e al senso della misura, ma come rigido esecutore di una norma:
«Da lunedì 23 maggio
[2011] chi viaggerà sui treni della Fer (Ferrovie Emilia-Romagna) senza
biglietto, o con tagliando non convalidato, sarà multato con una sanzione di 48
euro. Una prassi prevista da norme e regolamenti, ma che negli ultimi anni non
era stata applicata dai controllori, che di fatto staccavano ai “portoghesi”
solo il biglietto con una maggiorazione di 5 euro».
Lasciamo perdere (ma è poi giusto
lasciar perdere?), la definizione idiota e razzista di «portoghesi» data da un sito istituzionale,
e notiamo come neoliberismo e securitarismo operino nel cancellare i già
modesti spazi di autodeterminazione dei lavoratori. I decisori impongono
un’implacabile tolleranza zero; intimano ai controllori di eseguirla pedissequamente
e passo dopo passo producono quel clima di scontro sui mezzi pubblici che i
securitari e i fascisti oggi chiamano (ovviamente senza alcun senso delle
proporzioni), «guerra civile».
Terroristi senza biglietto
Una volta iniziata, la guerra va
combattuta. Tutta la retorica che accompagna la creazione di gate che impediscono l’accesso a
binari a chi è privo del biglietto trasuda eccitazione bellicista (ne ho
parlato qui). Poiché a
Roma e Milano i gate vengono installati durante il periodo dei più sanguinari
attentati di Daesh in Europa, non si esita a tirare in ballo il terrorismo,
come se un kamikaze non potesse comprarsi un biglietto del regionale per poi
farsi esplodere oltre i gate o, ancora più comodamente, in
mezzo alla coda causata da quelle stesse barriere. A Bologna i gate invece sono invocati da
un articolo del Corriere di
Bologna che è
una vera e propria chiamata alle armi contro poveri e marginali; ci pensa
però l’assessore Alberto Aitini, uomo di estrema destra del Pd cittadino,
a riproporli«in
un’ottica primariamente di antiterrorismo». Come è evidente, questi
provvedimenti sono parte della trasformazione delle stazioni in centri
commerciali che cancellino la vista della sofferenza sociale, ma ciò che qui ci
interessa è il nesso emotivo che determinano in chi è esposto alla propaganda
securitaria. Questo nesso è: se il controllo del biglietto contrasta i crimini
e persino il terrorismo, chi è senza biglietto ha certamente qualcosa a che
fare con criminali e terroristi.
Il clima alimentato con tanta
sapienza comunicativa (da destra, da sinistra, dal mondo aziendale e dal
giornalismo mainstream) è oggi così pervasivo che una parte significativa
del personale viaggiante e degli utenti vi si identifica; e reciprocamente
sui social i fascisti e i securitari fanno il tifo per i
campioni della tolleranza zeroferroviaria. Gli esempi di questa deriva sono
tantissimi. Ne ricordo alcuni: la capotreno che dall’interfono aggredisce verbalmente gli
«zingari»; quello, sempre di Trenord, che si è finto accoltellato per
dare la colpa a un migrante, e infine la capotreno che fa scendere un gruppo di
neri perché trovati senza biglietto, diventando protagonista di un video
virale.
Tutto in quel video è orrore. Lo è
il fatto stesso che sia stato girato, usando lo smartphone come gogna verso
adulti e anche un bambino (neppure pixelato, cosa che se fosse stata fatta a un
bambino bianco avrebbe scatenato il finimondo), per essere poi diffuso dal ministro degli
interni:
«Onore a questa
capotreno che, in Sardegna, fa scendere un gruppo di scrocconi! Il clima è
cambiato, #tolleranzazero con i
furbetti, anche con un uso massiccio delle Forze dell’ordine. Se vuoi
viaggiare, PAGHI come tutti i cittadini italiani perbene!».
