Testo

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domenica 22 luglio 2012

SUNDAY MAGAZINE

Lucy: «La vita Charlie Brown è come una sedia a sdraio! Non sei mai stato su una nave da crociera? Alcuni piazzano la loro sedia a prua: vogliono vedere dove sono già stati. Altri mettono la loro sedia a poppa: vogliono vedere dove stanno andando. Sulla nave della vita, Charlie Brown, dove è la tua sedia a sdraio?»
Charlie Brown: «Non sono mai riuscito ad aprirne una!»





CONTRIBUTI



ROBERTA



Tramonti d’amore.



La sabbia era dolcemente tiepida sotto i piedi: a Gloria piaceva camminare scalza sul bagnasciuga, e soprattutto le piaceva il mare a quell’ora: erano andati via quasi tutti e le ombre si allungavano morbide, si stiravano sotto il venticello carico si salsedine.
Aggiustò sui fianchi il pareo multicolore: a quarantacinque anni vantava ancora un bel corpo,
sodo e sinuoso, anche se non aveva capito quanto desiderio potesse ancora accendere…fino a poche settimane prima.
Non aveva subito creduto alla sua amica, che le sussurrava “ Quello non ti stacca gli occhi di dosso….attenta che non rovesci il vassoio qui sul tavolo…”
Quello era il cameriere del bar dove erano entrate per l’aperitivo: giovane e bello, impossibile che guardasse proprio lei ! Era davvero attraente, il corpo asciutto e armonioso, con i capelli nerissimi un po’ scompigliati sulla fronte che lasciavano intravedere occhi di un marrone caldo…e quel sorriso ! No, impossibile ….



La guardava invece, e la volta successiva le aveva fatto capire che voleva incontrarla dopo il lavoro:
lei era più incuriosita che lusingata, si chiedeva che gioco fosse quello! Gli diede il suo numero, e 
lui ogni giorno le inviava sms appassionati, la pregava di chiamarlo anche solo per pochi minuti,
per sentire la sua voce…alla fine le fece capire senza mezzi termini che voleva fare l’amore con lei.
Il primo impulso di Gloria fu di respingerlo, e decise di incontrarlo per porre fine a quel gioco:
ma una volta davanti a lui, al suo sguardo appassionato e dolce, dimenticò tutte le frasi di circostanza che avevapreparato: pensò a come fino ad allora si fosse dedicata solo a marito e figli,
senza mai chiedere niente, pensò a come il marito la ignorasse per frequentare donne più giovani e belle ( le relazioni di lui con altre erano più di un sospetto) e si disse che da troppo tempo non si guardava allo specchio, da troppo tempo non si sentiva desiderata: si rese conto che le piaceva quello che stava accadendo…
Si ritrovarono a casa di lui, nel suo piccolo appartamento da single, a cucinare insieme e bere vino bianco prima di una notte di dolcezze e scoperte e brividi indimenticabili.
La mattina lei si affacciò presto sul piccolo balcone, a respirare l’aria ancora fredda: sorrise all’idea che da anni non si fermava a guardare l’alba e ad assaporare una piccola struggente felicità.
Carezzò i capelli di lui che ancora dormiva profondamente, grata per quello che le aveva dato:
non sapeva davvero se con lui sarebbe durata e neppure le importava: si sentiva viva e donna, 
si sentiva bene e questo bastava.

Le onde si infrangevano sulla sabbia, facendo rotolare le conchiglie, piccole e lisce:
Gloria ne raccolse una e la lanciò allegramente attraverso l’aria ramata del tramonto.
  




