L'articolo è un' interessante ricostruzione di ciò che è avvenuto fino adesso. Per quanto riguarda le proposte finali, sono in sè giuste ma devono scontrarsi con l'UE e l'impossibilità di sostenere alte spese pubbliche o con uno Stato che non opererà una redistribuzione economica attaccando i privilegiati dagli altissimi patrimoni, a meno che le lotte non si inaspriscano a un punto tale da costringere il nemico di classe al cedimento, cosa che per ora sembra lontana, ma, data la tensione che ci aspetta, non è, forse, così impossibile come sembra.
da https://www.dinamopress.it/news/non-sta-andando-bene-contagio-economia-lavoro/
FASE ZERO
Andando a ritroso, facciamo un po’ di luce sul mese più oscuro della crisi
sanitaria, ossia quello antecedente all’accertamento del primo caso positivo di
Codogno avvenuto il 21 febbraio. In un dossier reso noto il 29 aprile dal
“Corriere della sera”, la task force sanitaria della Regione Lombardia afferma
che nei 26 giorni precedenti al 21 febbraio almeno 1.200 cittadini lombardi
erano infettati, di cui 160 persone tra Milano e provincia. Nel dossier si fa
inoltre risalire il “giorno zero” al 26 gennaio, stimando che in quel momento
erano già ben 543 i casi di Covid-19 in Lombardia (in quanto manifestavano i
sintomi). Com’è possibile che il sistema di sorveglianza sanitaria non se ne
sia accorto? C’è chi ha provato a giustificare il ritardo nell’attivazione
dell’allerta affermando che inizialmente era stato scambiato per la coda di
un’influenza invernale.
Anche fosse vero, è possibile che nelle quasi quattro settimane successive
al 26 gennaio nessuno abbia rilevato l’anomalia dei sintomi rispetto
all’influenza comune? Altri dubbi vengono dalla successione temporale degli
eventi che hanno preceduto il 21 febbraio: il 7 gennaio le autorità cinesi
confermavano di aver identificato un nuovo ceppo di Coronavirus; Il 10 gennaio
l’Organizzazione mondiale della sanità diffonde la notizia dell’epidemia; il 22
gennaio Wuhan entra in quarantena; il 29 gennaio, infine, vengono ricoverati
allo Spallanzani i primi due turisti cinesi positivi e il governo corre a
chiudere le tratte aeree dirette con la Cina. Ma ormai il virus circolava già
nel nostro Paese.
FASE UNO
Bisogna aspettare marzo
inoltrato perché il governo decida le prime strette alle attività economiche.
Con il decreto del 9 marzo ha limitato il commercio all’ingrosso e al
dettaglio, prevedendo la chiusura di bar, ristoranti e palestre, e con quello
del 22 marzo ha delimitato l’ambito delle attività consentite a quelle
cosiddette essenziali. In particolare il Dpcm del 22 marzo da una parte
elencava espressamente i servizi ritenuti essenziali, dall’altra, però, predisponeva
diverse possibilità di deroga che di fatto precludevano la tassatività del
provvedimento. Con una semplice comunicazione alla prefettura in cui dichiarare
di svolgere un’attività funzionale ad assicurare la continuità di una filiera
essenziale, infatti, anche nella Fase 1 un’impresa poteva proseguire la
produzione.
I controlli possibili
sarebbero dovuti essere solo a posteriori, lenti e a campione. In ogni caso non
erano previste sanzioni. A fine marzo le richieste di deroga giunte alle
prefetture sono state circa 105 mila e i dinieghi solo poco più di 2 mila. La
gravità dell’emorragia così generata è ben esposta in un recente report
dell’Istat che rivela che nel mese di marzo la media dei lavoratori delle
industrie e dei servizi privati che ha continuato a recarsi nei luoghi di
lavoro è stata di almeno del 55,7%. Percentuale che aumenta sensibilmente
proprio nelle zone più colpite dal contagio, raggiungendo il 73,1% a Lodi, il
69,2% Crema, il 68,5% a Roma e il 67,1% a Milano.
