da http://comune-info.net/2013/01/cambiamo-grammatica-intervista-a-john-holloway/
L’ultima grande crisi del capitale si risolse con la Seconda guerra mondiale e con il massacro di cinquanta milioni di persone. John Holloway pensa che il rischio di una nuova ecatombe sia reale ma che la crisi è anche un’espressione dell’incapacità da parte del capitale di sottomettere il nostro fare alla sua logica. Possiamo aprire crepe nel tessuto della sua dominazione.
L’ultima grande crisi del capitale si risolse con la Seconda guerra mondiale e con il massacro di cinquanta milioni di persone. John Holloway pensa che il rischio di una nuova ecatombe sia reale ma che la crisi è anche un’espressione dell’incapacità da parte del capitale di sottomettere il nostro fare alla sua logica. Possiamo aprire crepe nel tessuto della sua dominazione.
John Holloway è una mosca bianca nel campo intellettuale della sinistra, a livello mondiale. Disconosce ogni centralità dello Stato nel percorso per raggiungere cambiamenti significativi all’interno della società. Irlandese di nascita, vive in Messico da oltre vent’anni, dove insegna alla Universidad Autónoma de Puebla. In questa intervista con Tiempo Argentino difende i movimenti sociali che furono protagonisti delle proteste del dicembre 2001, la «ribellione creativa» delle organizzazioni sociali che nascono nel fermento della crisi europea e la perdita di senso del concetto classico di «rivoluzone». Nel 2002, la pubblicazione di Cambiare il mondo senza prendere il potere ha provocato una scossa nella discussione dentro la sinistra, in particolare con la tesi secondo la quale un mondo di dignità non si può creare a partire dallo Stato.
Dieci anni dopo, la situazione del mondo non sembra migliorata ma semmai è accaduto tutto il contrario. Si può ancora pensare un cambiamento sociale che escluda lo Stato come punto di partenza?
È chiaro che dal 2001-2002 i tempi sono cambiati, soprattutto in Argentina. Il mondo capitalista è però sempre più indegno, sempre più osceno. È ancora più urgente pensare come possiamo rompere quella dinamica di distruzione che è il capitale. Questa rottura non si può fare a partire dallo Stato semplicemente perché lo Stato è una forma di organizzazione che, per la sua storia, i suoi elementi amministrativi, le sue entrate, è profondamente integrata alla riproduzione del capitale. Bisogna pensare invece nei termini della lunga tradizione anti-statale che esiste fin dall’inizio nel movimento anticapitalista, cioè nelle assemblee, nelle comuni, nei consigli. Si tratta di riappropriarci del mondo. Vale per l’Argentina di undici anni fa, ma anche tutta l’ondata di lotte degli ultimi due anni, dagli indignados a Occupy. Il flusso mondiale della ribellione si muove continuamente.
Lei ascrive grande importanza al concetto di «rottura». Quali esempi esistono nella logica capitalista attuale? Non è più valido il concetto classico di rivoluzione?
Dobbiamo rompere la dinamica nella quale siamo intrappolati, la dinamica del capitale. Non si tratta solo di migliorare un po’ le cose ma di rompere con la logica del denaro e del profitto e di sviluppare un’altra logica, un’altra dinamica sociale, un’altra forma di coesione sociale. Si tratta di camminare in senso contrario o di camminare aprendo crepe nel tessuto della dominazione, cioè di creare spazi o momenti di negazione-e-creazione. spazi o momenti dove diciamo: «No, non seguiremo la corrente del mondo, costruiremo un’altra cosa». In realtà, credo che lo stiamo già facendo di continuo, credo che la ribellione anticapitalista sia la cosa più comune del mondo. Ci sono crepe enormi come l’insieme dei movimenti dell’Argentina del 2001-2002, come la ribellione zapatista, che continua creare il proprio mondo a distanza di quasi vent’anni dall’insurrezione, o come le recenti esplosioni di ribellione creativa della Grecia e della Spagna. Oppure si può pensare a esempi più modesti, come i centri sociali o le fabbriche recuperate o le radio alternative, oppure, semplicemente, alle ribellioni della vita quotidiana, quando lottiamo contro la subordinazione di tutti gli aspetti della nostra vita alla logica del capitale. Più importanti dei miei esempi saranno quelli che sapranno trovare i lettori. È chiaro che abbiamo bisogno di una rivoluzione ma il fatto che non siamo riusciti a farla ancora, dopo tante lotte, vuol dire che dobbiamo ripensarne continuamente il significato. Vuol dire, cioè, pensare a come possiamo rompere la dinamica attuale e crearne un’altra. Invece di pensare alla rivoluzione come a una pugnalata nel cuore del capitale, dovremmo pensare che la miglior forma di uccidere il capitale è attraverso migliaia o milioni di puntura di api. Noi siamo le api.