TRANSIT

Capitolo Uno

La mia famiglia è povera. Ah! ah! ah! Molto povera. Eh! eh! eh! Assai poverissima. Ih! ih! ih. Ignorantissima. Oh! oh! oh! E, analfabetissima. Uh! uh! uh! Perché rido? Rido per rabbia e per amore e perché al cuore non si dice tutto e stà a te scoprire le cose della vita che ogni giorno compaiono tra le mani e sotto il naso.
Cosa vuoi farci? Semmai ridere, piangere, giocare e, vivere correndo dalla mattina alla sera e di notte; e, nonostante il cuore forte, affannare di nera speranza. Anche perché se ti ammali e manchi per tre giorni al lavoro, il principale, alla tua telefonata, con gran candore risponde: - Stai a casa, ho autorizzato licenziamento e sostituzione - 
Io mi chiamo Zé Pochiello Ebbasta e tengo sette anni e mezzo e tra due mesi otto. Colomba Mammazezzella è mamma a me e ha il vizio e la buona creanza di dare il suo latte anche agli altri bambini del vicolo alle cui mamme è sparito dalle zizze, succhiato di notte da Mammone Cattivo, l’uomo nero che ruba le criature nelle culle; culle però per modo di dire. I bambini dei vicoli la culla nemmeno la conoscono. Io non so leggere né scrivere: ho abbandonata la scuola un sacco di tempo fa. Però le cose che leggete qua io le dico al mio fratellino gemello vivo, poi c’è anche quello morto, ma di lui vi parlerò in seguito; e Ciruzzo ‘O Cucuzziello, a cui piace andare a scuola, le scrive sui fogli della carta del pane che chiediamo alle altre famiglie. 



*Che tempi. Le Tv e i giornali sciorinano le disavventure dei poveri figli di re, regine e nobili, dei ricchi del capitalismo selvaggio e della grande, media e piccola borghesia. Il tutto condito di fiche depilate, culi e tette. E poi, siamo indifferenti e anestetizzati alle vite in partenza dei poveri. Che tempi. Sono giorni, mesi e anni in tutto è in mano a poliziotti, avvocati e banchieri. Come se la povertà potesse essere affrontata con la violenza del sole per riparaci dal sole.*




E, allora, per non farci mancare niente, specie personalmente, è probabile che io, per metà, dicono che sono un bonaccione. Forse, semmai, più in là, sarò chiuso e introverso. Ma, nella cerchia dei miei amici, sono sorridente e pazzariello. Spesso rabbioso per quelli che muoiono di fame. Però ho una voglia di giocare che finisce sopra la luna. Gli introversi per quanto poveri hanno molto cose da dire, ma non gli va di parlare, perciò si mettono a giocare. E nel gioco mostrano attaccamento, vitalità, entusiasmo. Gli introversi si sfasteriano facilmente, ma quando giocano danno il cuore. Agli introversi manca la faccia tosta. Andare a scuola agli introversi da molto fastidio. E’ sempre materia controversa la scuola per gli introversi che vivono nella povertà. Adesso i saputi Istruiti del Ministero della Lingua, lavandosi la lingua con il sapone di piazza, quello molle e ambrato, chiamano la povertà indigenza. Bisogna tenere la povertà lontana dagli occhi delle masse: è vicinanza cattiva, esotica, ribelle. 



* E a proposito ignoranza e analfabetismo, scrittura e libri, una piccola digressione. Se ho una luce, un nume tutelare, la mia bibbia da seguire di certo è Vincenzo Rabiti. Lui, un siciliano povero, ignorante e analfabeta, è lo scrittore che mi guida. E, prima di lui, un contadino calabrese, ignorante e analfabeta, emigrato negli Stati Uniti: Antonio Margheriti. Non sapeva né leggere e né scrivere e frequentando altri emigranti come lui, tra cui comunisti e anarchici, iniziò a leggere e a scrivere. E così, da solo, come fece Vincenzo Rabiti, un giorno, tra una fatica e l’altra, iniziò a mettere penna su carta. Poi, leggendo Charles Bukowski, seppi di John Fante, ma quest’ultimo di libri poi ne scrisse altri. Invece lo sforzo immane di Antonio Margheriti e Vincenzo Rabiti ha prodotto un sol libro per ciascuno: di sicuro un testamento della loro e altrui vita a futura memoria. E senza nulla togliere all’americano e metropolitano J. Fante, sono loro, Antonio Margheriti, calabrese, e Vincenzo Rabiti, siciliano, che porto come alberi nel cuore. Essi hanno portata in luce le voci dei morti, quelli in vita che soffrono ogni giorno. In ogni loro frase c’erano le vite e le voci dei morti. Quelli che la fatica non finisce mai. La mia scrittura non appartiene a me, ma è di chi non sapeva né leggere e né scrivere. A ogni frase vivo, muoio e rinasco centinaia di volte i morti nella povertà.*


Sono l’ultimo di una carrettata di figli. Mi chiamono ‘o Santariello. Quando mamma era incinta di me aveva quarantotto anni; era una via di mezzo tra una schiava e nonna Belarda, però buona per essere sfruttata dal suo principale e dal capitalismo infame, piuttosto che a una giovane e infoiata sposa novella, per cui eccomi prole della vecchiaia, perciò gli altri ridendo di me dicono: - Mò si spiega perché sei così. – 
Cosi come? chiedo. E loro a schiattarsi dal ridere ancor di più. E forse se non sono tonto sono ingenuo; perciò vicino alla verità; quindi alla morte di una vita di merda.



