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giovedì 11 giugno 2020

IL PIANO COLAO

da  https://jacobinitalia.it/come-prima-piu-di-prima-il-piano-colao/



Durante il picco della pandemia e le fasi di lockdown totale l’economia ha retto grazie soprattutto a quei lavoratori e lavoratrici troppo spesso tacciati di bassa produttività e valore aggiunto e, per questo, meritevoli di  bassi salari. Si tratta dei lavoratori della logistica, schiacciati dallo strapotere di Amazon che impone loro ritmi e modalità di lavoro; dei rider vittime del caporalato digitale e ancora soggetti al ricatto dello status di falso autonomo e del salario a cottimo nonostante la sentenza 1663/2020 della Corte di Cassazione che stabilisce per loro le stesse tutele del lavoratore subordinato; si tratta dei lavoratori della filiera agro-alimentare, dai braccianti – vittime di una «regolarizzazione per utilità di mercato» – alle addette alle casse della grande distribuzione; si tratta degli infermieri che all’interno della stessa unità ospedaliera possono essere soggetti a condizioni differenti grazie alla possibilità di ottenere personale dalle cooperative attraverso operazioni di esternalizzazione del servizio. 
Queste categorie di lavoratori sono anche quelle più colpite: ogni crisi nella storia del capitalismo è stata scaricata sulla merce-lavoro e questa non è da meno. Vincenzo Galasso, così come il techincal report del Joint Research Centerconfermano come i più colpiti dalla crisi conseguente alla pandemia sono proprio i lavoratori e le lavoratrici, i soggetti con condizioni occupazionali peggiori e salari più bassi. 
Dalle grandi abilità e competenze dei tecnici nominati all’interno della task-force e guidati dal super-manager Vittorio Colao – ex amministratore delegato di Vodafone – ci si aspettava un rapporto realmente tecnico, con analisi e numeri a supporto delle loro proposte, con relativa quantificazione e fonti di finanziamento. In realtà, si tratta solo di una tenera e ideologica lettera del figlio liberale che, come in ogni fase di crisi capitalistica, chiede assistenza gratuita a papà Stato per aiutarlo a sopravvivere e porre la basi per la riproduzione e successiva accumulazione del capitale. 

