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domenica 26 agosto 2012

SUNDAY MAGAZINE

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
(Eugenio Montale)


CONTRIBUTO DI ROBERTA
LA LUCE SUL TORRENTE


“Girati un po’ verso destra…ecco la testa inclinata, però cerca di non tenere la mascella rigida…”


Niente da fare: Alessia è molto bella ma non riesce proprio a lasciarsi andare.

Come tante altre modelle che ho conosciuto, si prende troppo sul serio e arriva a raffreddare ogni scatto, anche quelli che dovrebbero essere i più veri.

Già non amo fare foto in studio, quando poi la modella non collabora…ma forse è colpa mia,

sono stanco e con quest’atmosfera artificiosa mi sento soffocare.

Alla fine cedo: “Prendiamoci una pausa, esco a fumare una sigaretta”

“Ok…come vuoi” dice Alessia, ma con evidente sollievo.

Insieme alle sigarette afferro la mia Canon reflex: hanno ragione a dire che sono un po’ fissato,

quando cammino per strada mi viene spesso l’idea di fotografare le cose più disparate:

una scalinata, un cornicione, il getto di una fontana, le sbarre in un cancello.

“Saresti capace di scovare la bellezza anche in un cartello di divieto di sosta”

mi ha detto una volta il mio amico Gianni, ridendo: però non si è poi allontanato dal vero: mi piace osservare tutto da una visuale diversa, registrare sempre nuove impressioni.

Questa parte della città è piuttosto vecchia e passerei giornate intere nei suoi vicoli:

mi addentro in una piazzetta, piccoli balconi fioriti a colori vivissimi sembrano esplodere

come fuochi d’artificio sulla pietra scura.

Metto a fuoco un gioco di petunie bianche e fucsia: la visione viene disturbata da qualcuno che apre le persiane per affacciarsi.

Sposto l’obiettivo: la vedo, una polo arancio vivo e jeans scuri, capi un po’maschili che non riescono a dissimulare l’intensa femminilità di chi li indossa.

Avrà più o meno quarantacinque anni: i capelli scuri con riflessi rossi sono tenuti su da un fermaglio improvvisato; il corpo è piacevolmente pieno, i fianchi e le cosce tirano forse un po’ troppo il jeans.

Incuriosita si volta a guardarmi: un viso tondo e materno, ma che lascia affiorare un’aura di sensualità tale da farmi vacillare un attimo; spalanca gli occhi scuri con un misto di meraviglia e di divertimento…oddio, da quanto tempo non vedo un volto così vero, così disteso nella sua semplice bellezza….scatto senza pensarci, una, due, tre foto.

Mi rendo conto all’improvviso che sto facendo la figura dello stupido, così sul marciapiede con la Canon puntata in aria: l’abbasso, le chiedo semplicemente se posso fare ancora qualche scatto.

“A che cosa? “ mi chiede lei senza malizia” basta che non inquadri me…no, no, per carità, sono in uno stato pietoso!” e cerca di nascondersi con una mano all’altezza del viso, prima di eclissarsi tra le persiane.


Torno lentamente allo studio: Alessia sta masticando una barretta ipocalorica, sorseggia la sua bottiglia di acqua povera di sodio e mi dice che in un paio di minuti è pronta.

“ Fai con calma” le rispondo paziente.

*****
Siamo arrivati: anche a lei piace molto il posto, qui dove il torrente forma una piccola cascata, in questa culla fitta di vegetazione: una gradevole oasi di silenzio e trasparenze verdi.

Inizio a preparare l’attrezzatura, mentre lei passeggia e si guarda intorno, rilassata, felice, così come vorrei vederla nei miei lavori.

Sono contento di averla cercata quel giorno.


Dopo i pochi scatti rubati con la Canon reflex, ero tornato per darle le copie delle foto, e ancora di più per conoscerla.

Una mattina avevo semplicemente suonato alla sua porta, con la certezza quasi assoluta che mi avrebbe mandato a quel paese: invece lei mi aveva riconosciuto dal videocitofono, era scesa in strada scusandosi:

“Mia madre non sta bene e adesso riposa, non voglio che si agiti.”

Le avevo teso la busta con le foto e lei aveva sorriso:

“Prendiamo un caffè? C’è un bar tranquillo qui a due passi…”

Quello era stato il primo di diversi caffè, in diverse settimane: a poco a poco nella penombra tranquilla del bar la nostra amicizia aveva preso forma, le nostre storie erano state via via raccontate.

