Evo Morales vince alla grande le elezioni boliviane e conferma la forza del bolivarismo in Latino America.
Se ne parlerà attraverso due articoli: uno di Carotenuto di valutazione generale, e un altro che spiega il perchè di una delle decisioni più contestate di Evo a livello internazionale, ovvero l'abbassamento dell'età del lavoro minorile.
da http://www.gennarocarotenuto.it/27683-come-mai-evo-morales-rivinto-mani-basse-in-bolivia/
Rispettando tutte le previsioni Evo Morales si è riconfermato presidente in Bolivia con una maggioranza schiacciante che dovrebbe superare il 60% dei voti e i due terzi dei seggi in Parlamento, più che doppiando il principale avversario neoliberale Doria Medina.Governa dal 2006 e continuerà a lungo. Come mai succede ciò rispetto a quell’improbabile personaggio senza studi superiori (ma con al suo fianco come vice Álvaro García Linera, forse il più importante intellettuale latinoamericano contemporaneo), a lungo sbeffeggiato dalla stampa internazionale e che in Italia fu addirittura insultato come “narco-indio fuori di testa”? Ancora in queste ore “Il Fatto quotidiano” definisce Evo Morales “chavista”, come se fosse uno stigma e come se ciò spiegasse qualcosa. Ricordo ancora le perplessità di molti rispetto a quel linguaggio non particolarmente forbito di Evo in un ateneo romano e al non farsi incasellare in schemi della sinistra tradizionale. Forse era più facile capire la Bolivia come stato coloniale, razzista, di proprietà di pochi ma era meno facile capire il progetto di Stato plurinazionale in grado di pensare il benessere di tutti i boliviani: benessere materiale e spirituale. Come mai allora mette d’accordo tutti quel ragazzo dall’infanzia povera, quell’uomo timido che aveva attraversato mille volte l’enorme paese andino nel suo incessante lavoro sindacale in difesa dei lavoratori più svantaggiati, quelli della coltura tradizionale di coca, coltivo che ha difeso fino alle nazioni unite? Quell’uomo umile che, anche da presidente, è stato più volte capace di dire pubblicamente “ho sbagliato” (prezzo del gas, Tipnis…) e tornare indietro su decisioni già prese senza che questo sia interpretato come debolezza?
Succede perché il governo Morales è il migliore, più stabile e più rappresentativo di due secoli di tumultuosa e instabile storia boliviana. Succede perché sta smantellando le basi dello stato coloniale, dipendente e razzista che nessun suo predecessore aveva mai davvero messo in discussione. Succede perché per la prima volta nella storia il bla bla della retorica nazionalista è stato sostituito dai fatti di una nuova forma di religione civile. Succede perché la gran parte dei boliviani sta meglio di quanto non fosse mai stata prima. Succede perché lo Stato è un attore protagonista dello sviluppo del paese e non più un fattore di corruttela e instabilità.
La decisione chiave, ebbi la fortuna che me lo spiegasse personalmente Evo nel 2007 a Cochabamba, fu senza alcun dubbio la nazionalizzazione degli idrocarburi. Quello che a Salvador Allende col rame costò la vita nel XXI secolo è potuto succedere nonostante lunghi anni di destabilizzazione e la costante demonizzazione dei media nazionali e internazionali. È con la nazionalizzazione degli idrocarburi, una bestemmia per la teocrazia mercatista che governa il mondo, che uno stato semi-fallito come quello boliviano è diventato attivo e si è trasformato in motore di sviluppo e di benessere per i propri cittadini. Con Evo il PIL della Bolivia è triplicato come è triplicato il reddito medio dei boliviani mettendo in piedi un circolo virtuoso che fa sì che l’esclusione si riduca a vista in un paese dove il salario minimo è passato da 65 a 210$. Con Evo le riserve internazionali della Bolivia sono su percentuali maggiori di quelle della stessa Cina. Con Evo la povertà estrema di un paese pauperrimo si è ridotta dal 38 al 15% e chissà mai che davvero non si riesca a sradicarla completamente, liberando la donne e l’uomo dal bisogno. Con Evo l’Unesco ha proclamato nel 2008 la Bolivia paese libero dall’analfabetismo e ha permesso ai medici cubani di effettuare 650.000 operazioni gratuite agli occhi, prima impedite dal modello di salute neoliberale che condannava masse di indigenti alla cecità.