Ripartire, ma senza lavoro

Questi lavoratori e lavoratrici, tuttavia, sono del tutto assenti nella concezione di lavoro attivo – cioè di partecipazione alle decisioni della produzione e quindi di dominio del soggetto sull’oggetto e non viceversa – dal piano tecnico presentato da Colao e dalla sua task-force. 
Nonostante il primo dei sei punti sia intitolato «impresa e lavoro, motore dell’economia» persiste indisturbata la logica liberale per cui sono considerati unicamente l’impresa e il capitale privato i reali carburanti del motore economico lasciando al lavoro il mero ruolo di merce-appendice. Questa visione, infatti, è del tutto coerente con la totale assenza della questione lavoro all’interno dell’intero piano tecnico e un totale sbilanciamento delle soluzioni sulle necessità delle imprese: una sfilza di proposte che spaziano dalla defiscalizzazione ai crediti di imposta per facilitare aumenti di capitale e accentramenti, garanzie su prestiti ed estensione dei meccanismi di accesso alla liquidità, aumento delle concessioni ai privati nel settore del turismo e alla partecipazione del privato nel definire i percorsi educativi. 
All’interno della prima sezione, infatti, pochi sono gli accenni al lavoro che si traducono, nei fatti, in soluzioni per l’impresa stessa. Come ad esempio, il suggerimento di derogare al «decreto dignità» in tema di rinnovo dei contratti a tempo determinato, «per almeno tutto il 2020». O i meccanismi di premialità associati alla sanatoria per il lavoro nero: lavoratori che auto-dichiarano lavoro nero saranno ricompensati con una riduzione del cuneo fiscale. Al contrario, nessun accenno ai controlli sulle imprese che lavorano in nero e generano un ammanco di versamento di contributi a loro carico di 6,4 miliardi (relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva anno 2018 – Mef). È un impianto logico coerente con quanto previsto durante il lockdown, ossia totale carenza/assenza di controlli sulle 192 mila imprese aperte in deroga. 
Inoltre si colpevolizza, di nuovo con la solita retorica liberale, il disoccupato/cassaintegrato attribuendo tale condizione alle loro mancanze tecnico-conoscitive. Infatti, la task-force propone di introdurre la «riqualificazione» come condizionalità di accesso ai sussidi. 
Quest’ottica di competenza per il mercato – e non per l’essere – è presente anche nel capitolo dedicato all’educazione dove viene proposta esplicitamente un’«education-to-employment», i cui corsi di formazione dovrebbero essere forniti (anche a pagamento) da imprese private e tenuti da manager/dirigenti, come norma raccomandabile/obbligatoria per accedere a sussidi quali il reddito di cittadinanza. Insomma, il mercato come ente supremo totalizzante che definisce la vita dell’individuo secondo le proprie necessità sin dalla scuola secondaria con «career education» e «career and life counselling» con le imprese private che possono finanziare miglioramenti tecnologici nella didattica tramite «l’adozione di una classe». 
Non solo mancano totalmente i problemi fondamentali del mondo del lavoro di oggi, quali la stagnazione salariale e la necessità di introdurre un salario minimo, le condizioni materiali e di sicurezza (ricordiamo che in tempi «normali» l’Italia presentava in media tre vittime sul lavoro al giorno), il lavoro in appalto, le forme di precarietà e di remunerazione a cottimo, ma viene invece delineata quale deve essere la natura dell’individuo e del lavoro. Per la task-force l’individuo sin dalla scuola secondaria deve essere un pezzo del mercato, un’appendice dell’impresa a cui deve adeguarsi, riproponendo l’ennesima visione passiva del lavoro. 
Il lavoro non viene considerato nemmeno nel capitolo secondo, dove il piano per il rinnovamento infrastrutturale è anche in questo caso definito solo per lo sviluppo competitivo delle imprese facilitando unicamente lo spostamento rapido delle merci. Insomma, per i soggetti-lavoratori non viene proposta alcuna riforma del sistema dei trasporti, specie su rotaia. Permane l’attuale impianto regressivo di alta velocità, improntato alla realizzazione del profitto, che razionalizza il trasporto locale-interregionale che interessa principalmente lavoratori e lavoratrici pendolari, con gli evidenti disservizi e carenza d’offerta nelle regioni meridionali i cui trasporti pubblici sono demandati a soggetti privati su gomma. 
Un altro timido accenno al lavoro si presenta nel terzo capitolo del piano dedicato all’arte e al turismo. L’Italia, come riporta la stessa task-force, ottiene circa il 13% del suo Prodotto interno lordo dal turismo e quindi secondo Colao e colleghi, è necessario elevarlo a vero e proprio brand. Un brand caratterizzato da basso valore aggiunto e alta intensità di sfruttamento del lavoro, con bassi salari e condizioni lavorative del secolo scorso (basti pensare alle polemiche della scorsa stagione sul caso Gabicce). L’unico obiettivo è tutelare l’occupazione, ma favorendo l’impresa attraverso il solito strumento della decontribuzione per i nuovi assunti stagionali e con riduzioni di imposte (Tari, Tarsu e Imu), con l’obiettivo di garantire la stagione turistica al settore. Non una parola sui lavoratori dell’arte o dello spettacolo, e delle guide turistiche, solo la retorica del miglioramento delle capacità formative attraverso stage e programmi di formazione «gestiti e condotti da grandi catene internazionali», in un contesto già saturo di precarietà, esternalizzazioni e privatizzazioni che generano spinte al ribasso dei salari e lavoro gratuito (come già ben spiegato sempre qui su Jacobin Italia).
Anche in questo caso il soggetto-lavoratore che viene dominato dalla produzione-turismo allo scopo di aumentare l’attrattività e i profitti. Infatti, l’idea della task-force è rafforzare il turismo di fascia premium (nautica, enogastronomia, itinerari dello shopping di alto livello) attraendo capitali esteri e dando anche in concessione, a uso alberghiero, beni immobili di valore storico e artistico, o estendendo quelle già in essere (spiagge) per evitare un calo dei profitti e investimenti nel settore. Insomma, di nuovo il fattore lavoro e il bene comune al servizio del profitto. 

