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lunedì 15 giugno 2020

USA, UNA REPUBBLICA SENZA PARTECIPAZIONE

Un articolo secondo noi molto utile -al di là del concordare o meno con le posizioni dell'autore del tutto o in parte che sia- nello spiegarci diversi meccanismi del sistema elettorale e sociale statunitense, meccanismi che convergono nell'impedire mobilità sociale e partecipazione democratica alle masse dei subalterni afroamericani; utile anche nel mostrarci un sistema oligarchico dal punto di vista economivo, e nel fare un quadro storico di un contratto sociale che si rompe proprio per l'eccessiva forbice economica e la mancanza di uno stato sociale.



da  https://jacobinitalia.it/stati-uniti-il-fallimento-di-una-democrazia/



Ciò che sta succedendo in queste settimane negli Stati uniti ha anche un’origine istituzionale che riguarda diversi aspetti della vita democratica del paese. Non è questo il tempo di una disamina generale delle gravissime pecche – che vengono costantemente rimosse nell’analisi mainstream – di quella che solo con grande generosità potremmo definire «democrazia» statunitense. È però indispensabile capire che le tensioni razziali vanno viste e spiegate nell’ottica di un fallimento generalizzato delle istituzioni inclusive e partecipative della vita pubblica. Più che a una dittatura della maggioranza (bianca), ci troviamo davanti a un sistema che sempre più assume i contorni dell’oligarchia in cui una divisione fittizia in tante minoranze consente il predominio di classe dei pochi. 

Voto non per tutti

Gli Stati uniti sono nati come paese istituzionalmente razzista: la famosa democrazia americana era stata costruita sullo schiavismo, e alla Guerra Civile era seguito il Jim Crow che l’aveva semplicemente sostituita con la segregazione. Il sistema politico ed elettorale era ovviamente parte di questa struttura di potere: la difesa delle élite e i limiti alla sovranità popolare integravano al loro interno un razzismo istituzionale. Come racconta il grande storico Eric Foner sulle colonne della London Review of Books, il sistema dei collegi elettorali – nato per evitare l’elezione diretta del Presidente e per mantenere quindi un controllo oligarchico sulla sovranità popolare – era ben presto diventato un bastione del razzismo istituzionale: negli Stati del Sud, il calcolo dei grandi elettori, proporzionale alla popolazione, era fatto aggiungendo ai cittadini bianchi il 60% del numero totale di schiavi, così da aumentare il peso specifico degli Stati di quella che sarà poi la Confederazione. E la vittoria del Nord nella Guerra Civile non cambiò le cose, anzi, le peggiorò: l’intera popolazione nera era ora inclusa nel conteggio per determinare il numero di grandi elettori, ma il sistema segregazionista l’escludeva de facto dal voto, inflazionando il potere di voto e di veto degli elettori bianchi. 
Grazie al movimento per i diritti civili, le cose finalmente cambiarono solo nella seconda metà del ventesimo secolo. Ma l’estensione della franchigia elettorale e l’implicita maggiore inclusività delle istituzioni politiche fu presto sovvertita da una struttura di potere, con istituzioni sia formali che informali, che remava in senso opposto. Come noto, i casi di «vote suppression» si moltiplicano con strumenti che vanno dall’impossibilità di voto per posta o anticipato (negli States si vota in giorni lavorativi e per molti non è possibile recarsi alle urne); alla richiesta di identificazione personale sempre più complicata; e, soprattutto, alla rimozione di decine di migliaia di votanti dai registri elettorali per ragioni a dir poco astruse. Le vittime sono, soprattutto, elettori afroamericani. Non solo: la pratica del gerrymandering, soprattutto negli Stati repubblicani, permette al governo locale di disegnare i distretti elettorali a propria discrezione così da rendere ininfluenti i voti della parte avversaria. Tale è il potere di questo strumento che, nel 2012, se l’elezione del presidente fosse avvenuta tramite i distretti elettorali (è una delle proposte di riforma per eliminare i grandi elettori) Mitt Romney sarebbe finito alla Casa Bianca nonostante Obama avesse ricevuto 5 milioni di voti di più del candidato repubblicano. La realtà è che negli Stati del Sud la situazione è cambiata solo nella forma ma non nella sostanza: gli elettori afroamericani non sempre possono votare e il loro voto continua a essere manipolato dal potere. 
Il problema però va al di là dei pur importantissimi meccanismi elettorali e coinvolge la vitalità delle cosiddette mid-level institutionsla famigerata sentenza della Corte Suprema «Citizen United» ha rimosso qualsiasi limite a quanto le corporations possano spendere per finanziare le campagne elettorali, peggiorando drammaticamente una situazione già critica. Il denaro, molto più delle idee e dell’ascolto dei bisogni dei propri elettori, è la variabile decisiva nella vittoria o sconfitta dei candidati, che sono così alla più completa mercé delle lobbies. L’efficacia dell’azione politica è chiaramente dipendente dalla capacità di influenzare i risultati elettorali: le vittorie del Movimento per i Diritti Civili furono possibili anche perché minacciando di boicottare i candidati democratici (che allora, nel Sud, erano i difensori della segregazione), King e i suoi forzarono la mano prima di Kennedy e poi di Lyndon Johnson. Scenari di questo genere sono impensabili ora. Il caso dell’elezione di Obama è istruttivo in questo contesto: se è vero che una parte maggioritaria dell’elettorato statunitense (ma non dell’elettorato bianco…) può eleggere un Presidente afroamericano, rimane impensabile che questi possa riformare il sistema. Non solo durante i due mandati di Obama nulla o quasi è cambiato, come vedremo, per quel che riguarda gli abusi razzisti della polizia e l’organizzazione di classe del sistema giudiziario; ma vale soprattutto la pena di ricordare che mentre la Casa Bianca si affrettava a salvare le grandi banche e le fortune azionarie di una minuscola percentuale di straricchi bianchi, milioni di famiglie afroamericane perdevano la casa. Questione di priorità e, appunto, di veri referenti politici. 