Ma tutto ciò si accompagna ad altro d’immateriale, una rivoluzione del buon vivere e della dignità, una rivoluzione che ha fatto tutti i boliviani cittadini. Occhi europei storcono il naso rispetto all’estetica della cosiddetta nuova “borghesia aymara”, o considerano kitsch l’architettura di Freddy Mamani che sta ridisegnando gusti e tendenze del nuovo benessere, arrivano perfino a guardare con sospetto quella nuova commistione tra El Alto (la periferia disagiata) e La Paz, data dal teleferico, come se quell’unione tra due mondi che nella separatezza sembravano dividere bene e male corrompesse, come se il benessere corrompesse e la Bolivia dovesse in eterno continuare ad incarnare un rassicurante disagio archetipico. Non è così, il mondo cambia anche in meglio e con Evo, in pace e democrazia.
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da http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/07/bolivia-perche-morales-vuole-abbassare-leta-del-lavoro-minorile/1051846/
Non era, ne sono convinto, mai accaduto prima. O, almeno, non da quando, agli albori del capitalismo, Charles Dickens aveva da par suo provveduto a denunciare gli orrori dello sfruttamento minorile nella tenebrosa Londra vittoriana. Da quegli anni lontani – o, più precisamente, da quando il lavoro dei bambini e degli adolescenti è, nel furore della rivoluzione industriale, diventato un problema etico-politico – nessun governo aveva mai emesso leggi tese, non ad elevare l’età minima lavorativa, come la decenza e l’umana pudicizia suggeriscono, bensì ad abbassarla. Nel caso specifico: da 14 a 12 anni.
Eppure proprio questo è successo. Ed è successo, per colmo di paradosso, proprio in uno dei paesi che della lotta contro gli abusi ed i maltrattamenti ai danni dell’infanzia (l’infanzia più povera e derelitta, quella, per l’appunto, dei bambini che lavorano) ha fatto una delle sue più enfatizzate bandiere. Vale a dire: in quello Stato Multinazionale di Bolivia la cui Costituzione – approvata per referendum nel luglio del 2006 – come poche altre al mondo sottolinea i diritti delle parti più umili, dimenticate o, come nel caso delle etnie pre-colombiane, discriminate, dello spettro sociale.
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Come è potuto accadere? Per capirlo occorre tornare allo scorso 17 dicembre, quando, in quel di La Paz, alcune centinaia di bambini ed adolescenti, percorso in corteo il centro della città, cercarono di guadagnare accesso al Palacio Quemado (la sede della presidenza) e vennero piuttosto brutalmente respinti, con manganellate e gas lacrimogeni, dalla polizia.Che cosa chiedevano quei bambini?Chiedevano di poter lavorare. O più esattamente: intendevano protestare contro il nuovo Código de la Niñez y Adolescencia, una legge che – allora già approvata da uno dei due rami del Parlamento Multinazionale – puntava ad approfondire i diritti allo studio ed alla salute di bambini ed adolescenti. Il tutto, ovviamente, confermando a 14 anni – in sintonia con tutte le convenzioni internazionali – l’età minima lavorativa.
Un’assurdità? Un’aberrazione? In parte, certamente. Ma molto meno di quel che d’acchito appare. Quei bambini erano, infatti, parte dei 15.000 minori membri della UNATsBO (Unión de niños y adolescentes trabajadores de Bolivia), un’organizzazione sindacale (e non l’unica in America Latina) che difende i diritti – quello al lavoro incluso – dell’infanzia che lavora. E questo sulla base d’un paio di considerazioni che probabilmente farebbero rivoltare nella tomba il buon Dickens – per non dire di Marx ed Engels –, ma che non pochi giudicano, nel contesto boliviano, tutt’altro che peregrine. E che certo tali (tutt’altro che peregrine) sono state giudicate da Evo Morales, il primo presidente indio del paese, il quale, dopo gli incidenti del 17 dicembre, ha preso decisamente le parti dell’UNATsBO, appoggiando la richiesta di abbassare – come poi di fatto sancito dal nuovoCódigo – i limiti dell’attività lavorativa.
Una doverosa premessa prima di spiegare in che cosa consistano le ‘considerazioni’ di cui sopra. Stando ad una indagine condotta nel 2008, ci sono in Bolivia poco meno di un milione di bambini lavoratori. E la parte più brutalmente sfruttata di questa manodopera di riserva lavora, in condizioni molto prossime a quelle della schiavitù, nel profondo delle miniere, nelle piantagioni di canna da zucchero o in lavori domestici nelle città. Contro questo tipo di sfruttamento – che ovviamente nessuno appoggia – il governo boliviano ha conseguito, in sintonia con quanto accaduto in quasi tutto il resto dell’America Latina nell’ultimo decennio, rilevanti successi. C’è però un’altra e molto diffusa forma di lavoro infantile – quella che, soprattutto nelle aree rurali, si consuma nell’ambito famigliare – che secondo la UNATsBO ed una parte delle NGO che si occupano del problema sarebbe controproducente combattere con meri criteri proibizionisti (ovvero: proibendo ai bambini di lavorare prima dei 14 anni). E questo fondamentalmente per due ragioni. Pratica la prima e, per così dire, ‘filosofica’ la seconda.