Altro punto da considerare
nel valutare l’efficacia delle misure del Dpcm del 22 marzo è che sembra non
tenere conto come le attività essenziali non siano distribuite in maniera
omogenea sul territorio nazionale. Non sorprendono quindi i risultati di un recente
studio della direzione
centrale Studi e Ricerche dell’Inps che mostrano come il contagio sia
maggiore di quasi il 25% nelle zone con più alta presenza di attività
essenziali. In sostanza l’Inps non ha fatto altro che dimostrare che nelle
province che si collocano sopra la fascia mediana dei settori essenziali vi
sono in media 10 contagi in più al giorno, un numero non trascurabile visto che
la media provinciale giornaliera dopo il 22 marzo è di 37. Considerando poi,
prosegue l’Inps, anche la densità di occupazione a livello provinciale, al cui
aumentare diventa più probabile la vicinanza dei lavoratori sui mezzi pubblici,
il numero di contagi quotidiani in più sale a 13. Tale dato è destinato a
crescere se si includono anche le 125 mila aziende che, seppur non essenziali,
hanno continuato a operare in deroga dietro presentazione
dell’autocertificazione ai prefetti.
FASE DUE
In forza del Dpcm del 26
aprile, circa 2,75 milioni sono tornati a lavorare dal 4 maggio (dal calcolo
sono esclusi i lavoratori che riprenderanno in modalità smart-working). Se si guarda
più da vicino la composizione di questa forza lavoro, emerge subito un dato
inquietante: il 68,7 % ha un’età superiore ai 50 anni. Un dato che si pone in
forte contraddizione con gli sbandierati sforzi del governo di tutelare i più
anziani in quanto più a sensibili al virus. Come contraddittorio è il fatto che
la ripresa coinvolgerà in misura maggiore proprio quel Nord Italia maggiormente
flagellato dal virus.
Il Dpcm non detta poi misure
chiare di prevenzione del contagio nei luoghi di lavoro e neppure precisa se e
come sono rafforzati gli obblighi in capo al datore a tutela della salute dei
lavoratori. Si limita a incentivare l’assunzione di «protocolli di sicurezza
anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza
interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione
di strumenti di protezione individuale». Da ciò sembra discendere che le
mascherine siano obbligatorie solamente quando la distanza tra le postazioni
lavorative sia inferiore al metro. Peccato che gli stessi membri della
task-force capitana da Colao, coloro che hanno sostanzialmente dettato le norme
della fase due, nella loro relazione non si dicano rassicurati dai numeri
forniti dal commissario per l’emergenza Domenico Arcuri che parlano di quattro
milioni di mascherine prodotte al giorno, stimando invece in sette il numero
necessario. Come dire, i conti sono stati fatti senza l’oste.
Nessun’altra specifica misura
a tutela della salute sul posto di lavoro è contenuta nel decreto, che delega
invece a protocolli di categoria e aziendali, vari ed eventuali, il compito di
rendere l’ambiente di lavoro idoneo all’emergenza. Ancora una volta sono però
diversi i punti oscuri, quali l’obbligatorietà o meno della stipula dei
protocolli, la loro efficacia, il regime sanzionatorio. Per ripartire alle
aziende basterà quindi autocertificare di rispettare il protocollo di sicurezza
e di aver adottato turni di lavoro idonei, essendo i controlli ancora una volta
successivi e a campione.
IL DISASTRO OCCUPAZIONALE
Per molte e molti è stato un
Primo Maggio caratterizzato dalla paura di perdere il lavoro. Secondo il Censis
l’80% si sente meno sicuro rispetto al passato, una insicurezza «innestata
nell’intimo della vita quotidiana fino a minacciare la stessa salute delle
persone, tramutandosi in una sorta di biopaura» [Rapporto Censis-UGL “Italiani, lavoro ed economia oltre l’emergenza Covid-19”]. E
non basta a scacciarla l’intera costellazione di ammortizzatori sociali e
sussidi che punteggia i cieli in questi giorni. È una paura che ha radici
profonde da almeno 15 anni, quando sono diventate più martellanti le politiche
di taglio alla spesa pubblica e di deregolamentazione del mercato del lavoro,
una paura di una crisi economica senza precedenti che bussa violentemente alla
porta.