*Quante vite in quanto tempo l’acqua e le correnti del mare e dei fiumi e della vita trascina con sé. In quanto tempo i volti le mani affannate i respiri oltre l’orizzonte le rughe i pianti nascosti a te.* 

L’abbondanza di miseria e povertà è come un bella storia: c’è qualcosa che riempie. Mettere insieme queste cose è difficile. Penuria. Mi viene da ridere. E’ un esercizio pericoloso ridere. Puoi beccarti tanti schiaffi. Mannaggia la miseria. Stavo per dire che sfortuna, ma non esiste proprio. E la dignità? e l’orgoglio? dove li mettiamo? Dovrei, come chiunque di voi, nascondere la polvere della mia vita da romanzo sotto un tappeto della vergogna e della timidezza? Si sa che in queste cose, ci si mette anche il diavolo: ti pareva, mica poteva mancare prezzemolo ogni minestra. A ogni ora, per tenerci allenati, per non disturbare e rafforzarci nella solitudine delle masse e dell’ammuina, dentro di noi, a squarcia gola, cantiamo: 
Non tengo un euro,
mi fumo la pipa, al tempo dei nostri avi,
e me ne vado a cuccare, dormire.


Ci credo bene. Mettici le ristrettezze giornaliere di ogni tipo, i geloni d’inverno e l’impossibilità di andare al mare in estate: spiagge privatizzate e prezzi alti; ma, per fortuna, almeno così puoi sfogarti, hai la libertà di pronunciare accrescitivi e superlativi, in attesa delle dame di carità; questo è tutto manna e panariello dal cielo. E così, la miseria e la povertà, perdono la loro connotazione di realtà. E, perciò, li puoi fottere con la preghiera, l’isolamento e il piangerti addosso, però:
O ti mangi questa minestra 
o ti butti dalla finestra.



*Innanzitutto voglio precisare che io non ho coscienza di tutto ciò, visto che non sono ancora nato e al momento della nascita che avverrà tra un mese, non avrò di certo già una coscienza … formata; ma, a parte questo, aggiungo a scanso di equivoci che non ho mai rifiutata alcuna minestra e tantomeno dal mio orizzonte quotidiano, da un capo all’altro di vico Lepre ai Ventaglieri a Montesanto in cui abito, non ho mai scartato l’ipotesi, visto l’abbondantissima ristrettezza dei margini di sopravvivenza, di lanciarmi a rotta di collo da una sfaccima di finestra. Ma abitando in una lota di basso, la finestra non c’era e se c’era, misurava appena mezzo metro di altezza. Quelle volte che qualcuno della famiglia ha tentato tutt’al più si è ciaccato e stroppiato la capa, un piede o un braccio.*

Perciò, tutto diventa celestiale e filosofico se sei disposto a relegare in un cantuccio dimenticato, il tuo corpo fatto di materia organica. Corpo schifoso, ma stranamente afflitto da poesia in pronunciata, perché è sempre schiavo dei suoi bassi e luridi bisogni, come una casa, un lavoro, latte e pane e tutta le cose per mangiare e i vestiti per non andare nudo. Offende più la nudità che il freddo. Fanciullesco. Ma bisogna pur recuperare sulla striminzita durezza delle circostanze.
Per fortuna, nella povertà, nulla è dato a caso. Anche qui ci sono i generali e la truppa. Cosicché nella povertà non si nasce a caso: la povertà è un talento, un miscuglio verace tra la carne animale del corpo e l’invisibilità spirito dell’anima. Ma, capisco che non dovrei manco dirlo che la mia famiglia è poverissima. Credo sappiate il perché. Potrei, oltre ogni logica, intenerirmi e questo non è possibile e non va mostrato. Il punto è che quando un tizio qualsiasi dice cose del genere mette in imbarazzo se stesso e gli altri. Ora, conoscete l’affermarsi della disistima pubblica. Però ci sono delle sottili strategie. Per occultarsi e avvantaggiarsi.