La prima (non dissimile, nella sostanza, da quella usata in favore della legalizzazione della prostituzione) è in sintesi questa: un divieto sancito dalla legge non solo non affronta, in sé, le cause del fenomeno, ma le nasconde e moltiplica. Accettare la realtà del lavoro minorile significa, in effetti, renderlo ‘visibile’ e più facilmente attaccabile con misure adeguate. Ovvio esempio (dalla nuova legge fatto proprio); obbligando le famiglie a mandare a scuola il figlio-lavoratori. La seconda: il lavoro infantile non solo è una necessità per famiglie povere, ma è anche, da sempre, parte di quella ‘cultura comunitaria’ che la Costituzione del 2006 con forza difende e promuove come retaggio di civiltà fino a ieri marginalizzate ed umiliate. In sostanza: il lavoro è in questo caso, per i bambini, non una forma di sfruttamento, ma una forma di educazione, uno strumento di crescita e di partecipazione alla vita della comunità.
Giusto? Sbagliato? La verità sta, probabilmente in qualche parte dello spazio che separa questi due estremi. Molto prossima al giusto per Evo Morales, la UNATsBO e non poche ONG. Molto a ridosso dello sbagliato per la Organizzazione Internazionale del Lavoro, per gran parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e per tutti coloro che, come il sottoscritto, pensano che il lavoro minorile sia, in tutte le sue espressioni, il primo strumento di riproduzione della povertà.
Di certo c’è questo: l’abbassamento dell’età lavorativa è, in Bolivia, parte – la parte oscura, se vogliamo – d’una idea politica. La stessa idea, affascinante e molto ambiguamente ‘rivoluzionaria’, che ha fatto della Bolivia uno Stato Plurinazionale, formato da diverse etnie le cui culture, legalmente o di fatto, diventano legge. Anche quando significano lavoro minorile o, volendo toccare un altro ed ancor più dolente punto, la pratica del linciaggio. Una storia appena cominciata. E che ancora stenta ad incontrare il suo punto d’equilibrio.
Se ne parlerà attraverso due articoli: uno di Carotenuto di valutazione generale, e un altro che spiega il perchè di una delle decisioni più contestate di Evo a livello internazionale, ovvero l'abbassamento dell'età del lavoro minorile.
da http://www.gennarocarotenuto.it/27683-come-mai-evo-morales-rivinto-mani-basse-in-bolivia/
Rispettando tutte le previsioni Evo Morales si è riconfermato presidente in Bolivia con una maggioranza schiacciante che dovrebbe superare il 60% dei voti e i due terzi dei seggi in Parlamento, più che doppiando il principale avversario neoliberale Doria Medina.Governa dal 2006 e continuerà a lungo. Come mai succede ciò rispetto a quell’improbabile personaggio senza studi superiori (ma con al suo fianco come vice Álvaro García Linera, forse il più importante intellettuale latinoamericano contemporaneo), a lungo sbeffeggiato dalla stampa internazionale e che in Italia fu addirittura insultato come “narco-indio fuori di testa”? Ancora in queste ore “Il Fatto quotidiano” definisce Evo Morales “chavista”, come se fosse uno stigma e come se ciò spiegasse qualcosa. Ricordo ancora le perplessità di molti rispetto a quel linguaggio non particolarmente forbito di Evo in un ateneo romano e al non farsi incasellare in schemi della sinistra tradizionale. Forse era più facile capire la Bolivia come stato coloniale, razzista, di proprietà di pochi ma era meno facile capire il progetto di Stato plurinazionale in grado di pensare il benessere di tutti i boliviani: benessere materiale e spirituale. Come mai allora mette d’accordo tutti quel ragazzo dall’infanzia povera, quell’uomo timido che aveva attraversato mille volte l’enorme paese andino nel suo incessante lavoro sindacale in difesa dei lavoratori più svantaggiati, quelli della coltura tradizionale di coca, coltivo che ha difeso fino alle nazioni unite? Quell’uomo umile che, anche da presidente, è stato più volte capace di dire pubblicamente “ho sbagliato” (prezzo del gas, Tipnis…) e tornare indietro su decisioni già prese senza che questo sia interpretato come debolezza?