La mia, di storia, era piuttosto breve: il grande amore naufragato pochi mesi prima del matrimonio,

l’altra conosciuta per caso e sposata senza troppe illusioni: andavamo avanti così da anni, senza drammi e senza sogni.

Lei mi aveva detto di essere tornata in città da poco, per stare con sua madre che era di salute malferma, ma soprattutto per via del marito: quasi vent’anni più di lei, lo aveva sposato giovanissima, rinunciando alla carriera di modella e a tutti i suoi progetti.

“Una volta il nostro matrimonio era perfetto, lui mi adorava, mi trovava stupenda…ma negli ultimi anni ha iniziato a guardare donne sempre più giovani, quasi coetanee di nostro figlio che adesso va all’Università: ha iniziato a dire che ho qualche chilo di troppo, che le smagliature si notano, che sono diventata sciatta e che trascuro il mio guardaroba… e anche che per colpa mia la sua virilità non è più quella di un tempo. Sì, perché lui non accetta di avere superato i sessant’anni e di non avere più la potenza di un ventenne.

Ho cercato di fargli capire in tutti i modi che non mi importa, che lo amo sempre e va bene anche così, ma lui è diventato sempre più sordo e distante.

Alla fine ha trovato come amante una ventitreenne dell’Europa dell’Est, alta, slanciata come una gazzella:

me lo ha annunciato trionfante dopo l’ennesima lite, con lei sì che si sentiva un vero uomo,

con lei sì che le notti erano sfrenate ed appaganti…l’ha sistemata nel nostro appartamento al mare, con il suo pincher nano e i suoi vestiti, certo più sexy dei miei.

Lo avrei ancora perdonato, in fondo si sa che queste cose non durano e che sarebbe presto tornato da me: ma un giorno li ho visti insieme, mentre ero in centro con un’amica.

Credimi, avrei preferito provare gelosia, infuriarmi e soffrire. Invece ho provato solo tanta tristezza: lui era così patetico, con i suoi occhi adoranti e i capelli assurdamente tinti di castano; lei così volgare, fasciata in un abitino di jersey lucido da bancarella, con una collana di finto argento e gemme di vetro: una ragazzina sola arrivata qui per sfuggire alla miseria, che serra la bocca e il cuore per accettare le carezze di un uomo tanto più grande di lei, e si sforza di inventare moine sempre nuove per coprire il suo disgusto.

No, era tutto troppo brutto e misero: me ne sono andata quella sera stessa, sono tornata qui da mia madre: questo è il mio rifugio, il mio ritorno a casa; voglio stare sola per un po’ e non pensare, soprattutto agli uomini.

Più di uno ha provato ad avvicinarmi, ma davvero non me la sento adesso.”

Mi guardava come per scusarsi: l’avevo rassicurata.

“Io non voglio provarci con te: voglio solo fotografarti.

Non potrei mai usare una scusa così banale per un approccio: è solo che sei così bella…”

Il pomeriggio avanza: lei all’inizio era tesa e incerta, fissava l’obiettivo come fosse davanti a un’arma impietosa, pronta a far emergere i suoi difetti: temeva di mettere in evidenza la cellulite, il seno un po’ cadente, le piccole rughe sul collo: mi ha guardato scettica quando ho cercato di spiegarle.

Non riuscivo a farle capire che proprio le sue imperfezioni raccontano la sua storia, di donna che non si è negata all’amore e alla maternità, al gusto del cibo delle carezze dei giochi, al peso dei problemi, alla vita vissuta intera, fuori dalla prigione di specchi fasulli e di forme clonate dal bisturi.

Non è stato facile spiegare, perché le parole mi abbandonavano a ogni inquadratura, e se stavo sudando non era per via del sole; poi pian piano ha ceduto alle mie rassicurazioni, e adesso si sta mostrando in tutta la sua straordinaria, vitale bellezza.

Le immagini trapassano prepotenti la mia mente, prima ancora che i miei sofisticati obiettivi:

lei accoccolata sull’erba, sorridente leonessa pronta al balzo;

scalza, i piedi in equilibrio sulla bassa biforcazione di un tronco, dea selvatica mimetizzata tra le foglie;

nel mezzo del torrente, l’acqua a lambire i polpacci, il lembo dell’abito maliziosamente sollevato

per non bagnarlo, le spalline un po’ scese a scoprire l’attaccatura del seno;

sdraiata sulla riva, i lunghi capelli sparpagliati sui ciottoli bianchi, il corpo abbandonato alle carezze del sole che gioca tra le foglie;

inginocchiata, il volto chino sull’acqua, la mano protesa a sfiorare una foglia galleggiante.