Parte dell’orrore è ovviamente anche
in quello che dice la
capotreno, che è esattamente ciò che ci si può aspettare da una persona che,
più tardi, indirizzerà sorrisi e cuoricini a
Salvini. In mezzo alle sue parole, però, ce ne sono un paio che dimostrano
ancora una volta come alla radice dell’orrore ci siano neoliberismo e
privatizzazione: sono il suo richiamo a una fantomatica «equità commerciale»
come criterio inderogabile del proprio agire. Il trasporto collettivo è quindi
commercio, è affare aziendale; il che, oltre a essere assurdo – la mobilità
delle persone dovrebbe essere questione altamente e nobilmente pubblica – è
pure falso. La linea tra Iglesias e Cagliari infatti, su cui si svolge la
triste scenetta, è percorsa solo da treni regionali, che insieme agli altri che
attraversano l’isola sono sovvenzionati dallo stato e dalla regione con decine
di milioni di euro l’anno (43 milioni per il 2017, ultimo dato disponibile).
Gestione «commerciale» quindi, ma con soldi pubblici.
L’odio fa bibip
Altro esempio delle radici
neoliberali del razzismo sui mezzi collettivi è quello che segue. Diverse
aziende di trasporto pubblico hanno introdotto (fin qui sui bus, ma si sta
preparando l’applicazione sui treni locali) l’obbligo di passare la tessera di abbonato con
microchip e Rfid (smart card) a ogni ingresso sui mezzi. Ovvero il
titolare d’abbonamento, oltre a pagare in anticipo un’annualità di viaggi, per
essere in regola deve anche aggiungervi una prestazione, quella di avvicinare
la card alla validatrice elettronica. Detta così pare
una sciocchezza, ma negli autobus strapieni, o se si hanno borse, o se si è una
persona anziana, fragile o con scarso equilibrio il bippare, come lo chiama il marketing minacciosimpatico delle aziende di trasporto,
diventa problematico e ansiogeno. Per non parlare dell’aumento esponenziale
della possibilità di perdere l’abbonamento, dovendolo estrarre continuamente (e
la sostituzione è un altro costo – di tempo e denaro – che grava sull’utente).
La pretesa vessatoria del bippare ha essenzialmente tre
funzioni. La prima è quella di generare un flusso di dati sugli spostamenti.
Questi dati sono utili ai gestori per ottimizzare il servizio (leggasi: tagliare
corse), ma soprattutto valgono oro nel mercato dei big data sugli spostamenti urbani, e
quindi generano ulteriore profitto all’azienda privatizzata. Profitto pagato
dai viaggiatori con qualche caduta e molte contorsioni per bippare ed evitare una sanzione (sanzione per mancata validazione che,
si osservi bene, colpisce soggetti in regola con il pagamento del biglietto).
La seconda funzione del bippare è quella più sbandierata,
perché, a differenza della prima, può raccogliere più consenso. Si tratta,
guarda un po’, della promessa di ridurre l’evasione. A prima vista non è chiaro
come questo avvenga. Alla domanda «perché devo farlo?» la regione
Piemonte risponde:
«perché è un piccolo gesto che ci aiuterà a migliorare il trasporto pubblico e
a contrastare l’evasione!», ovvero risponde con un assioma, mancando di
rispetto all’intelligenza dell’utente. Tper, l’azienda bolognese erede di Fer e
di diverse ex-municipalizzate, non è da meno. Con scadenti campagne di marketing dichiara
questa corvée un sistema «valido contro l’evasione», ma anche
qui non c’è spiegazione, bisogna fidarsi di formulette magiche infantili come «Bibip!
Convalida, il tuo viaggio si accende». La risposta vera si trova, in piccolo e
ai margini, in un depliant propagandistico:
«Validando il tuo
titolo di viaggio mostri agli altri che anche tu sei in regola. Il tuo gesto
ricorderà, a chi se ne fosse dimenticato, che è necessario avere un titolo di
viaggio valido».
Più espliciti ancora sono gli
studiosi di afferenza pubblicoprivata (la società per azioni dei trasporti pubblici cagliaritani e
una sua spin off) che in un articolo del 2015 ipotizzano
che dall’introduzione dell’obbligo di validare a ogni salita ci si possa
aspettare
«la riduzione del
tasso di evasione del biglietto e quindi della probabilità che sia evasa la
tariffa. In effetti, potrebbe attivarsi una funzione di “controllo sociale” nei
confronti degli evasori: i passeggeri in regola potrebbero etichettare gli
evasori come imbroglioni. Di conseguenza, si prevede il prodursi di un
meccanismo basato sullo “stigma” sociale».