Come si colloca questa sua posizione nell’ambito di una sinistra, che, in linea generale, ha sempre lottato per conquistare lo Stato?
Faccio fatica a collocarmi in una certa posizione nell’ambito della sinistra. Per me l’importante è quello di cui parlavamo all’inizio, cioè la risonanza seguita alla pubblicazione di «Cambiare il mondo». Credo che sia stata soprattutto la ricerca disperata di nuovi modi per pensare alla possibilità di superare il capitalismo, la consapevolezza crescente, non solo in Argentina ma in ogni parte del mondo, che non sia possibile fare un cambiamento radicale attraverso lo Stato. Se quello che scrivo occupasse una posizione dentro questa ricerca – dentro questa emersione di agire-pensare che sta fluendo nel mondo, che sta provocando eruzioni vulcaniche un giorno in Argentina, un altro in Bolivia e poi in Grecia, in Egitto, etc. – allora sarei molto contento.
Si può pensare ad alcune azioni – come Cuevana, per socializzare film in Argentina, oppure, in passato, Napster per la musica – che sfuggono alle forme mercantili ma poi sono rapidamente represse dallo Stato. Come si concepisce questo nel contesto delle sue posizioni?
Stiamo aprendo crepe in continuazione, come per gli esempi citati. Lo Stato e il denaro le rincorrono, ci reprimono, ci cooptano. Ma siamo più veloci. La crisi del capitale è un’espressione della sua incapacità di subordinare la nostra attività alla sua logica, è un’espressione della sua ottusità. Dobbiamo avere fiducia nella nostra creatività, nella nostra velocità. Con l’idea dell’anti-potere voglio sottolineare soprattutto l’asimmetria. La diffusa convinzione che il solo modo di vincere contro di loro (i capitalisti, i potenti) sia quello di giocare al loro gioco – un esercito contro un altro esercito, un partito contro un altro, la violenza contro la violenza – non ci porta da nessuna parte, semplicemente perché stiamo riproducendo le strutture che vogliamo eliminare. La lotta per un’altra società è necessariamente asimmetrica rispetto alle relazioni di potere esistenti. Abbiamo un’altra logica, giochiamo un altro gioco, facciamo le cose in un altro modo, creiamo altre relazioni sociali. A volte, si dice che queste lotte siano pre-figurative di qualcosa, ma in realtà non sono pre-niente: sono parte di un nuovo mondo che già stiamo creando. Qui e ora. Se il potere è un sostantivo, l’anti-potere è un verbo.
Ma si può davvero immaginare un cambiamento nei rapporti di produzione capitalista in un paese come l’Argentina? Qui, dove una timida discussione sulla distribuzione di un punto della rendita agraria o dei diritti per una licenza della Tv provocano uno scompiglio con accuse di “marxismo” al governo da parte dei gruppi di potere?
Capisco la preoccupazione ma credo ci sia bisogno di cambiare grammatica. Se pensiamo a uno Stato che cerchi di imporre misure che tocchino certi interessi come forza esterna, è chiaro che ci sarà opposizione. Bisognerebbe pensare invece alla creazione di altri modi per prendere le decisioni, in assemblea, per esempio. In un’assemblea ci sono sempre differenze di opinioni e di interessi, ma si cercano modi per arrivare alla comprensione e al consenso. La questione del comunismo, o, meglio, del mettere in comune, non è una questione del «che» ma del «come». La cosa importante è l’organizzazione dell’auto-determinazione sociale: lo Stato e la politica di rappresentanza non sono organismi di autodeterminazione perché escludono la gente dal controllo della sua vita. Dobbiamo pensare altre forme per affermare le nostre volontà. Suona difficile, ma sappiamo che in tutto il mondo la democrazia rappresentativa è in crisi. Una crisi che potrebbe anche concludersi in un’ecatombe…
In che fase siamo della crisi internazionale?