Del resto solo uno
speculatore o un pazzo potrebbe avere fiducia e riporre buone speranze nel
futuro, considerando che le crisi del coronavirus (quella sanitaria e quella
economica) si sommano alla coda della crisi del 2008, sovrapponendosi a una
prolungata fase di stagnazione della crescita. Nell’ultimo decennio il Pil è
cresciuto solo del 2,4%, i consumi reali di appena l’1,8% e gli investimenti
sono addirittura calati del 7,2%. Persino il tasso di risparmio si è eroso in
dieci anni dall’8 al 2,5%.
I dati che affermano che
l’occupazione era risalita ai livelli pre-crisi e ha continuato a crescere per
tutto marzo (si veda lo studio dell’Istat sul trimestre gennaio-marzo), non
sono poi neppure da tenere in considerazione in quanto drogati dalle forme
contrattuali non standard, vale a dire precarie, che si sono moltiplicate negli
anni. E le prime proiezioni sul crollo dell’occupazione suonano molto più di un
campanello di allarme: suonano come migliaia di vuvuzelas allo stadio Maracanã. Basti pensare che nel
“Documento di Economia e Finanza” appena varato il governo prevede una perdita
di mezzo milioni di posti solo nel 2020. La situazione occupazionale italiana è
poi la rappresentazione in scala di un dramma globale: secondo l’Organizzazione
mondiale del lavoro il rischio di perdita della propria occupazione a causa
dell’attuale crisi riguarderà un miliardo e mezzo di persone, quasi la metà
della forza lavoro del pianeta.
Il ricorso massiccio agli
ammortizzatori sociali, poi, è una radiografia di un Paese che perde potere di
acquisto e si impoverisce: gli ammortizzatori sociali (Cig e assegno ordinario),
di cui stando agli ultimi dati Inps diffusi il 27 aprile beneficiano circa 7,3
milioni lavoratori, comportano una sforbiciata alle retribuzioni in media di
472 euro (-36%). Una diminuzione del salario che si è abbattuta con ancora più
violentemente sui lavoratori dell’economia informale, che hanno visto il loro
salario ridotto in media del 60% nell’ultimo mese.
IL LAVORO CHE SARÀ
Se questo appena tracciato è
il quadro drammatico che riguarda chi dal lavoro è stato sospeso e chi rischia
di perderlo nel prossimo futuro, c’è almeno da sperare che gli interventi del
governo di queste settimane non finiscano per alimentare questa dinamica di
insicurezza e instabilità. Ma, ancora una volta, la speranza è destinata a
soccombere nello scontro con la cruda realtà. Il lavoro si presenta al nastro
di partenza della fase2 ancora più precario.
Il Decreto Legge del 17 marzo
2020 (n. 18) ha introdotto l’articolo 19 bis che consentirà, ai datori di
lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali nel periodo compreso tra il 23
febbraio e il 31 agosto 2020, la possibilità di procedere, nello stesso
periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a
scopo di somministrazione, in deroga alle previsioni di divieto di stipula di
contratti a termine per le medesime mansioni e ai vincoli dello stop and go. Si tratta di una
disciplina con effetto retroattivo, con la conseguenza che dovrà ritenersi
sanata l’eventuale illegittimità, per violazione dei richiamati divieti, dei
contratti di lavoro a tempo determinato prorogati o rinnovati dal 23 febbraio
2020. In buona sostanza con questo intervento normativo è stata reso ancora più
accessibile il lavoro a tempo e non è difficile immaginare quali ricadute
negative avrà sulla qualità dell’occupazione.
Non è poi neppure difficile
immaginare quali saranno le conseguenze della strategia del governo volta a
favorire la rimodulazione dell’orario di lavoro su turni più brevi, spalmati su
giornate o settimane lavorative di durata maggiore. L’effetto immediato, che
vediamo già in atto, è una riduzione dell’orario cui si somma, per le ore non
lavorate, il ricorso agli ammortizzatori sociali a integrazione della
retribuzione. Il che si traduce in una diminuzione della retribuzione netta,
per le ragioni più sopra già esposte. L’altro effetto, quello di medio-lungo
periodo, è che le assunzioni dei prossimi mesi avverranno verosimilmente a
part-time, da cui un abbassamento del monte orario medio lavorato che sarebbe
fondamentale accompagnare con un innalzamento dei livelli salariali.