Continuo a scattare, deciso a non perdere neppure un istante di questi momenti, quasi trattenendo il respiro per paura di rompere questo sottile incantesimo.

Il sole sta per calare, lei ha un brivido di freddo:

“E’ meglio che andiamo” dice semplicemente, raccogliendo il giacchino e le scarpe, che infila con difficoltà sul terreno sassoso.

Torniamo in città quasi senza parlare durante il tragitto: solo quando sto per lasciarla davanti al portone, si volta verso di me e all’improvviso mi bacia.

Un bacio dolce e leggero: “ Grazie “ sussurra, “grazie per quello che mi hai dato oggi:

non credevo di potermi più sentire bella, non più ormai…ma tu ci sei riuscito…sei un tesoro...”

Scende velocemente dalla macchina, ma non abbastanza: riesco ad afferrare l’immagine una lacrima che scorre sulla guancia e si tuffa nel vuoto.

*******

Era stata la sua amica Daniela a parlarle della mostra: aveva trovato un opuscolo in un negozio, e l’aveva convinta ad accompagnarla:

“ Mostra e poi un aperitivo in centro: un sabato pomeriggio diverso…non vorrai sempre stare rinchiusa in casa, no?”

Lei aveva avuto un attimo di emozione leggendo il nome sull’opuscolo, ma non si era sentita di deludere l’amica e aveva accettato.

Adesso stavano ammirando bellissimi paesaggi e scorci urbani, e Franca, assorta, non si accorse subito che Daniela si era allontanata, aveva raggiunto un’altra ala del salone che ospitava la mostra fotografica:

la vide tornare con gli occhi accesi dallo stupore, afferrarla per un braccio e quasi trascinarla verso

una parete in fondo.

“Guarda qua “ le disse, con un tono di voce piuttosto alto, che fece voltare più di un visitatore

“ Ma dico io, sono la tua migliore amica, ti porto a questa mostra e non mi dici niente???”

Si guardò intorno a continuò, però a voce più bassa:

“Quando mi avresti detto che hai fatto da modella al grande Claudio Torresi? Non lo sai?

È diventato famoso dopo che hanno pubblicato i suoi lavori su quella rivista importantissima…

Hai capito quale?

Insomma volevi farmi prendere un colpo? Comunque è davvero molto bravo: in queste foto sei splendida, una dea!” Daniela non riusciva quasi a capacitarsi di ciò che aveva davanti agli occhi.

“Non immagini quanto hai ragione: lui davvero mi ha fatto sentire una dea”

pensò Franca, guardando le immagini di quel pomeriggio al torrente: sorrise, ma ancora una volta fece fatica a trattenere una lacrima.

CONTRIBUTI DI TRANSIT


Lasciati andare alla coscienza del corpo, del cuore, della mente della pelle.

Queste cose vanno sempre insieme: non dividerle mai, soffrono amaramente.
Non ti sto parlando di religione né di altro: parlo di te, di me, di noi.
Chi deve dirci il grado di sofferenza e il suo profondo totale rispetto?
E chi può guardarci negli occhi, senza abbassarli e parlare d'amore; questo amore di vita negata?
Chi deve scrivere con il proprio sangue dove passa il vento e cosa lascia se non chi lascia la vita?
Chi parlerà a noi se la semina per l'oggi e il domani é stata la legge della rapina e l'abbandono?
Chi più di te di me di noi. Chi il respiro, la prosopopea, l'acqua,la fame, l'amore, l'abbandono di sé.