La crisi finanziaria non ci ha ancora spinto all’ecatombe, ma se uno pensa che l’ultima grande crisi del capitale si risolse attraverso la Seconda guerra mondiale e il massacro di cinquanta milioni di persone, è chiaro che esiste un pericolo reale che l’attuale crisi possa portarci a un’ecatombe davvero. È cambiato poco in relazione al potere della finanza ma il potere della finanza è semplicemente espressione del potere del capitale, cioè delle conseguenze dell’organizzazione attuale della società. L’unico modo di rompere con questa organizzazione è dire «No» e fare le cose in un altro modo. Credo sia questa la proposta del movimento degli indignados. Da una parte un «Basta! Non possiamo continuare così»; e dall’altro un «Allora, facciamo le cose in un altro modo».
È chiaro che dal 2001-2002 i tempi sono cambiati, soprattutto in Argentina. Il mondo capitalista è però sempre più indegno, sempre più osceno. È ancora più urgente pensare come possiamo rompere quella dinamica di distruzione che è il capitale. Questa rottura non si può fare a partire dallo Stato semplicemente perché lo Stato è una forma di organizzazione che, per la sua storia, i suoi elementi amministrativi, le sue entrate, è profondamente integrata alla riproduzione del capitale. Bisogna pensare invece nei termini della lunga tradizione anti-statale che esiste fin dall’inizio nel movimento anticapitalista, cioè nelle assemblee, nelle comuni, nei consigli. Si tratta di riappropriarci del mondo. Vale per l’Argentina di undici anni fa, ma anche tutta l’ondata di lotte degli ultimi due anni, dagli indignados a Occupy. Il flusso mondiale della ribellione si muove continuamente.
Lei ascrive grande importanza al concetto di «rottura». Quali esempi esistono nella logica capitalista attuale? Non è più valido il concetto classico di rivoluzione?
Dobbiamo rompere la dinamica nella quale siamo intrappolati, la dinamica del capitale. Non si tratta solo di migliorare un po’ le cose ma di rompere con la logica del denaro e del profitto e di sviluppare un’altra logica, un’altra dinamica sociale, un’altra forma di coesione sociale. Si tratta di camminare in senso contrario o di camminare aprendo crepe nel tessuto della dominazione, cioè di creare spazi o momenti di negazione-e-creazione. spazi o momenti dove diciamo: «No, non seguiremo la corrente del mondo, costruiremo un’altra cosa». In realtà, credo che lo stiamo già facendo di continuo, credo che la ribellione anticapitalista sia la cosa più comune del mondo. Ci sono crepe enormi come l’insieme dei movimenti dell’Argentina del 2001-2002, come la ribellione zapatista, che continua creare il proprio mondo a distanza di quasi vent’anni dall’insurrezione, o come le recenti esplosioni di ribellione creativa della Grecia e della Spagna. Oppure si può pensare a esempi più modesti, come i centri sociali o le fabbriche recuperate o le radio alternative, oppure, semplicemente, alle ribellioni della vita quotidiana, quando lottiamo contro la subordinazione di tutti gli aspetti della nostra vita alla logica del capitale. Più importanti dei miei esempi saranno quelli che sapranno trovare i lettori. È chiaro che abbiamo bisogno di una rivoluzione ma il fatto che non siamo riusciti a farla ancora, dopo tante lotte, vuol dire che dobbiamo ripensarne continuamente il significato. Vuol dire, cioè, pensare a come possiamo rompere la dinamica attuale e crearne un’altra. Invece di pensare alla rivoluzione come a una pugnalata nel cuore del capitale, dovremmo pensare che la miglior forma di uccidere il capitale è attraverso migliaia o milioni di puntura di api. Noi siamo le api.
Come si colloca questa sua posizione nell’ambito di una sinistra, che, in linea generale, ha sempre lottato per conquistare lo Stato?