Ultimo tassello del mosaico è
infine rappresentato dallo smart working, divenuto strumento chiave nel
contenimento del virus. Per favorirne l’utilizzo il governo ha eliminato,
seppur in via eccezionale, l’obbligatorietà della previa stipula dell’accordo individuale
tra datore e dipendente. Previsto dalla Legge 81/2017, con tale accordo le
parti disciplinavano «l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta
all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio
del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal
lavoratore. L’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché
le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione
del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». L’effetto di tale
provvedimento è che lo smart
worker è oggi in balia di un ampio potere discrezionale del datore,
che ha di fatto facoltà di stabilire liberamente l’orario di lavoro e le
modalità di controllo. Occorre quindi reintrodurre subito l’obbligatorietà
dell’accordo individuale, non bisogna permettere che l’eccezionalità diventi la
normalità. Bisogna, anzi, rendere più effettivo il “diritto alla
disconnessione”, a oggi previsto solo nei contratti collettivi degli insegnanti
e dei bancari.
Si consideri poi che il
lavoro a distanza non solo è la forma privilegiata nella pandemia, ma con ogni
probabilità lo sarà anche in futuro. Qualsiasi amministratore di un’azienda si
farà due conti e si accorgerà di quanto può risparmiare se una quota
percentuale rilevante della forza lavoro continuerà a lavorare da casa (spese
di affitto degli uffici e di acquisto delle postazioni lavorative, per
esempio). E questo pone ulteriori problemi, perché lo smart working può sì
essere un modo efficiente di riorganizzare l’attività in molti settori e
mantenere elevati i livelli produttivi, ma può anche rappresentare una
involuzione spaventosa verso un modello low cost caratterizzato dall’erosione delle tutele
tipiche della subordinazione e da una retribuzione a cottimo. Del resto è un
modello di lavoro che, proprio per le sue peculiarità, porta con sé il rischio
che si affievolisca il confine tra subordinazione e autonomia, tra obbligazione
di mezzo e di risultato. Per tali ragione è tanto più urgente un intervento
legislativo che riconduca lo smart working alle tutele della subordinazione,
evitando di riprodurre su larga scala obbrobri come è successo per i lavoratori
delle piattaforme.
CONTRADDIZIONI E TRASFORMAZIONI
Le contraddizioni si qui
analizzate si spiegano solo se assumiamo che il criterio principale che ha
guidato la mano del governo dall’inizio della pandemia non è stato quello
epidemiologico di tutela della salute a tutti i costi, bensì quello di
preservare la produzione economica.
La macchina economica non si
è fermata, ha solo rallentato o mutato le sue modalità di svolgimento. La
maggior parte delle attività è infatti proseguita, paradossalmente proprio
nelle aree maggiormente colpite dal contagio. La “ripartenza” vede poi il
coinvolgimento soprattutto di quel segmento di popolazione più vulnerabile al
virus, quella più anziana. Ciò che principalmente è stato sacrificato non sono
le libertà economiche, ma quelle personali. E in continuità con le politiche di
deregolamentazione post 2008, sull’altare della produzione è stato sacrificato
anche un ulteriore pezzo del diritto del lavoro. Anzi, la produzione
capitalistica ha fatto un balzo in avanti e spalancato le sue fauci,
riorganizzandosi verso fattispecie lavorative nuove che rischiano di sfuggire
dall’ambito di applicazione dei classici istituti giuridici.
Siamo in una fase di
trasformazione sociale e dei modelli di organizzazione del lavoro, una
transizione che era già in atto prima del Covid e che ha subito una forte
accelerazione in questi due mesi per l’impatto della digitalizzazione. La
bandiera della modernizzazione non deve diventare il pretesto per indebolire
ancora di più il lavoro e accrescere le diseguaglianze, operando una spietata
selezione della specie. È in corso finalmente una rivoluzione e non dobbiamo
permettere che l’esito sia una condizione uguale o peggiore di quella in cui
già versavamo. Perché ciò non avvenga dobbiamo assumere come indispensabili una
riforma del diritto del lavoro adeguato al mutamento così da non lasciare zone
d’ombra prive di tutele, una riforma della rappresentanza sindacale che la
estenda e la renda effettiva, la riduzione dell’orario a parità di salario, il
salario minimo, un welfare “digitale” universale e incondizionato.
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