Un piano senza Stato 

All’interno della relazione tecnica viene continuamente citata la parola «piano» o «pianificazione», soprattutto in tema di investimenti e rinnovamento delle infrastrutture. Tuttavia, sorge spontanea e immediata una domanda: Chi, come e con quali obiettivi dovrebbe concretizzare questo piano? 
Sono domande inevase da Colao, ma a cui si può facilmente rispondere leggendo la relazione proposta. Infatti, a seguito dell’ideologia del new-public management e dell’egemonia neoliberale, lo Stato ha esternalizzato le sue funzioni e perso le proprie competenze dopo i massicci piani di privatizzazione e smantellamento dell’Iri (l’Istituto per la ricostruzione industriale) negli anni Novanta. Questo implica che lo Stato, ad oggi, non è in grado di svolgere nessun ruolo attivo nel «piano» di Colao, ma è uno Stato limitato e assoggettato alle richieste delle imprese. Uno Stato facilitatore al servizio del privato che non può, ideologicamente e materialmente, partecipare attivamente alla definizione e implementazione del piano per l’economia post Covid-19, e non può democratizzare l’economia partecipando alla formulazione delle risposte alle domande su «come e cosa produrre». 
Infatti, ben consapevoli del ritardo dei nostri dipendenti pubblici rispetto agli altri paesi europei in termini di percentuale di occupazione pubblica (Eurostat) ed età degli occupati (Ocse), la task-force suggerisce una maggior valorizzazione del personale pubblico attraverso processi  selezione più efficaci, che dal loro punto di vista significa volti alle capacità tipicamente richieste da un’impresa privata – problem solving, attitudine a lavori di gruppo, soft-skills manageriali ecc. Nonostante sia evidentemente necessario un massiccio piano di assunzione per aumentare la qualità e le competenze del settore pubblico, la logica di fondo della proposta tecnica è fornire le competenze necessarie a una pianificazione al servizio del profitto privato, piuttosto che fornire allo Stato e a lavoratori e lavoratrici le necessarie abilità tecnico-conoscitive fondamentali per spostare l’attenzione da valore di scambio al valore d’uso di merci e servizi. 
Non ci si poteva aspettare nessuna sorpresa da questa relazione tecnica. Infatti, derogando sempre più a un reale principio democratico, le democrazie liberali fanno affidamento a presunti tecnicismi, che a volte sono astratti – i «mercati» – altri diretta espressione del mondo accademico-manageriale. Gli intellettuali e i tecnici della classe dominante sono riusciti nell’obiettivo di rovesciare il rapporto logico tra tecnica e politica presentando le competenze come neutrali. Tuttavia, la politica per definizione non è un campo neutro e nemmeno i rappresentanti della tecnica sono privi di orientamento ideologico, anzi. Come si evince facilmente dalla composizione della task force sono espressione intellettuale e competente della classe dominante e ne perseguono gli interessi. Lasciare la definizione delle politiche economiche post-pandemia a una task force «tecnica» significa non solo derogare ai principi democratici, ma anche ammettere quali sono i reali interessi di cui lo Stato si vuole prioritariamente occupare in questa nuova fase. Al contrario, occorre una reale democratizzazione dell’economia, con una visione del lavoro attiva e non come semplice merce a disposizione del capitale su cui scaricare i costi di ogni crisi.
*Luca Giangregorio PhD student in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.

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