Cinquantatre


Eravamo cinquantatre. Un numero: uno come un altro. Ma i numeri, dallo scarno mutismo, nascondono sempre qualcosa: persino la luna, i pianeti e le stelle, e senza dubbio la fossa dei leoni. I numeri come uomini, animali, natura e anche l’aria che è invisibile. Per certuni, i numeri, son fredda ostilità e, per altri, felicità di calcolo; e ci sono numeri che per altri ancora, nella loro vita, assumono e hanno un ruolo come se fossero destini incrociati di accumulazione, addizione, moltiplicazione e scassi e scarti di ogni genere. E, anche, disperato gioco di tragedia. Gioco nel gioco. Numero come destino; numero come rovina. Lasciamoli al loro destino, dunque, i numeri. Abbiamo già i nostri, di destini, con e senza numeri.
Ma, dei cinquantatre, di cui ho accennato, in sei, senza sapere né leggere e né scrivere, d’altronde noi, me compreso, che ho fatto parte dei cinquantatre, come potevamo già saper leggere e scrivere, piccoli com’eravamo, tanto piccoli da essere accolti in un palmo di mano? Oggi più di ieri, in un mondo in cui si predica il bene é si è preda della ferocia, bisogna saper leggere e scrivere la realtà cannibale in cui viviamo.
Cannibalismo che si accentuerà e che no sarà riconosciuto tale; e che assumerà sfaccettature cangianti, spesso surreali e ridanciane e sporche di fango e, bellissime.
Tra l’altro, qui da noi, dove fui accolto e vivo attualmente, perché di mesi ne sono passati parecchi da quando iniziò questa storia; e, giusto per dirne una tra le tante, specie qui, il 47 corrisponde, nella numerazione e classificazione del lotto, un gioco qui molto seguito e puntato, da essere gioco d’azzardo e dialogo con i defunti, come è la vita forse, al morto che parla.
Però, mi sono chiesto come fa un morto a parlare se ormai è morto; qui, la gente, il popolino va sempre al camposanto di Poggioreale a parlare sulle tombe con i propri morti. Non si sa mai, ma i numeri per un terno ci scappano sempre. Ecco, il morto che parla. Sogno, il morto che parla e i numeri. Per noi però non c’è stato nessun accostamento tra sogni e numeri. E incubi. Nessun sogno, ma realtà.
Dicevo che in partenza eravamo in cinquantatre meno i sei morti, cioè Sciascillo, Puzzetta, Sbuffo, Sbirulina, Cane di pezza, Sciocchina, Zorro e Fiore di Maggio, risultato, quarantasette. Loro, i sei, andati via per sempre e noi qui, ancora. Il vostro cronista al momento sono solo io.
Come mi chiamo?
All’inizio di questa storia, anch’io non conoscevo il mio nome, e se un nome mi fu dato, né lo conosco né lo ricordo. Ma quando parlano i baci, le carezze, i sospiri, le paure in agguato, i trasalimenti, il calore della pelle cosa si può aggiungere?
Può parlare altro quando si è stati vicini e adesso si è lontani? La vicinanza ci fa cupi e la lontananza parla la lingua del cielo.
Io, come gli altri, fui strappato da lei presto. Poi, arrivato qui, dopo una disputa, mi hanno dato un nome e poi un altro. Potrei chiamarmi con uno dei tanti nomi sulla faccia della terra. Addirittura potrei chiamarmi con il famoso leggendario nome di Nessuno. Ma a me ne hanno messo uno banale, però mi sto affezionando. Un nome è come un cane; ci si affeziona. E si va avanti. Tutti assieme.

Ps: E' un racconto a cui sto lavorando da una settimana. Pensavo di completarlo per oggi, ma il protagonista non fa che prendersi la parola.

E' lui a raccontare la storia dei Cinquantatre.
Ognuno ha un nome e così combattono l'oblio che li annienta. Chi si salverà? Si salveranno? E le lacrime e il dolore li riscatteranno? Chi piangerà per il loro reciproco amore? Chi difenderà quelli che si salveranno? Hanno occhi per vedere, ma non possono ostacolare nessuna minaccia e si muovono alla mercé altrui. Eppure basterebbe un cuore ... possibile, un cuore?

11 commenti:

Anonimo ha detto...

SONO BRUNACCIO.

La poesia di oggi è un classicissimo della letteratura italiana contemporanea, che forse è già apparsa in qualche commento di vecchi magazine (ormai è un pezzo che ne facciamo).
Ma, rileggendola, ho pensato che fosse interessante rimetterla perchè è una poesia che parla, con una meravigliosa essenzialità, di quelli che, col linguaggio odierno, vengono chiamati 'stati alterati di coscienza'.
Cos'è uno stato alterato di coscienza?
Sono quei momenti di particolare forza in cui il soggetto perde in qualche modo cognizione dello spaziotempo e del mondo delle cause e degli effetti: può essere un'intensa esperienza artistica, un impegno sportivo, fare all'amore, l'effetto di allucinogeni o la particolare concentrazione nella lettura... insomma quei momenti intensissimi che, nelle varie situazioni, ogni uomo ha sperimentato.
Montale ci dice infatti, attraverso la tecnica del correlativo oggettivo, che la visione della natura mostra la sofferenza ed il male di vivere.
La via d'uscita, l'unico bene che lui ha saputo, è appunto il prodigio che dischiude la divina indifferenza (ed è giustissimo il termine divina, perchè un dio, se c'è, è fuori dello spaziotempo e delle costrizioni della causalità), cioè quei momenti, sempre espressi nei correlativi oggettivi, in cui l'attimo è tutto ed è fuori dallo scorrere normale delle cose.