Specie quando in un libro parli della tua famiglia e di te. I romanzi camuffati, cioè autobiografici sono la rovina dell’umanità e dei poveri in particolare. Insomma, una vera disgrazia senza fine. I più bei romanzi autobiografici sono quelli orali, quelli parlati nel vento e che mai compariranno sulle pagine dei libri. Oltre alla decenza è anche una questione di scorno e prestigio; sicché camuffarsi, menar il can per l’aia e dire bugie, e occultare servono proprio a nascondersi e a non far capire chi sei sul piano economico e materiale, per non parlare del livello dell’istruzione e di quello culturale. Eh, povera Italia, poveri noi, e in special modo la mia famiglia. Chissà forse è nata disgraziata o era scritto nelle stelle o è il destino già prima di nascere. Poi, come credo sapete bene, si mette di buzzo buono anche il fatalismo: beh, eco la ciliegina sulla torta. 

Certo, arrivare a dire così tanto. Però, ripeto e ribadisco, poverina, la mia famiglia. E potrei aggiungere qualcosina ancora, ma sarebbe come mettere sale sulla coda, il dito nella carne macerata del lebbroso, o scattare, e per finire, una fotografia, d’epoca. Un ultima cosa però voglio dirla, alla gentile offerta che si fa al condannato a morte come se fosse l’ultimo desiderio da esprimere e nei limiti da soddisfare; insomma, quel poverina: la mia famiglia è povera e l’aggiunta, poverina la mia famiglia non avrei dovuto scriverlo mai, ancor più trattandosi dell’incipit del presente. Credo che sia scandalo e puerile, ecco tutto.

E poi, parliamoci chiaro, identificare il personaggio narrante in una poverissima, analfabetissima e disgraziatissima famiglia è davvero scandaloso e …. udite, udite, esecrabile. Comunque, a noi, cioè la mia famiglia, manca tutto. Davvero. Giuro, anche se non si dovrebbe giurare, sull’anima dei morti di famiglia. A noi, manca tutto, anche l’asso, il due e il tre. Quindi, fate voi. E, visto, e toccato, che non teniamo niente, almeno il primato della povertà, lasciatelo alla mia famiglia. Un grazie assai, abbondante e, abbondantissimo, in modo da abbuffarsi e dire: Basta, basta, basta.

Sul latte versato non si piange. Piuttosto si muore su quello agognato. E poi non siamo fermi a un epoca lontanissima: i tempi si evolvono. Però, volevo dire che alla mia famiglia e me non è cascato la busta o la bottiglia del latte dalle mani. Le nostre mani sono come quelli degli animali che si arrampicano addirittura, oltre che sugli alberi, sui muri e persino sugli specchi. 

La mia famiglia, cioè noi, che noi è una parolina molto difficile da pronunciare. Ci puzziamo di fame malamente proprio che la miseria la teniamo azzeccata nella cima dei capelli. Se nel vicolo e nel quartiere ci stà una famiglia che scapuzzea perché va mostrando in giro che è più povera di noi, succede la guerra e il finimondo: a questa abbondanza di povertà e miseria ci siamo sempre stati attaccati come la scazzimma negli occhi, le patelle agli scogli, i pidocchi e i lendini sulle mummarelle d’e criature e i boccagli agli angoli della bocca e, l’odio feroce dell’invidia. Siamo talmente buoni e allo stesso tempo invidiosi che spargiamo bestemmie e maledizioni a ogni momento della giornata. Abbiamo la bava alla bocca. E i morti da ricordare.


Ps: Al momento mi fermo qui.






Le parole altro non sono
che anelli e coltelli.

Gli anelli per legare
carne, ricordi e memoria.

Coltelli nell'aria
a sminuzzare e recidere.

A bocca a bocca baco 
e ragno tessono fili e legami.

A noi la lingua muta
il bacio la solitudine parla

agli incroci di sale
rema il biancore degli occhi.

il non detto dell'anima, 
le reti a strascico 

dragano fiotti di luna,
parole mortali.


10 commenti:

Anonimo ha detto...

Le parole altro non sono
che anelli e coltelli.

Gli anelli per legare
carne, ricordi e memoria.

