Testo

Tel. 3319034020 - mail: precariunited@gmail.com

lunedì 4 maggio 2020

FILIERA AGRICOLA, IL PROBLEMA E' LA TESTA.

da  https://jacobinitalia.it/nella-filiera-agricola-la-sanatoria-non-basta/



Da alcune settimane ormai si discute della carenza di manodopera nella filiera agricola. La ministra all’agricoltura Teresa Bellanova dichiara che tra 250 e 350 mila braccianti potrebbero mancare all’appello nelle prossime settimane. La ministra si è quindi adoperata a siglare accordi per la mobilità dei lavoratori stagionali rumeni come già avvenuto in Germania, Austria e Gran Bretagna. La Bellanova ha poi proposto di regolarizzare i circa 600 mila migranti irregolari che oggi, secondo le stime, sarebbero in territorio italiano. Infine, le associazioni di categoria ormai da un mese chiedono una liberalizzazione dei voucher, lo strumento dedicato alle prestazioni di lavoro accessorio, per occupare i lavoratori in cassa integrazione e quelli ormai senza lavoro per la crisi dei settori più colpiti dal lockdown, come turismo, ristorazione e accoglienza. Confagricoltura ha perfino proposto la possibilità che i cittadini beneficiari del reddito di cittadinanza possano essere impiegati in lavori agricoli. L’idea ha messo d’accordo un arco ampio di forze politiche che includono Giorgia Meloni e il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini.
La discussione si è, allo stesso tempo, polarizzata su posizioni che però non sembrano così lontane. Lega e Fratelli d’Italia hanno levato gli scudi contro la regolarizzazione degli stranieri aprendo poi a una regolarizzazione temporanea. Parti importanti del Pd, tutti dietro alla leadership di Bonaccini, chiedono l’impiego nei campi dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, così come le forze di destra. Entrambi gli schieramenti, tuttavia, inquadrano il problema all’interno di una prospettiva emergenziale: occorre fornire braccia per rimediare alla carenza di manodopera temporanea. A dirla con le parole di Enrico Pugliese, «è la sofferenza per la frutta e la verdura che intenerisce non quella dei lavoratori». I diritti e la potenziale emancipazione dei lavoratori agricoli, e gli equilibri delle filiere agro-alimentari sono argomenti non trattati. Noi pensiamo invece che serva affrontarli con più urgenza di prima.

La sanatoria non basta

Per iniziare, il lavoro nero non è solo il risultato di una condizione di irregolarità della manodopera straniera in termini di status migratorio. Chi conosce il lavoro agricolo sa che anche tanti lavoratori stranieri regolari e italiani lavorano con modalità che spaziano dal lavoro nero al lavoro grigio. Questo dipende dal sistema complesso e iper-flessibile che regola le modalità di assunzione della forza lavoro agricola, dai meccanismi di attribuzione dei sussidi di disoccupazione basati sulla registrazione delle giornate lavorative, dalla difficoltà di ispezione e accertamento delle condizioni di lavoro nelle campagne, dalla stagionalità delle produzioni e dalla debolezza della forza lavoro nel far valere il rispetto dei contratti collettivi nazionali nei luoghi di lavoro.
L’Istat consegna una fotografia del lavoro irregolare in agricoltura. Secondo le stime elaborate dall’Istituto, il tasso di irregolarità in agricoltura – calcolato come le unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro del settore – nel 2003 subisce una flessione grazie alla sanatoria prevista in concomitanza con l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini in materia d’immigrazione. Tuttavia dai dati si evince chiaramente come, esauriti gli effetti della possibilità di regolarizzazione, i tassi di informalità siano cresciuti nell’economia italiana in generale e in agricoltura in modo particolare. Nel 2017 si stima che per ogni 100 lavoratori a tempo pieno impiegati in agricoltura, almeno 18 di essi abbiano lavorato in maniera parzialmente o totalmente informale. Il trend sembra in crescita e misure disaggregate per macro-regioni segnalano un tasso di irregolarità del lavoro agricolo nel Mezzogiorno d’Italia pari al 30%.
Fonte: Elaborazione su dati Istat. Classificazione Ateco/Nace Rev. 2
L’informalità del lavoro nei campi ha effetti disastrosi su tutti i lavoratori. Lavorare «a nero» o «a grigio» rende l’organizzazione collettiva più difficile, il lavoratore isolato più debole e i rapporti di forza sbilanciati a favore del datore di lavoro. L’informalità comprime i salari, accresce l’incertezza e la subalternità del lavoratore rispetto all’impresa, limita la capacità dei lavoratori di far rispettare le norme di sicurezza, riduce le tasse pagate dai datori di lavoro allo Stato, e infine erode gli oneri contributivi e pensionistici che questi sono tenuti a versare agli istituti di previdenza escludendo così i lavoratori dall’accesso al sistema delle protezioni sociali.
È quindi sbagliato affermare, come fa la ministra Bellanova, che la semplice regolarizzazione dei lavoratori irregolari possa ridurre automaticamente lo sfruttamento nei campi. La regolarizzazione è un passo necessario a proteggere il diritto alla salute dei migranti ma non è sufficiente a garantire salari che non siano di povertà e a ripristinare i diritti fondamentali sui luoghi di lavoro. Né tantomeno la regolarizzazione è sufficiente a far scomparire i ghetti o a rendere più vivibile la vita dei lavoratori stagionali. In sostanza la sola regolarizzazione, in assenza di politiche economiche, risorse mirate e interventi concreti di politica pubblica, sociale e del lavoro, non è sufficiente a contrastare lo sfruttamento lavorativo nelle campagne italiane. In altre parole, una sanatoria non basta. Occorre riequilibrare i rapporti di forza all’interno di filiere sbilanciate e redistribuire equamente il valore prodotto all’interno di esse.