Anonimo ha detto...

SEMPRE BRUNACCIO.
Sono in pausa dal lavoro e aggiungo una nota veloce, che il tempo è poco.
Un altro superclassico della poesia italiana che affronta il tema degli stati di coscienza, o che perlomeno in qualche modo li tocca, è L'Infinito di Leopardi, capolavoro assoluto, dove quel 'naufragar'che è 'dolce' parla, in qualche modo, dello stesso 'mare'.
Una postilla: la ragione umana, fondata sullo spaziotempo e la causalità, non perde assolutamente di valore davanti a questi concetti, perchè senza la ragione non saremmo capaci di capire la peculiarità di quegli attimi in cui la coscienza è quasi astratta dal contingente e dal transeunte e dunque non saremmo nemmeno capaci di comprenderli.

Anonimo ha detto...

sono roberta

anche a me piace moltissimo questa poesia...
penso però ai mali di vivere che oggi sembrano più incombenti che in altre epoche...

dopo questo capolavoro,
io do il mio ben più modesto contributo...
http://www.liberaeva.com/1autori/9/lasartinaLaluce.htm

Anonimo ha detto...

BRUNACCIO.

Ciao Roberta,
ho appena fatto in tempo a leggere il commento.
Non so se oggi riuscirò a leggere il tuo scritto e a postarlo; spero di sì.
Nel caso, come sempre, ogni valutazione e aggiornamento andrà a domani.

....................

Una precisazione sul mio commento: quel 'comprenderli' del finale era 'gustarli' (altrimenti sarebbe un pleonasmo), perchè ciò che non si comprende non può essere consapevolmente gustato.
Anche il dolore fortissimo altera la coscienza, ma il dolore ti lascia la percezione dello spaziotempo e della causalità, non fosse altro perchè speri che il dolore finisca e dunque resta la normale tensione al futuro, che negli istanti di cui stiamo trattando viene invece meno.

Anonimo ha detto...

non preoccuparti...so che quando si lavora il tempo è tiranno....ciao, buona domenica !
roberta

Transit ha detto...

Lasciati andare alla coscienza del corpo, del cuore, della mente della pelle.

Queste cose vanno sempre insieme: non dividerle mai, soffrono amaramente.

Non ti sto parlando di religione né di altro: parlo di te, di me, di noi.

Chi deve dirci il grado di sofferenza e il suo profondo totale rispetto?

E chi può guardarci negli occhi, senza abbassarli e parlare d'amore; questo amore di vita negata?

Chi deve scrivere con il proprio sangue dove passa il vento e cosa lascia se non chi lascia la vita?

Chi parlerà a noi se la semina per l'oggi e il domani é stata la legge della rapina e l'abbandono?

Chi più di te di me di noi. Chi il respiro, la prosopopea, l'acqua,la fame, l'amore, l'abbandono di sé.

Anonimo ha detto...

Grande Transit...
è sempre un piacere leggerti...

Transit ha detto...

Cinquantatre



Eravamo cinquantatre. Un numero: uno come un altro. Ma i numeri, dallo scarno mutismo, nascondono sempre qualcosa: persino la luna, i pianeti e le stelle, e senza dubbio la fossa dei leoni. I numeri come uomini, animali, natura e anche l’aria che è invisibile. Per certuni, i numeri, son fredda ostilità e, per altri, felicità di calcolo; e ci sono numeri che per altri ancora, nella loro vita, assumono e hanno un ruolo come se fossero destini incrociati di accumulazione, addizione, moltiplicazione e scassi e scarti di ogni genere. E, anche, disperato gioco di tragedia. Gioco nel gioco. Numero come destino; numero come rovina. Lasciamoli al loro destino, dunque, i numeri. Abbiamo già i nostri, di destini, con e senza numeri.

Ma, dei cinquantatre, di cui ho accennato, in sei, senza sapere né leggere e né scrivere, d’altronde noi, me compreso, che ho fatto parte dei cinquantatre, come potevamo già saper leggere e scrivere, piccoli com’eravamo, tanto piccoli da essere accolti in un palmo di mano? Oggi più di ieri, in un mondo in cui si predica il bene é si è preda della ferocia, bisogna saper leggere e scrivere la realtà cannibale in cui viviamo.