Coltelli nell'aria
a sminuzzare e recidere.

A bocca a bocca baco
e ragno tessono fili e legami.

A noi la lingua muta
il bacio la solitudine parla

agli incroci di sale
rema il biancore degli occhi.

il non detto dell'anima,
le reti a strascico

dragano fiotti di luna,
parole mortali.

Anonimo ha detto...

Dissipi quieta
I colori
sfrontati
Del cielo

Sfrondi tenace
Dal rumore
del mare
L’anima

Anonimo ha detto...

SONO BRUNACCIO

Grande Transit, stamane sei partito in formissima!
Al solito, a fine giornata o domani, inserirò nel post una selezione degli scritti in commento a mio parere migliori, tue e ovviamente di chiunque volesse cimentarsi.

Anonimo ha detto...

La Sartina


Tramonti d’amore.



La sabbia era dolcemente tiepida sotto i piedi: a Gloria piaceva camminare scalza sul bagnasciuga, e soprattutto le piaceva il mare a quell’ora: erano andati via quasi tutti e le ombre si allungavano morbide, si stiravano sotto il venticello carico si salsedine.
Aggiustò sui fianchi il pareo multicolore: a quarantacinque anni vantava ancora un bel corpo,
sodo e sinuoso, anche se non aveva capito quanto desiderio potesse ancora accendere…fino a poche settimane prima.
Non aveva subito creduto alla sua amica, che le sussurrava “ Quello non ti stacca gli occhi di dosso….attenta che non rovesci il vassoio qui sul tavolo…”
Quello era il cameriere del bar dove erano entrate per l’aperitivo: giovane e bello, impossibile che guardasse proprio lei ! Era davvero attraente, il corpo asciutto e armonioso, con i capelli nerissimi un po’ scompigliati sulla fronte che lasciavano intravedere occhi di un marrone caldo…e quel sorriso ! No, impossibile ….



La guardava invece, e la volta successiva le aveva fatto capire che voleva incontrarla dopo il lavoro:
lei era più incuriosita che lusingata, si chiedeva che gioco fosse quello! Gli diede il suo numero, e
lui ogni giorno le inviava sms appassionati, la pregava di chiamarlo anche solo per pochi minuti,
per sentire la sua voce…alla fine le fece capire senza mezzi termini che voleva fare l’amore con lei.
Il primo impulso di Gloria fu di respingerlo, e decise di incontrarlo per porre fine a quel gioco:
ma una volta davanti a lui, al suo sguardo appassionato e dolce, dimenticò tutte le frasi di circostanza che aveva preparato: pensò a come fino ad allora si fosse dedicata solo a marito e figli,
senza mai chiedere niente, pensò a come il marito la ignorasse per frequentare donne più giovani e belle ( le relazioni di lui con altre erano più di un sospetto) e si disse che da troppo tempo non si guardava allo specchio, da troppo tempo non si sentiva desiderata: si rese conto che le piaceva quello che stava accadendo…
Si ritrovarono a casa di lui, nel suo piccolo appartamento da single, a cucinare insieme e bere vino bianco prima di una notte di dolcezze e scoperte e brividi indimenticabili.
La mattina lei si affacciò presto sul piccolo balcone, a respirare l’aria ancora fredda: sorrise all’idea che da anni non si fermava a guardare l’alba e ad assaporare una piccola struggente felicità.
Carezzò i capelli di lui che ancora dormiva profondamente, grata per quello che le aveva dato:
non sapeva davvero se con lui sarebbe durata e neppure le importava: si sentiva viva e donna,
si sentiva bene e questo bastava.

Le onde si infrangevano sulla sabbia, facendo rotolare le conchiglie, piccole e lisce:
Gloria ne raccolse una e la lanciò allegramente attraverso l’aria ramata del tramonto.




Questo racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Buona Domenica !
Roberta

Anonimo ha detto...