Legge diseguale e repressione

Il dato drammatico che ci aiuta a capire lo stato comatoso delle istituzioni democratiche viene dal sistema giudiziario: gli Stati uniti hanno il più alto pro-capite (ma anche assoluto!!) di persone carcerate; 0,7 persone ogni 100 sono in galera. E naturalmente le questioni sociale e razziale nuovamente si  accavallano: i poveri sono i più colpiti e tra loro, ovviamente, la popolazione di colore, che rappresenta il 40% della popolazione carceraria. In altre parole, oltre il 2% del totale degli afroamericani è «ospite» del sistema carcerario, il che peraltro ha anche implicazioni sul voto, essendo, in moltissimi stati, i condannati esclusi dall’elettorato attivo. Gli arresti, poi, sono 3.251 ogni 100 mila abitanti: secondo Aclu, per ogni tre bambini neri nati oggi, uno è destinato ad andare dietro le sbarre.
Questi numeri spaventosi implicano un sistema retto più dalla repressione (rule by force) che dalla legge (rule of law) e dal consenso. Il fattore principale per spiegare questa situazione è un contesto socio-economico di grande degrado, povertà e bassissima mobilità sociale: dati che indicano tensioni che normalmente non trovano una soluzione politica ma repressiva. Vale la pena di notare che il giro di vite sull’uso della prigione come strumento di governo è figlio del neoliberismo: politiche economiche estrattive e di sfruttamento sono state accompagnate dalla criminalizzazione, morale e legale, della povertà da esse provocate. Con Reagan la popolazione carceraria raddoppiò, ma fu poi l’amministrazione Clinton a istituzionalizzare il trend con il famigerato «federal crime bill» (scritto, tra gli altri, da Joe Biden) che portò al moltiplicarsi delle prigioni (con un gigantesco giro di affari) e ovviamente dei detenuti. Non è allora certo un caso che proprio a partire dagli anni Ottanta il gap salariale tra neri e bianchi sia cresciuto: da una parte la polarizzazione del reddito e dall’altra il fatto che un numero sempre maggiore di afroamericani finisca nel sistema penitenziario, perda il lavoro e sia costretto in low-skilled jobs
Il sistema penale è costruito su assi razziali e classisti. Anche tralasciando il sistema di cauzione che è prevalentemente basato sulla ricchezza e non sul rischio di fuga o reiterazione del reato, i «white-collars crimes» sono largamente ignorati, mentre un povero, a maggior ragione se nero, può essere arrestato per i più disparati motivi, come per esempio aver attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali. Innumerevoli sono i casi di cittadini afroamericani fermati, arrestati e poi rilasciati senza nessun motivo. Ciò che è peggio è che, molto spesso, è il portafogli a determinare innocenza o colpevolezza degli imputati a processo. C’è un che di perverso nel funzionamento della giustizia: anche tralasciando gli scandali di mala-giustizia (tipo quello dei Central Park 5, ragazzini neri e ispanici la cui unica colpa era trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato), che sono comunque non aberrazione ma conseguenza del sistema,  i procuratori preferiscono perseguire reati commessi da poveri difesi da legali d’ufficio così da mantenere il loro success rate alto; tralasciando invece i casi complicati contro armate di avvocati con risorse finanziarie pressoché infinite, in grado di tenere sotto scacco la pubblica accusa. Inoltre l’elezione diretta dei procuratori, come nel caso delle elezioni politiche, è fortemente influenzata dal sostegno economico dei più ricchi, che determinano di conseguenza anche la gerarchia dei crimini da perseguire. E quando non ci pensa il sistema giudiziario, interviene direttamente la politica: immunità per i dirigenti sanitari durante la crisi del Covid-19 sotto la presidenza Trump; e immunità per i finanzieri ai tempi di Obama – come ha chiosato Robert Reich «ci sono stati più arresti tra manifestanti e giornalisti nell’ultima settimana che tra banchieri durante la crisi». Ma nessuna pietà per i cittadini «normali», e men che meno per i neri e poveri. 