Cannibalismo che si accentuerà e che no sarà riconosciuto tale; e che assumerà sfaccettature cangianti, spesso surreali e ridanciane e sporche di fango e, bellissime.

Tra l’altro, qui da noi, dove fui accolto e vivo attualmente, perché di mesi ne sono passati parecchi da quando iniziò questa storia; e, giusto per dirne una tra le tante, specie qui, il 47 corrisponde, nella numerazione e classificazione del lotto, un gioco qui molto seguito e puntato, da essere gioco d’azzardo e dialogo con i defunti, come è la vita forse, al morto che parla.

Però, mi sono chiesto come fa un morto a parlare se ormai è morto; qui, la gente, il popolino va sempre al camposanto di Poggioreale a parlare sulle tombe con i propri morti. Non si sa mai, ma i numeri per un terno ci scappano sempre. Ecco, il morto che parla. Sogno, il morto che parla e i numeri. Per noi però non c’è stato nessun accostamento tra sogni e numeri. E incubi. Nessun sogno, ma realtà.

Dicevo che in partenza eravamo in cinquantatre meno i sei morti, cioè Sciascillo, Puzzetta, Sbuffo, Sbirulina, Cane di pezza, Sciocchina, Zorro e Fiore di Maggio, risultato, quarantasette. Loro, i sei, andati via per sempre e noi qui, ancora. Il vostro cronista al momento sono solo io.

Come mi chiamo?

All’inizio di questa storia, anch’io non conoscevo il mio nome, e se un nome mi fu dato, né lo conosco né lo ricordo. Ma quando parlano i baci, le carezze, i sospiri, le paure in agguato, i trasalimenti, il calore della pelle cosa si può aggiungere?
Può parlare altro quando si è stati vicini e adesso si è lontani? La vicinanza ci fa cupi e la lontananza parla la lingua del cielo.

Io, come gli altri, fui strappato da lei presto. Poi, arrivato qui, dopo una disputa, mi hanno dato un nome e poi un altro. Potrei chiamarmi con uno dei tanti nomi sulla faccia della terra. Addirittura potrei chiamarmi con il famoso leggendario nome di Nessuno. Ma a me ne hanno messo uno banale, però mi sto affezionando. Un nome è come un cane; ci si affeziona. E si va avanti. Tutti assieme.



Ps: E' un racconto a cui sto lavorando da una settimana. Pensavo di completarlo per oggi, ma il protagonista non fa che prendersi la parola.
E' lui a raccontare la storia dei Cinquantatre.
Ognuno ha un nome e così combattono l'oblio che li annienta. Chi si salverà? Si salveranno? E le lacrime e il dolore li riscatteranno? Chi piangerà per il loro reciproco amore? Chi difenderà quelli che si salveranno? Hanno occhi per vedere, ma non possono ostacolare nessuna minaccia e si muovono alla mercé altrui. Eppure basterebbe un cuore ... possibile, un cuore?

Anonimo ha detto...

SONO BRUNACCIO.

Allora, ho letto il solo racconto di Roberta e devo dire che è molto bello.
Mi ha colpito la grande attenzione e precisione nel descrivere luoghi e situazioni fino ai minimi dettagli, e questo è un grande merito, perchè è in questo modo che una narrazione passa dall'astrazione al senso di vita vissuta, e soprattutto è calzantissimo in un racconto che parla di fotografia.
Il particolare del pincher nano, ad esempio, è fantastico: sembra di vedere la scena.

Oggi più di questo non riesco a fare.
Domani leggerò anche il lavoro di Transit e aggiornerò il post: questa prendiamola come un'anteprima! ;-)

Anonimo ha detto...

ROBERTA

Grazie Brunaccio...
beh mi sono fatta aiutare da un amico fotografo, ho cercato di descrivere le sue impressioni e le sue foto ovviamente...
Transit certo sa che abbiamo ammirato molto la sua splendida poesia....
Transit, perchè non vieni su facebook, così le leggiamo più facilmente ???

Anonimo ha detto...

BRUNACCIO

Ragazzi, sto provando ad aggiornare il post, ma oggi la piattaforma fa i capricci.
Tenterò dopo!

Transit.
Ho letto la poesia: una bomba!!!
Continuo a stupirmi della tua ricettività poetica; anche stavolta hai trasformato discorsi puramente concettuali in lirica.
Sul racconto, aspetto di finire le parti che verranno per esprimermi...almeno sei costretto a continuarlo! :-)