Capitolo Uno

La mia famiglia è povera. Ah! ah! ah! Molto povera. Eh! eh! eh! Assai poverissima. Ih! ih! ih. Ignorantissima. Oh! oh! oh! E, analfabetissima. Uh! uh! uh! Perché rido? Rido per rabbia e per amore e perché al cuore non si dice tutto e stà a te scoprire le cose della vita che ogni giorno compaiono tra le mani e sotto il naso.
Cosa vuoi farci? Semmai ridere, piangere, giocare e, vivere correndo dalla mattina alla sera e di notte; e, nonostante il cuore forte, affannare di nera speranza. Anche perché se ti ammali e manchi per tre giorni al lavoro, il principale, alla tua telefonata, con gran candore risponde: - Stai a casa, ho autorizzato licenziamento e sostituzione -
Io mi chiamo Zé Pochiello Ebbasta e tengo sette anni e mezzo e tra due mesi otto. Colomba Mammazezzella è mamma a me e ha il vizio e la buona creanza di dare il suo latte anche agli altri bambini del vicolo alle cui mamme è sparito dalle zizze, succhiato di notte da Mammone Cattivo, l’uomo nero che ruba le criature nelle culle; culle però per modo di dire. I bambini dei vicoli la culla nemmeno la conoscono. Io non so leggere né scrivere: ho abbandonata la scuola un sacco di tempo fa. Però le cose che leggete qua io le dico al mio fratellino gemello vivo, poi c’è anche quello morto, ma di lui vi parlerò in seguito; e Ciruzzo ‘O Cucuzziello, a cui piace andare a scuola, le scrive sui fogli della carta del pane che chiediamo alle altre famiglie.

In corsivo*

*Che tempi. Le Tv e i giornali sciorinano le disavventure dei poveri figli di re, regine e nobili, dei ricchi del capitalismo selvaggio e della grande, media e piccola borghesia. Il tutto condito di fiche depilate, culi e tette. E poi, siamo indifferenti e anestetizzati alle vite in partenza dei poveri. Che tempi. Sono giorni, mesi e anni in tutto è in mano a poliziotti, avvocati e banchieri. Come se la povertà potesse essere affrontata con la violenza del sole per riparaci dal sole.*


continua

Anonimo ha detto...

E, allora, per non farci mancare niente, specie personalmente, è probabile che io, per metà, dicono che sono un bonaccione. Forse, semmai, più in là, sarò chiuso e introverso. Ma, nella cerchia dei miei amici, sono sorridente e pazzariello. Spesso rabbioso per quelli che muoiono di fame. Però ho una voglia di giocare che finisce sopra la luna. Gli introversi per quanto poveri hanno molto cose da dire, ma non gli va di parlare, perciò si mettono a giocare. E nel gioco mostrano attaccamento, vitalità, entusiasmo. Gli introversi si sfasteriano facilmente, ma quando giocano danno il cuore. Agli introversi manca la faccia tosta. Andare a scuola agli introversi da molto fastidio. E’ sempre materia controversa la scuola per gli introversi che vivono nella povertà. Adesso i saputi Istruiti del Ministero della Lingua, lavandosi la lingua con il sapone di piazza, quello molle e ambrato, chiamano la povertà indigenza. Bisogna tenere la povertà lontana dagli occhi delle masse: è vicinanza cattiva, esotica, ribelle.

In corsivo.

* E a proposito ignoranza e analfabetismo, scrittura e libri, una piccola digressione. Se ho una luce, un nume tutelare, la mia bibbia da seguire di certo è Vincenzo Rabiti. Lui, un siciliano povero, ignorante e analfabeta, è lo scrittore che mi guida. E, prima di lui, un contadino calabrese, ignorante e analfabeta, emigrato negli Stati Uniti: Antonio Margheriti. Non sapeva né leggere e né scrivere e frequentando altri emigranti come lui, tra cui comunisti e anarchici, iniziò a leggere e a scrivere. E così, da solo, come fece Vincenzo Rabiti, un giorno, tra una fatica e l’altra, iniziò a mettere penna su carta. Poi, leggendo Charles Bukowski, seppi di John Fante, ma quest’ultimo di libri poi ne scrisse altri. Invece lo sforzo immane di Antonio Margheriti e Vincenzo Rabiti ha prodotto un sol libro per ciascuno: di sicuro un testamento della loro e altrui vita a futura memoria. E senza nulla togliere all’americano e metropolitano J. Fante, sono loro, Antonio Margheriti, calabrese, e Vincenzo Rabiti, siciliano, che porto come alberi nel cuore. Essi hanno portata in luce le voci dei morti, quelli in vita che soffrono ogni giorno. In ogni loro frase c’erano le vite e le voci dei morti. Quelli che la fatica non finisce mai. La mia scrittura non appartiene a me, ma è di chi non sapeva né leggere e né scrivere. A ogni frase vivo, muoio e rinasco centinaia di volte i morti nella povertà.*

Anonimo ha detto...