Il braccio violento della legge

In un contesto del genere, non può sorprendere che la polizia sia una scheggia impazzita ma funzionale al sistema. La repressione, lo abbiamo detto, è una scelta innanzitutto politica e rispecchia una distribuzione del potere che non ha nulla di inclusivo – e non è certo un caso che le società più violente, e quelle dove è maggiore il ricorso al «braccio violento della legge» siano quelle meno inclusive. Prova ne sia che negli Stati uniti la polizia, negli ultimi anni, è diventata a tutti gli effetti un esercito. Fin dai tempi di Clinton l’eccesso di produzione di armi per la forze armate è stato assorbito dalla polizia locale, inclusi tank leggeri che vengono usati per mantenere l’ordine pubblico, come durante le proteste a Ferguson (per l’uccisione, naturalmente, di un altro afroamericano, Michael Brown). Un’escalation militaresca – si pensi che gli interventi delle teste di cuoio sono cresciuti del 1.600% in trent’anni – che nemmeno l’intervento di Obama, a dire il vero piuttosto blando, riuscì a frenare.
A questo va aggiunto un razzismo «istituzionale» delle forze dell’ordine: non solo un retaggio culturale che viene da lontano; non solo un problema di scontro quotidiano nei ghetti più miseri. Ma una vera e propria scelta politica: addirittura l’Fbi ha indagato sui legami tra suprematisti bianchi. La popolazione nera è vittima di continue vessazioni; e proprio le scene di questi ultimi mesi e settimane danno un’idea drammatica di forze di polizia che nemmeno tentano di nascondere la loro partigianeria: spedizioni armate di cittadini bianchi platealmente ignorate mentre si bastonavano a più non posso manifestazioni pacifiche antirazziste.  
C’è un legame sistemico tra politica locale e polizia che va ben al di là dell’appartenenza partitica. Il caso più clamoroso è quello di Rahm Emmanuel, già capo di gabinetto di Obama, che si distinse come sindaco di Chicago per aver tentato in tutti i modi, insieme al procuratore, di insabbiare l’orrida vicenda di Laquan McDonald, un ragazzo assassinato con 16 colpi da un poliziotto con relativo depistaggio: tutto filmato, tutto a conoscenza delle autorità, ma che solo il caso portò alla ribalta. L’ottimo exposè su quel caso, girato da Richard Rowley, si intitola non a caso «Blue Wall» (Muro Blu) per sottolineare come dietro l’episodio non ci fosse la classica mela marcia ma un sistema compatto a difesa delle divise (blu). D’altronde la storia della polizia di Chicago è ricca di scandali anche peggiori, incluso un ricorso sistematico alla tortura fino alla fine degli anni Ottanta. E anche un  Democratico progressista e sostenitore di Bernie Sanders come il sindaco di New York Bill De Blasio, che pure aveva avuto qualche problema con la polizia locale, nei giorni scorsi si è affrettato a difendere lo spropositato uso della forza di alcuni agenti della Nypd che avevano tentato di investire con le loro macchine dei dimostranti. Ben peggio fecero i suoi predecessori, dall’incostituzionale e chiaramente razzista stop and frisk di Michael Bloomberg ai proiettili «bum bum» adottati durante l’epoca di Rudolph Giuliani. Allo stesso tempo, i procuratori non hanno incentivo a inimicarsi i poliziotti da cui dipendono per le loro indagini; e anche nei rari casi in cui l’esistenza di video-registrazioni porta a incriminazioni e processi, come nel celeberrimo pestaggio di Rodney King, il sistema rimane dalla parte della polizia: omertà, «spirito di corpo», uso «legittimo» della forza perché in situazioni soggettivamente e arbitrariamente giudicate di pericolo. Quel che risulta è che la polizia, che è organizzata a livello locale, è una istituzione senza check and balance e che gode quindi di un sostanziale livello di impunità che si manifesta in maniera chiara nelle brutalità quotidiane perpetrate; anche quando, raramente, il potere politico è ostile, le forze dell’ordine risultano fondamentalmente intoccabili, un vulnus gravissimo nell’ordinamento democratico.  
Il problema non è dunque, come propongono i Democratici in queste ore, una riforma della polizia: proprio a Minneapolis negli anni scorsi si era implementato un tentativo di riforma, platealmente ignorato e sabotato dalle forze dell’ordine.  Il nucleo della questione risiede nella distribuzione del potere nella società e, di conseguenza, in un sistema penale e di giustizia più inclusivo e non, come appare sempre più evidente, in guerra permanente contro una parte della propria nazione.  