Succede perché il governo Morales è il migliore, più stabile e più rappresentativo di due secoli di tumultuosa e instabile storia boliviana. Succede perché sta smantellando le basi dello stato coloniale, dipendente e razzista che nessun suo predecessore aveva mai davvero messo in discussione. Succede perché per la prima volta nella storia il bla bla della retorica nazionalista è stato sostituito dai fatti di una nuova forma di religione civile. Succede perché la gran parte dei boliviani sta meglio di quanto non fosse mai stata prima. Succede perché lo Stato è un attore protagonista dello sviluppo del paese e non più un fattore di corruttela e instabilità.
La decisione chiave, ebbi la fortuna che me lo spiegasse personalmente Evo nel 2007 a Cochabamba, fu senza alcun dubbio la nazionalizzazione degli idrocarburi. Quello che a Salvador Allende col rame costò la vita nel XXI secolo è potuto succedere nonostante lunghi anni di destabilizzazione e la costante demonizzazione dei media nazionali e internazionali. È con la nazionalizzazione degli idrocarburi, una bestemmia per la teocrazia mercatista che governa il mondo, che uno stato semi-fallito come quello boliviano è diventato attivo e si è trasformato in motore di sviluppo e di benessere per i propri cittadini. Con Evo il PIL della Bolivia è triplicato come è triplicato il reddito medio dei boliviani mettendo in piedi un circolo virtuoso che fa sì che l’esclusione si riduca a vista in un paese dove il salario minimo è passato da 65 a 210$. Con Evo le riserve internazionali della Bolivia sono su percentuali maggiori di quelle della stessa Cina. Con Evo la povertà estrema di un paese pauperrimo si è ridotta dal 38 al 15% e chissà mai che davvero non si riesca a sradicarla completamente, liberando la donne e l’uomo dal bisogno. Con Evo l’Unesco ha proclamato nel 2008 la Bolivia paese libero dall’analfabetismo e ha permesso ai medici cubani di effettuare 650.000 operazioni gratuite agli occhi, prima impedite dal modello di salute neoliberale che condannava masse di indigenti alla cecità.
Ma tutto ciò si accompagna ad altro d’immateriale, una rivoluzione del buon vivere e della dignità, una rivoluzione che ha fatto tutti i boliviani cittadini. Occhi europei storcono il naso rispetto all’estetica della cosiddetta nuova “borghesia aymara”, o considerano kitsch l’architettura di Freddy Mamani che sta ridisegnando gusti e tendenze del nuovo benessere, arrivano perfino a guardare con sospetto quella nuova commistione tra El Alto (la periferia disagiata) e La Paz, data dal teleferico, come se quell’unione tra due mondi che nella separatezza sembravano dividere bene e male corrompesse, come se il benessere corrompesse e la Bolivia dovesse in eterno continuare ad incarnare un rassicurante disagio archetipico. Non è così, il mondo cambia anche in meglio e con Evo, in pace e democrazia.
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da http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/07/bolivia-perche-morales-vuole-abbassare-leta-del-lavoro-minorile/1051846/
Non era, ne sono convinto, mai accaduto prima. O, almeno, non da quando, agli albori del capitalismo, Charles Dickens aveva da par suo provveduto a denunciare gli orrori dello sfruttamento minorile nella tenebrosa Londra vittoriana. Da quegli anni lontani – o, più precisamente, da quando il lavoro dei bambini e degli adolescenti è, nel furore della rivoluzione industriale, diventato un problema etico-politico – nessun governo aveva mai emesso leggi tese, non ad elevare l’età minima lavorativa, come la decenza e l’umana pudicizia suggeriscono, bensì ad abbassarla. Nel caso specifico: da 14 a 12 anni.
Eppure proprio questo è successo. Ed è successo, per colmo di paradosso, proprio in uno dei paesi che della lotta contro gli abusi ed i maltrattamenti ai danni dell’infanzia (l’infanzia più povera e derelitta, quella, per l’appunto, dei bambini che lavorano) ha fatto una delle sue più enfatizzate bandiere. Vale a dire: in quello Stato Multinazionale di Bolivia la cui Costituzione – approvata per referendum nel luglio del 2006 – come poche altre al mondo sottolinea i diritti delle parti più umili, dimenticate o, come nel caso delle etnie pre-colombiane, discriminate, dello spettro sociale.