Sono l’ultimo di una carrettata di figli. Mi chiamono ‘o Santariello. Quando mamma era incinta di me aveva quarantotto anni; era una via di mezzo tra una schiava e nonna Belarda, però buona per essere sfruttata dal suo principale e dal capitalismo infame, piuttosto che a una giovane e infoiata sposa novella, per cui eccomi prole della vecchiaia, perciò gli altri ridendo di me dicono: - Mò si spiega perché sei così. –
Cosi come? chiedo. E loro a schiattarsi dal ridere ancor di più. E forse se non sono tonto sono ingenuo; perciò vicino alla verità; quindi alla morte di una vita di merda.

In corsivo.*

*Quante vite in quanto tempo l’acqua e le correnti del mare e dei fiumi e della vita trascina con sé. In quanto tempo i volti le mani affannate i respiri oltre l’orizzonte le rughe i pianti nascosti a te.*

L’abbondanza di miseria e povertà è come un bella storia: c’è qualcosa che riempie. Mettere insieme queste cose è difficile. Penuria. Mi viene da ridere. E’ un esercizio pericoloso ridere. Puoi beccarti tanti schiaffi. Mannaggia la miseria. Stavo per dire che sfortuna, ma non esiste proprio. E la dignità? e l’orgoglio? dove li mettiamo? Dovrei, come chiunque di voi, nascondere la polvere della mia vita da romanzo sotto un tappeto della vergogna e della timidezza? Si sa che in queste cose, ci si mette anche il diavolo: ti pareva, mica poteva mancare prezzemolo ogni minestra. A ogni ora, per tenerci allenati, per non disturbare e rafforzarci nella solitudine delle masse e dell’ammuina, dentro di noi, a squarcia gola, cantiamo:
Non tengo un euro,
mi fumo la pipa, al tempo dei nostri avi,
e me ne vado a cuccare, dormire.

Anonimo ha detto...

Ci credo bene. Mettici le ristrettezze giornaliere di ogni tipo, i geloni d’inverno e l’impossibilità di andare al mare in estate: spiagge privatizzate e prezzi alti; ma, per fortuna, almeno così puoi sfogarti, hai la libertà di pronunciare accrescitivi e superlativi, in attesa delle dame di carità; questo è tutto manna e panariello dal cielo. E così, la miseria e la povertà, perdono la loro connotazione di realtà. E, perciò, li puoi fottere con la preghiera, l’isolamento e il piangerti addosso, però:
O ti mangi questa minestra
o ti butti dalla finestra.

In corsivo.

*Innanzitutto voglio precisare che io non ho coscienza di tutto ciò, visto che non sono ancora nato e al momento della nascita che avverrà tra un mese, non avrò di certo già una coscienza … formata; ma, a parte questo, aggiungo a scanso di equivoci che non ho mai rifiutata alcuna minestra e tantomeno dal mio orizzonte quotidiano, da un capo all’altro di vico Lepre ai Ventaglieri a Montesanto in cui abito, non ho mai scartato l’ipotesi, visto l’abbondantissima ristrettezza dei margini di sopravvivenza, di lanciarmi a rotta di collo da una sfaccima di finestra. Ma abitando in una lota di basso, la finestra non c’era e se c’era, misurava appena mezzo metro di altezza. Quelle volte che qualcuno della famiglia ha tentato tutt’al più si è ciaccato e stroppiato la capa, un piede o un braccio.*

Perciò, tutto diventa celestiale e filosofico se sei disposto a relegare in un cantuccio dimenticato, il tuo corpo fatto di materia organica. Corpo schifoso, ma stranamente afflitto da poesia in pronunciata, perché è sempre schiavo dei suoi bassi e luridi bisogni, come una casa, un lavoro, latte e pane e tutta le cose per mangiare e i vestiti per non andare nudo. Offende più la nudità che il freddo. Fanciullesco. Ma bisogna pur recuperare sulla striminzita durezza delle circostanze.
Per fortuna, nella povertà, nulla è dato a caso. Anche qui ci sono i generali e la truppa. Cosicché nella povertà non si nasce a caso: la povertà è un talento, un miscuglio verace tra la carne animale del corpo e l’invisibilità spirito dell’anima. Ma, capisco che non dovrei manco dirlo che la mia famiglia è poverissima. Credo sappiate il perché. Potrei, oltre ogni logica, intenerirmi e questo non è possibile e non va mostrato. Il punto è che quando un tizio qualsiasi dice cose del genere mette in imbarazzo se stesso e gli altri. Ora, conoscete l’affermarsi della disistima pubblica. Però ci sono delle sottili strategie. Per occultarsi e avvantaggiarsi.