Un contratto sociale rotto

Questi dati danno l’immagine di un «failed state» e in ogni caso di un paese dove il contratto sociale è rotto: seguendo Daron Acemoglu e James Robinson, la concentrazione di ricchezza e un sistema economico estrattivo porta, nei fatti, a un regime oligarchico, con le istituzioni di fatto asservite agli interessi delle élite. Come abbiamo visto, la popolazione afroamericana, rimane una delle principali vittime di questo sistema di potere: non è certo un caso che lo stesso Coronavirus mieta molte più vittime tra le minoranze razziali che tra i bianchi. Alle istituzioni baluardo del privilegio di classe si aggiunge un substrato culturale in cui il razzismo è più vivo che mai: dalla polizia all’alt-right passando per i milionari alla Donald Sterling. Ma che è ancora più viscido perché il «white privilege» è un fenomeno di cui godono tutti i bianchi, che siano o no razzisti. Il problema però va ben oltre il razzismo se pensiamo che, seguendo gli studi di Angus Deaton, è proprio la famigerata «white working class» a essere tra le prime vittime del sistema economico. È inutile girarci intorno: tanto l’elezione di Trump e le manifestazioni fascistoidi di gente armata contro il lockdown, quanto le proteste di questi giorni sono, pur venendo da direzioni completamente opposte, segnali di rottura del contratto sociale. Non mi dilungherò a parlare del significato politico e sociale dei riot, su cui hanno scritto in maniera eloquente Franco Palazzi e Paul Heidemann: basti dire che, come spiegava E.P. Thompson, la rivolta è, in sé stessa, il simbolo di un contratto sociale che non funziona; e una democrazia incapace di risolvere il conflitto (sia esso sociale, razziale, economico, religioso) in maniera pacifica, è, ipso factoun regime in crisi. L’appello al voto di questi giorni, dunque, lascia il tempo che trova – in fondo Joe Biden è quello che si è presentato ai suoi ricchi donors con lo slogan «nulla di fondamentale cambierà». Certo per «Sleepy Joe» queste rivolte potrebbero essere una maniera per ricompattare il fronte sinistro in nome della battaglia anti-razzista, nascondendo sotto il tappeto le tematiche di classe. Sarebbe inutile: seppure il razzismo ha radici storiche e culturali profonde negli Stati uniti, il cuore del problema rimane quel contratto sociale in pezzi. Come ho provato a spiegare altrove, le radici di questa situazione si trovano nella complessa relazione tra mercato e democrazia: un mercato senza controllo che concentra il potere economico e corrompe le istituzioni democratiche. Secondo Colin Crouch, il ciclo neoliberista ha portato a un parziale superamento della democrazia, trasformata in post-democrazia: le istituzioni formali del modello precedente rimangono ma sono vieppiù prosciugate del loro contenuto. Gli Stati uniti sono l’esempio migliore di questo fenomeno – neutralizzazione di fasce importanti dell’elettorato; asservimento del sistema partitico all’élite economica; repressione di massa. La crisi di legittimità di questo regime politico ne segnala però le fondamenta fragili. In questi giorni ne abbiamo avuto l’ennesima prova. 
* Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega Il Mulino.

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