Faccio fatica a collocarmi in una certa posizione nell’ambito della sinistra. Per me l’importante è quello di cui parlavamo all’inizio, cioè la risonanza seguita alla pubblicazione di «Cambiare il mondo». Credo che sia stata soprattutto la ricerca disperata di nuovi modi per pensare alla possibilità di superare il capitalismo, la consapevolezza crescente, non solo in Argentina ma in ogni parte del mondo, che non sia possibile fare un cambiamento radicale attraverso lo Stato. Se quello che scrivo occupasse una posizione dentro questa ricerca – dentro questa emersione di agire-pensare che sta fluendo nel mondo, che sta provocando eruzioni vulcaniche un giorno in Argentina, un altro in Bolivia e poi in Grecia, in Egitto, etc. – allora sarei molto contento.
Si può pensare ad alcune azioni – come Cuevana, per socializzare film in Argentina, oppure, in passato, Napster per la musica – che sfuggono alle forme mercantili ma poi sono rapidamente represse dallo Stato. Come si concepisce questo nel contesto delle sue posizioni?
Stiamo aprendo crepe in continuazione, come per gli esempi citati. Lo Stato e il denaro le rincorrono, ci reprimono, ci cooptano. Ma siamo più veloci. La crisi del capitale è un’espressione della sua incapacità di subordinare la nostra attività alla sua logica, è un’espressione della sua ottusità. Dobbiamo avere fiducia nella nostra creatività, nella nostra velocità. Con l’idea dell’anti-potere voglio sottolineare soprattutto l’asimmetria. La diffusa convinzione che il solo modo di vincere contro di loro (i capitalisti, i potenti) sia quello di giocare al loro gioco – un esercito contro un altro esercito, un partito contro un altro, la violenza contro la violenza – non ci porta da nessuna parte, semplicemente perché stiamo riproducendo le strutture che vogliamo eliminare. La lotta per un’altra società è necessariamente asimmetrica rispetto alle relazioni di potere esistenti. Abbiamo un’altra logica, giochiamo un altro gioco, facciamo le cose in un altro modo, creiamo altre relazioni sociali. A volte, si dice che queste lotte siano pre-figurative di qualcosa, ma in realtà non sono pre-niente: sono parte di un nuovo mondo che già stiamo creando. Qui e ora. Se il potere è un sostantivo, l’anti-potere è un verbo.
Ma si può davvero immaginare un cambiamento nei rapporti di produzione capitalista in un paese come l’Argentina? Qui, dove una timida discussione sulla distribuzione di un punto della rendita agraria o dei diritti per una licenza della Tv provocano uno scompiglio con accuse di “marxismo” al governo da parte dei gruppi di potere?
Capisco la preoccupazione ma credo ci sia bisogno di cambiare grammatica. Se pensiamo a uno Stato che cerchi di imporre misure che tocchino certi interessi come forza esterna, è chiaro che ci sarà opposizione. Bisognerebbe pensare invece alla creazione di altri modi per prendere le decisioni, in assemblea, per esempio. In un’assemblea ci sono sempre differenze di opinioni e di interessi, ma si cercano modi per arrivare alla comprensione e al consenso. La questione del comunismo, o, meglio, del mettere in comune, non è una questione del «che» ma del «come». La cosa importante è l’organizzazione dell’auto-determinazione sociale: lo Stato e la politica di rappresentanza non sono organismi di autodeterminazione perché escludono la gente dal controllo della sua vita. Dobbiamo pensare altre forme per affermare le nostre volontà. Suona difficile, ma sappiamo che in tutto il mondo la democrazia rappresentativa è in crisi. Una crisi che potrebbe anche concludersi in un’ecatombe…
In che fase siamo della crisi internazionale?
La crisi finanziaria non ci ha ancora spinto all’ecatombe, ma se uno pensa che l’ultima grande crisi del capitale si risolse attraverso la Seconda guerra mondiale e il massacro di cinquanta milioni di persone, è chiaro che esiste un pericolo reale che l’attuale crisi possa portarci a un’ecatombe davvero. È cambiato poco in relazione al potere della finanza ma il potere della finanza è semplicemente espressione del potere del capitale, cioè delle conseguenze dell’organizzazione attuale della società. L’unico modo di rompere con questa organizzazione è dire «No» e fare le cose in un altro modo. Credo sia questa la proposta del movimento degli indignados. Da una parte un «Basta! Non possiamo continuare così»; e dall’altro un «Allora, facciamo le cose in un altro modo».

4 commenti:
SONO BRUNACCIO
A me queste di Holloway paiono solo belle chiacchiere, anzi espresse in contesti prerivoluzionari come quello latinoamericano, un volano ideologico controrivoluzionario come spesso involontariamente succede ai trotzkisti.