Per chi ancora non l’avesse capito,
quindi, questa seconda funzione del bippare non è altro che la
riproposizione ipertecnologica e smartdelle più disgustose caratteristiche
dei regimi fascisti: delazione, conformismo aggressivo, produzione di odio
reciproco tra membri di ceti poveri o modesti (chi altro prende l’autobus o i
treni locali?). Ricetta perfetta, quest’ultima, per impedire che sorga un
solidale anelito di riscatto nei confronti dei ricchi, degli oppressori e dei
loro servi.
La ferrovia senza ferrovieri
Dopo la produzione di big data da vendere sul mercato e
quella di odio tra pendolari, la terza caratteristica del bibip! è quella che ci consente di
tornare ai lavoratori del trasporto, e all’inganno che li cattura. Bippare a ogni salita (e in
prospettiva a ogni discesa)
significa infatti assuefare i viaggiatori al fatto che siano macchine, in luogo
di umani, a gestire accessi e controllo – come sarà sempre di più anche nelle
stazioni ferroviarie. Anche se l’assessore Aitini crede, o finge di credere,
che la creazione di varchi per il controllo dei biglietti sarà l’occasione per
«assumere nuovo personale in
stazione», la realtà è del tutto diversa. Passato infatti il
breve periodo in cui il disagio dei viaggiatori verrà ammorbidito dal
sorridente dispiegamento di personale, la normalità sarà indirizzata alla
massima meccanizzazione, come lascia intendere l’amministratore delegato di Rfi
(gruppo Fs) in un’audizione al senato del
2017, in cui parla di «gate intelligenti dai quali prima o poi si entrerà
semplicemente con il biglietto senza esibirlo a una persona fisica». Una volta
tornellizzate (con fondi pubblici)
le principali stazioni, i tagli del personale, e la sostituzione dei ferrovieri
con lavoratori esternalizzati, meno specializzati e più economici, troveranno
un limite solo nella fantasia dei consigli d’amministrazione; e il
securitarismo sposato dai sindacati di categoria si rivelerà per quello che è, ovvero
un dispositivo neoliberale.
Chi non paga il biglietto?
Non intendo concludere senza aver
fornito il profilo di chi non paga il biglietto. Mi baso su due ricerche (su
passeggeri di autobus urbani) pubblicate in riviste accademiche: la prima è
quella cagliaritana già citata, la seconda è
stata invece condotta a Reggio Emilia. Sono due articoli decisamente schierati
dalla parte del contrasto all’evasione, e quindi farvi riferimento consolida le
mie tesi. In quello sardo si legge:
«considerando le
determinanti socio-demografiche, abbiamo dimostrato che maschi, di età
inferiore ai 26 anni, con bassi livelli di istruzione, disoccupati e/o studenti
e senza alternative all’utilizzo dell’autobus sono più probabilmente evasori».
La ricerca reggiana conferma: «la
mancanza di un biglietto valido è più probabile se il viaggiatore è giovane,
maschio, immigrato non-europeo, malvestito»; anche qui si registra che è più
frequente, tra le persone senza biglietto, la condizione di disoccupato.
Ricapitolando: le caratteristiche
più ricorrenti in chi non paga il biglietto del bus sono il basso reddito,
indicato da vestiti modesti e dal non possedere una macchina (nessuna
alternativa al bus), la disoccupazione, l’origine migrante e la bassa
scolarità. Queste caratteristiche sono perfettamente sovrapponibili a quelle
che dichiara l’Istat nella
sua fotografia della povertà in Italia: giovane età, disoccupazione o
sottoccupazione, basso titolo di studio e un’incidenza enorme della povertà
relativa (34,5%) tra le famiglie composte da stranieri. Quelli che razzisti,
fascisti e piddini perseguitano, quelli a cui vogliono in ogni modo impedire
persino la mobilità urbana, indispensabile per cercare fonti di reddito, non
sono furbetti, non sono scrocconi, non sono imbroglioni. Sono, semplicemente e
dolorosamente, i poveri.
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