I buchi della rete del lavoro agricolo di qualità

Il secondo punto fondamentale che la ministra Bellanova denuncia è la necessità di una intermediazione formalizzata e controllabile di manodopera, al fine di tagliare fuori i caporali. Si dice che l’assenza di meccanismi efficienti e regolari di intermediazione di manodopera porti gli agricoltori ad affidarsi a caporali senza scrupoli che assicurano l’offerta di braccia ma schiavizzano i lavoratori. Questo meccanismo, già in atto da tempo, sarà esacerbato quando l’offerta di manodopera scarseggerà a causa della pandemia.
La ministra, quindi, elogia la legge 199/2016 contro il caporalato, ma chiede di fare di più. La legge 199 da un lato criminalizzava il reato di caporalato, attribuendone responsabilità non solo al caporale ma anche all’agricoltore che si affidava a esso, dall’altro rinnovava la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità. Secondo la legge, le imprese che avessero deciso di far parte della Rete avrebbero potuto usufruire di servizi specifici di intermediazione del lavoro con centri di collocamento e altri servizi.
Ma se il reato di caporalato ha fornito uno strumento importante nella repressione dello sfruttamento nei campi, la Rete non ha mai innescato i meccanismi virtuosi di formalizzazione previsti. Innanzitutto l’iscrizione alla rete è puramente volontaria e di conseguenza attira solo le imprese già inclini a non affidarsi ai caporali al fine di comprimere diritti e retribuzioni dei braccianti. Nella provincia di Foggia, per esempio, delle 48.199 imprese agricole censite dall’Istat nel 2010, solo 213 (lo 0,44%) risultano iscritte alla rete del lavoro agricolo di qualità al febbraio del 2020. E poi, gli stessi servizi che dovevano accompagnare la Rete, come spiega Giovanni Mininni Segretario Generale della Flai-Cgil, le cosiddette «sezioni territoriali» che hanno il compito di attuare il collocamento e il trasporto dei lavoratori su tutto il territorio nazionale si contano ancora oggi, dopo quattro anni, «sulle dita di due mani». Occorrerebbe, quindi, un impegno concreto a finanziare quelle istituzioni e quegli strumenti subito.