Pubblicità
Come è potuto accadere? Per capirlo occorre tornare allo scorso 17 dicembre, quando, in quel di La Paz, alcune centinaia di bambini ed adolescenti, percorso in corteo il centro della città, cercarono di guadagnare accesso al Palacio Quemado (la sede della presidenza) e vennero piuttosto brutalmente respinti, con manganellate e gas lacrimogeni, dalla polizia.Che cosa chiedevano quei bambini?Chiedevano di poter lavorare. O più esattamente: intendevano protestare contro il nuovo Código de la Niñez y Adolescencia, una legge che – allora già approvata da uno dei due rami del Parlamento Multinazionale – puntava ad approfondire i diritti allo studio ed alla salute di bambini ed adolescenti. Il tutto, ovviamente, confermando a 14 anni – in sintonia con tutte le convenzioni internazionali – l’età minima lavorativa.
Un’assurdità? Un’aberrazione? In parte, certamente. Ma molto meno di quel che d’acchito appare. Quei bambini erano, infatti, parte dei 15.000 minori membri della UNATsBO (Unión de niños y adolescentes trabajadores de Bolivia), un’organizzazione sindacale (e non l’unica in America Latina) che difende i diritti – quello al lavoro incluso – dell’infanzia che lavora. E questo sulla base d’un paio di considerazioni che probabilmente farebbero rivoltare nella tomba il buon Dickens – per non dire di Marx ed Engels –, ma che non pochi giudicano, nel contesto boliviano, tutt’altro che peregrine. E che certo tali (tutt’altro che peregrine) sono state giudicate da Evo Morales, il primo presidente indio del paese, il quale, dopo gli incidenti del 17 dicembre, ha preso decisamente le parti dell’UNATsBO, appoggiando la richiesta di abbassare – come poi di fatto sancito dal nuovoCódigo – i limiti dell’attività lavorativa.
Una doverosa premessa prima di spiegare in che cosa consistano le ‘considerazioni’ di cui sopra. Stando ad una indagine condotta nel 2008, ci sono in Bolivia poco meno di un milione di bambini lavoratori. E la parte più brutalmente sfruttata di questa manodopera di riserva lavora, in condizioni molto prossime a quelle della schiavitù, nel profondo delle miniere, nelle piantagioni di canna da zucchero o in lavori domestici nelle città. Contro questo tipo di sfruttamento – che ovviamente nessuno appoggia – il governo boliviano ha conseguito, in sintonia con quanto accaduto in quasi tutto il resto dell’America Latina nell’ultimo decennio, rilevanti successi. C’è però un’altra e molto diffusa forma di lavoro infantile – quella che, soprattutto nelle aree rurali, si consuma nell’ambito famigliare – che secondo la UNATsBO ed una parte delle NGO che si occupano del problema sarebbe controproducente combattere con meri criteri proibizionisti (ovvero: proibendo ai bambini di lavorare prima dei 14 anni). E questo fondamentalmente per due ragioni. Pratica la prima e, per così dire, ‘filosofica’ la seconda.
La prima (non dissimile, nella sostanza, da quella usata in favore della legalizzazione della prostituzione) è in sintesi questa: un divieto sancito dalla legge non solo non affronta, in sé, le cause del fenomeno, ma le nasconde e moltiplica. Accettare la realtà del lavoro minorile significa, in effetti, renderlo ‘visibile’ e più facilmente attaccabile con misure adeguate. Ovvio esempio (dalla nuova legge fatto proprio); obbligando le famiglie a mandare a scuola il figlio-lavoratori. La seconda: il lavoro infantile non solo è una necessità per famiglie povere, ma è anche, da sempre, parte di quella ‘cultura comunitaria’ che la Costituzione del 2006 con forza difende e promuove come retaggio di civiltà fino a ieri marginalizzate ed umiliate. In sostanza: il lavoro è in questo caso, per i bambini, non una forma di sfruttamento, ma una forma di educazione, uno strumento di crescita e di partecipazione alla vita della comunità.
Giusto? Sbagliato? La verità sta, probabilmente in qualche parte dello spazio che separa questi due estremi. Molto prossima al giusto per Evo Morales, la UNATsBO e non poche ONG. Molto a ridosso dello sbagliato per la Organizzazione Internazionale del Lavoro, per gran parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e per tutti coloro che, come il sottoscritto, pensano che il lavoro minorile sia, in tutte le sue espressioni, il primo strumento di riproduzione della povertà.
Di certo c’è questo: l’abbassamento dell’età lavorativa è, in Bolivia, parte – la parte oscura, se vogliamo – d’una idea politica. La stessa idea, affascinante e molto ambiguamente ‘rivoluzionaria’, che ha fatto della Bolivia uno Stato Plurinazionale, formato da diverse etnie le cui culture, legalmente o di fatto, diventano legge. Anche quando significano lavoro minorile o, volendo toccare un altro ed ancor più dolente punto, la pratica del linciaggio. Una storia appena cominciata. E che ancora stenta ad incontrare il suo punto d’equilibrio.
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