Peraltro su questi punti aveva già fatto chiarezza a suo tempo il compagno Lenin: il soviet è l'autogoverno e la 'rottura' come la chiama lui; sul rapporto con lo Stato massimo machiavellismo: partecipazioni alle elezioni e finanche ai governi borghesi dove utile per migliorare le condizioni del proletariato con orizzonte rivoluzionario di fondo.
Ma un movimento che vuole essere rivoluzionario non può non aspirare alla presa del potere, perchè se non si prende il potere ci si estingue e non si fa la rivoluzione.
A meno che non si consideri -e Holloway come molta sinistra borghese e post trotzkista fa- rivoluzionaria l'esperienza zapatista e la sua 'rivoluzione senza presa del potere'...non essendoci materie prime o punti strategici gli zapatisti vengono sostanzialmente tollerati dagli yankes, che li avrebbero massacrati tutti se ci fossero state risorse strategiche. In un contesto rivoluzionario agire come stanno facendo gli zapatisti ne avrebbe decretato la morte politica e fisica in pochi mesi.
Ecco perchè temo molto l'esaltazione dello zapatismo come fenomeno rivoluzionario esportabile: quando si scelgono modelli e interpretazioni politiche romantiche poi anche le analisi sul nostro territorio escono falsate (ex falso sequitur quodlibet come diceva tanto tempo fa Duns Scoto).
SEMPRE BRUNACCIO
Torno sul concetto di contropotere (la 'rottura' come la chiama Holloway).
In un contesto come il nostro è imprescindibile sviluppare un contropotere solidale e di mutualità, ma sempre con l'orizzonte di trasformarlo in forza politica capace di incidere sullo Stato trasformando in norma universale e generale il frutto delle lotte del contropotere. Se l'esperienza sul territorio non produce sintesi politica egemone e capace di incidere ad alti livelli (in attesa di fare la rivoluzione, che senza un lavoro politico precedente anche a livello generale è impensabile...il socialismo va costruito attraverso diversi passaggi anche teorici e non solo esperienziali) si depotenzia, si estingue e muore o viene recuperata dal Capitale.
In fin dei conti lo zapatismo è suggestione per noi occidentali ma non ha alcuno spazio nella costruzione delle forze realmente rivoluzionarie dell'America Latina, quali Chavez o Morales hanno rappresentato e rappresentano insieme a Cuba che è il vero agente rivoluzionario dell'area.
hola!
sono molto daccordo con le tesi di Holloway. Solo attraverso migliaia e migliaia di "crepe"(come le definisce l'autore stesso nella sua ultima pubblicazione: "crack capitalism" ed. Derive Approdi) possiamo pensare ad un cambiamento.
Capisco che queste tesi possano sembrare utopistiche e che l'esperienza zapatista in senso stretto sia probabilmente non esportabile al di fuori della Selva, tuttavia quello che ho colto da questa intervista e da altre pubblicazioni, è l'esigenza di trovare e sperimentare forme differenti di protesta. Concordo sul fatto che riprodurre gli stessi meccanismi che si vogliono contrastare non sta portando da nessuna parte ed allora credo sia necessario provare a percorrere strade diverse. La società cambia molto velocemente ed anke le forme di "resistenza" alla logica capitalista devono mutare. Ognuno di noi può aprire "crepe" nella sua vita quotidiana e soprattutto può instaurare forme di socialità e cooperazione (il progetto Precari United nasce proprio dall'esigenza di socializzare e mettere in relazione storie analoghe con il fine di creare forme di cooperazione e legami), sperimentare nuove forme di welfare, di lavoro, di stili di vite,...
massimino
SONO BRUNACCIO.
Ma queste crepe devono produrre una sintesi politica e traformarsi in presa del potere o no?
Ripeto, Holloway nel discorso delle crepe dice una cosa vecchia quanto la storia socialista anche se lo dice in versione 2.0, per cui è inevitabile essere d'accordo su una pupulistata intellettuale del genere.
Ma il secondo passo, che Holloway sembra rifiutare, va fatto o no?
Perchè è nella concezione del potere che si mostra se siamo davanti ad una protesta che la borghesia può integrare o a una concezione realmente rivoluzionaria.
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