Anonimo ha detto...

Specie quando in un libro parli della tua famiglia e di te. I romanzi camuffati, cioè autobiografici sono la rovina dell’umanità e dei poveri in particolare. Insomma, una vera disgrazia senza fine. I più bei romanzi autobiografici sono quelli orali, quelli parlati nel vento e che mai compariranno sulle pagine dei libri. Oltre alla decenza è anche una questione di scorno e prestigio; sicché camuffarsi, menar il can per l’aia e dire bugie, e occultare servono proprio a nascondersi e a non far capire chi sei sul piano economico e materiale, per non parlare del livello dell’istruzione e di quello culturale. Eh, povera Italia, poveri noi, e in special modo la mia famiglia. Chissà forse è nata disgraziata o era scritto nelle stelle o è il destino già prima di nascere. Poi, come credo sapete bene, si mette di buzzo buono anche il fatalismo: beh, eco la ciliegina sulla torta.

Certo, arrivare a dire così tanto. Però, ripeto e ribadisco, poverina, la mia famiglia. E potrei aggiungere qualcosina ancora, ma sarebbe come mettere sale sulla coda, il dito nella carne macerata del lebbroso, o scattare, e per finire, una fotografia, d’epoca. Un ultima cosa però voglio dirla, alla gentile offerta che si fa al condannato a morte come se fosse l’ultimo desiderio da esprimere e nei limiti da soddisfare; insomma, quel poverina: la mia famiglia è povera e l’aggiunta, poverina la mia famiglia non avrei dovuto scriverlo mai, ancor più trattandosi dell’incipit del presente. Credo che sia scandalo e puerile, ecco tutto.

E poi, parliamoci chiaro, identificare il personaggio narrante in una poverissima, analfabetissima e disgraziatissima famiglia è davvero scandaloso e …. udite, udite, esecrabile. Comunque, a noi, cioè la mia famiglia, manca tutto. Davvero. Giuro, anche se non si dovrebbe giurare, sull’anima dei morti di famiglia. A noi, manca tutto, anche l’asso, il due e il tre. Quindi, fate voi. E, visto, e toccato, che non teniamo niente, almeno il primato della povertà, lasciatelo alla mia famiglia. Un grazie assai, abbondante e, abbondantissimo, in modo da abbuffarsi e dire: Basta, basta, basta.

Sul latte versato non si piange. Piuttosto si muore su quello agognato. E poi non siamo fermi a un epoca lontanissima: i tempi si evolvono. Però, volevo dire che alla mia famiglia e me non è cascato la busta o la bottiglia del latte dalle mani. Le nostre mani sono come quelli degli animali che si arrampicano addirittura, oltre che sugli alberi, sui muri e persino sugli specchi.

La mia famiglia, cioè noi, che noi è una parolina molto difficile da pronunciare. Ci puzziamo di fame malamente proprio che la miseria la teniamo azzeccata nella cima dei capelli. Se nel vicolo e nel quartiere ci stà una famiglia che scapuzzea perché va mostrando in giro che è più povera di noi, succede la guerra e il finimondo: a questa abbondanza di povertà e miseria ci siamo sempre stati attaccati come la scazzimma negli occhi, le patelle agli scogli, i pidocchi e i lendini sulle mummarelle d’e criature e i boccagli agli angoli della bocca e, l’odio feroce dell’invidia. Siamo talmente buoni e allo stesso tempo invidiosi che spargiamo bestemmie e maledizioni a ogni momento della giornata. Abbiamo la bava alla bocca. E i morti da ricordare.


Ps: Al momento mi fermo qui.

brunaccio ha detto...

SONO BRUNACCIO.

Bello il racconto di Roberta; quello di Transit lo sto ancora leggendo.
Domani gli aggiornamenti sul post!