Le teste delle filiere

Da diversi anni numerosi studiosi analizzano le trasformazioni registrate dall’agricoltura dei paesi mediterranei sotto il profilo della produzione (sempre più intensiva, specializzata e standardizzata) e del lavoro (sempre più flessibile e a basso costo) nel contesto della globalizzazione neoliberista. La produzione delle imprese agricole italiane risulta infatti inserita all’interno di filiere agro-industriali a carattere sempre più transnazionale guidate dai colossi della grande distribuzione organizzata che hanno il potere di decidere cosa produrre, come produrre e soprattutto a che prezzo. Qualsiasi dibattito sul lavoro agricolo, quindi, non può prescindere da riflessioni e considerazioni sulla struttura e la composizione delle attuali filiere agro-industriali, così come ogni intervento finalizzato a garantire maggiori diritti alla forza lavoro agricola non può prescindere dall’agire sul crescente potere esercitato dalle imprese alla testa di queste filiere nei confronti di tutte le altre imprese inserite nella loro catena di fornitura.
«Sia ben chiaro. Non esistono filiere sporche», afferma la ministra Bellanova sulle colonne del Foglio. A ottobre dello scorso anno, in audizione presso le Commissioni incaricate di portare avanti un’indagine parlamentare conoscitiva sul fenomeno del caporalato, la ministra affermava:
«se vogliamo combattere il caporalato, dobbiamo vietare le aste al doppio ribasso, che sono caporalato ‘in giacca e cravatta’; se vogliamo combattere il caporalato, dobbiamo semplificare la vita delle imprese e renderle più competitive. Lo voglio ribadire anche qui: non esistono filiere sporche, esistono aziende singole che compiono reati per i quali devono essere punite secondo la legge».
Eppure, la proposta di legge per vietare le aste al doppio ribasso, dopo l’approvazione in Camera è oggi ferma al Senato e non sembra possa essere risolutiva. Come documentano Fabio Ciconte e Stefano Liberti su Internazionale, proprio nelle prime settimane in cui la pandemia si dispiegava, Eurospin riusciva a ridurre i prezzi delle proprie aste d’acquisto di insalate. Approfittando del proprio potere di mercato, il gruppo di distribuzione ha deciso di rinegoziare al ribasso i prezzi dei nuovi acquisti, e pur evitando il meccanismo della doppia asta, è comunque riuscito a comprimere i costi di acquisto al di sotto di quelli di produzione denunciati da molti produttori.
Le asimmetrie nella filiera sono una questione fondamentale che né l’attuale coalizione di governo né quelle precedenti hanno considerato. La Grande distribuzione organizzata detiene un potere di mercato di tipo quasi monopolistico. Produttori e imprese di trasformazione restano price-taker – acquirenti senza il potere di contrattare prezzi, quantità e qualità delle loro forniture –, e sono bloccati in una crescente competizione al ribasso, uno con l’altro, per assicurarsi di piazzare i loro prodotti sugli scaffali dei supermercati più importanti. Nelle numerose dichiarazioni d’intenti della ministra però, la grande distribuzione, raramente viene menzionata e nelle riunioni del tavolo di contrasto al caporalato, la Gdo resta la grande assente come denuncia il sindacato Usb. Pare che il caporalato resti il frutto di una devianza di poche mele marce che si affidano alla criminalità organizzata locale. Eppure, le asimmetrie di potere lungo la filiera sono un aspetto strutturale del suo funzionamento. Fino a quando la Gdo, in un sistema di oligopoli sempre più organizzato in alleanze d’acquisto, avrà il potere quasi assoluto di dettare i prezzi a tutte le imprese a valle, gli spazi di formalizzazione della forza lavoro saranno fortemente instabili. Se gli sbocchi di mercato dei prodotti raccolti nei campi sono praticamente i soli contratti offerti dalla Gdo, le imprese agricole capaci di comprimere maggiormente i propri costi di produzione, con tutti i mezzi, saranno quelle a essere maggiormente premiate.
Il punto che qui vogliamo sottolineare è che la regolarizzazione dei migranti e la creazione di servizi per l’intermediazione di domanda e offerta di manodopera (che però siano obbligatori per tutte le imprese e non volontari come sono ora) sono azioni necessarie ma non risolutive. Se la prima riduce il livello di debolezza contrattuale dei lavoratori stranieri, e il secondo toglie spazio alle attività criminali dei caporali, le caratteristiche strutturali del settore sfavorevoli ai lavoratori restano del tutto intatte. Solo un’azione di riequilibrio dei poteri contrattuali all’interno delle filiere può bilanciare la distribuzione ineguale del valore prodotto dai lavoratori all’interno di esse. Alla Gdo deve essere impedito di usare il proprio potere d’oligopolio per schiacciare le imprese a valle della filiera, ed essa va resa co-responsabile delle violazioni dei diritti del lavoro lungo l’intera catena di fornitura. E allo stesso tempo, solo un lavoro forte ed organizzato può garantire che contratti collettivi e diritti vengano rispettati nei campi. Per fare ciò occorrono controlli e reti di imprese, ma anche garanzie per la protezione dei diritti individuali, progetti di integrazione per la forza lavoro straniera, politiche sociali e abitative e un’azione di sindacalizzazione di massa. Insomma, tutto l’opposto rispetto alle proposte di regolarizzazione temporanea della Lega, o di liberalizzazione dell’uso dei voucher esteso a tutti e condivise da quasi tutto l’arco parlamentare. Non l’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro agricolo, ma la sua regolazione e protezione; non la riduzione di «lacci e lacciuoli», ma la riduzione delle asimmetrie di potere tra i soggetti della filiera potranno riportare i diritti costituzionali nei campi e aprire nuovi spazi per ripensare la sostenibilità dei nostri modi di produzione. 
*Francesco Bagnardi  è dottorando di ricerca all’Istituto Universitario Europeo. Si occupa di lavoro informale e relazioni industriali nelle periferie meridionali ed orientali d’Europa. Giuseppe D’Onofrio è dottore di ricerca in Scienze Sociali all’Univeristà di Napoli Federico II. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le trasformazioni del lavoro, le migrazioni e la condizione operaia.

Nessun commento: