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martedì 27 febbraio 2018

MILANO, PERIFERIA...



da  https://www.internazionale.it/reportage/marina-forti/2018/02/26/lavoro-milano-elezioni




Se si esce da Milano verso nord la città sembra non finire mai. Superando Sesto San Giovanni e quel che resta delle acciaierie Falck, si può guidare per ore in un paesaggio fatto di uffici luccicanti e capannoni industriali, quartieri residenziali, rotonde, svincoli, centri commerciali.
Questo paesaggio è il cuore dell’area metropolitana più grande d’Italia, una zona che dalla periferia milanese si estende a nordest fino alle porte di Bergamo, o ancora verso Saronno, Busto Arsizio, fino a Gallarate e all’aeroporto di Malpensa a nordovest. Attraversa quattro province – Milano, Monza-Brianza, Lecco, Varese – ma qui nessuno dubita che si tratti di un’area metropolitana integrata.
Uno studio dell’università di Milano-Bicocca fotografa la sua complessità: 858 comuni, sette milioni e mezzo di abitanti, ottomila chilometri quadrati di superficie. Da qui ogni giorno più di 700mila persone prendono un treno suburbano o regionale per andare a lavoro.
È anche la zona più ricca e produttiva d’Italia, all’interno di una regione che da sola produce circa il 22 per cento del prodotto interno lordo nazionale, dove da alcuni anni l’economia è in crescita e la disoccupazione supera appena il 7 per cento, contro una media nazionale del 12per cento – anche se resta comunque il doppio rispetto a dieci anni fa, quando è cominciata la crisi.
Per molti aspetti, è un laboratorio dove si sperimentano modelli economici, politici e sociali che il resto del paese farebbe bene a osservare con attenzione perché sono in grado di influenzare anche le competizioni elettorali. È qui che si sta diffondendo sempre di più il lavoro precario e “uberizzato” (ci ritorniamo), è qui che si osserva la difficoltà della politica di governare dinamiche sempre più globali ed è qui che sono nati sia il leghismo sia il berlusconismo, che ora, dopo molte metamorfosi, sono tornati a essere protagonisti.
Più lavoro, più disuguaglianza
Capannoni e piccole fabbriche dominano il panorama. Solo tra Milano, Lodi e Monza-Brianza ci sono circa 360mila imprese attive (anche se circa metà sono imprese individuali, resta un bel numero). Stando a Confindustria i fatturati sono in crescita, i punti di forza sono l’industria meccanica di precisione e l’artigianato del mobile, le piccole imprese di alta tecnologia, meccanica o macchinari industriali, gli elettrodomestici nel varesotto e naturalmente i servizi, dal “terziario innovativo” alla logistica.
“Sono numeri da distretto industriale di alto livello”, osserva Carlo Abbà, ingegnere elettronico e manager, ex assessore alle attività produttive nella giunta di centrosinistra che ha guidato Monza fino al 2017 e candidato alle elezioni regionali nella lista Gori presidente. “In questi numeri si nascondono grandi disuguaglianze”, continua. “Vanno molto bene le aziende che si sono inserite in una filiera internazionale e lavorano per l’export, o quelle che chiamo ‘multinazionali tascabili’: piccole, attive in un settore specifico ma con operazioni su scala globale. Per queste imprese la ripresa c’è stata, casomai ora hanno il problema di non trovare addetti con le qualifiche giuste”.
Al contrario, “la crisi ha falcidiato le piccole e piccolissime imprese che lavorano per il mercato italiano, magari nella filiera di aziende più grandi che sono in difficoltà o hanno chiuso. O che non sono al passo con le innovazioni. Oppure che hanno produzioni di qualità ma sono troppo piccole per resistere in un mercato globale, e non hanno saputo o potuto mettersi insieme ad altre. Sono le imprese che con l’economia globalizzata hanno perso, e hanno il dente avvelenato”.
È a loro che si rivolge la Lega di Matteo Salvini quando accusa l’Europa di “difendere i banchieri” e di “massacrare gli artigiani” e i piccoli imprenditori.
La difficoltà di competere in un mercato sempre più globale riguarda anche i lavoratori . “C’è una frattura: chi ha le competenze giuste non ha difficoltà, gli altri restano indietro”, spiega Abbà. “Certe mansioni sono scomparse. Il magazziniere, il commesso, sono stati sostituiti da una macchina. Chi non ha saputo riconvertirsi è rimasto a terra. Si capisce come questo crei malcontento, paure, ostilità”.
Più lavoro, più precarietà
“La Lombardia resta una regione industriale, ma la situazione è molto cambiata”, dice Claudio Mezzanzanica, imprenditore e candidato per Liberi e uguali al senato nel collegio Varese-Gallarate. Lo incontro in un autogrill vicino a Saronno, 28 chilometri da Milano, allo snodo tra l’autostrada e la provinciale: all’ora di pranzo sembra una mensa aziendale dove si riversano gli addetti delle vicine zone industriali.
Per tagliare i costi, spiega Mezzanzanica, le imprese hanno ormai scorporato la produzione vera e propria dalla gestione commerciale, la contabilità, il marketing, spesso perfino il design e la ricerca. “Tutte queste funzioni sono per lo più esternalizzate, cioè appaltate ad aziende con centinaia di addetti, contabili, ricercatori, che si trovano a Milano. Qui nell’hinterland restano la residua industria manifatturiera e le attività di retroguardia, i magazzini, la logistica, il lavoro più dequalificato”.
Anche il lavoro ha subìto una metamorfosi diventando sempre più precarizzato. “Questo riguarda sia i neolaureati che lavorano per le aziende milanesi con contratti a termine o di consulenza, sia gli addetti alla logistica”, continua Mezzanzanica. “Con la differenza che i primi si sentono moderni e in ascesa, mentre gli altri si riconoscono penalizzati”.

“Il tessuto produttivo delle piccole imprese è ormai esploso”, dice Lelio Demichelis, docente di sociologia economica all’università dell’Insubria a Varese. E questo scomporre la produzione in segmenti appaltati all’esterno, dice, “è possibile grazie a internet. Una volta era necessario avere tutto nella grande fabbrica per gestire in modo integrato la produzione; oggi il web permette di gestire diversi pezzi di attività”.
Nell’era della produzione frammentata anche il lavoro diventa sempre più flessibile. È una progressiva “uberizzazione” del mondo del lavoro, spiega Demichelis: il lavoratore è chiamato solo quando serve. “Ti fanno credere di essere un lavoratore indipendente. In realtà dipendi da un committente che stabilisce turni, orari, ritmi di lavoro, tutto attraverso un algoritmo”.
Lavorare per Amazon
Per capire cosa significhi lavorare in questo modo mi sposto a Origgio, piccolo comune a due chilometri da Saronno. Nel minuscolo centro, di fronte all’unico bar, c’è la bella villa Borletti del diciottesimo secolo, che il comune ha assegnato a un’associazione culturale. Nell’area industriale invece spicca il capannone biancastro di Amazon Logistics.
Riesco a parlare con due corrieri che lavorano per ditte che consegnano i pacchi dell’azienda statunitense (driver, nel gergo aziendale). Parliamo lontani dal magazzino perché, dopo le agitazioni sindacali della scorsa estate, la pressione di Amazon sui lavoratori è forte.
Entrambi preferiscono rimanere anonimi. “Siamo governati da un algoritmo”, dice il primo. “La mattina alle 6 vado a prendere il furgone della mia azienda e poi raggiungo il magazzino di Amazon. Lì mi assegnano il giro delle consegne da fare, lo chiamano route”, spiega. Solo a questo punto (sono quasi le 9) cominciano a contare le sue ore di lavoro. “Il giro prevede dalle cento alle 130 consegne, a volte anche di più. Secondo l’algoritmo che lo ha impostato dovrei impiegare tre minuti a consegna, per un totale di otto o nove ore, ma l’algoritmo è sbagliato”.

Non tiene conto di alcuni dettagli: “Non calcola che forse il destinatario non c’è e io dovrò ripassare. Che un camion della nettezza urbana si può mettere di traverso e farmi perdere tempo, che tre minuti spesso non bastano per parcheggiare, suonare un citofono, consegnare e ripartire. E così le nove ore diventano molte di più. La verità è che cominci la mattina e non sai quando torni a casa”. Per stare negli orari, dice, uno finisce per calcare sull’acceleratore o saltare il pasto: “Ma io non sono un robot”.
Il suo collega spiega che lavora a tutti gli effetti per Amazon, ma è stipendiato da un’altra azienda, secondo un sistema di appalti e commesse tipico del settore della logistica:

"È Amazon che organizza il mio lavoro fin nei minimi particolari. Ogni mattina mi danno un apparecchio geolocalizzato collegato a un computer su cui è preimpostato il mio giro e che segnala all’azienda dove sono, se mi sono fermato, a che punto sono le consegne. Se vedono che sono indietro mi chiamano: ‘Che succede? Accelera’. Misurano il rendimento e il tasso di consegne mancate. Finisce che è colpa mia se non trovo il destinatario."

Parla di “ansia da prestazione”. Per Amazon “noi siamo un numero”, insiste. “Ma l’algoritmo funziona per i robot, non per gli esseri umani”.
La primavera scorsa hanno fatto notizia le prime agitazioni nei magazzini di Amazon Logistics. Alla fine i lavoratori sono riusciti a strappare un accordo: nelle quattro aziende che consegnano i pacchi per conto di Amazon si applicherà il contratto nazionale del settore dei trasporti, e un certo numero di precari e partite iva sarà regolarizzato.
Ma l’accordo riguarda solo i lavoratori a tempo indeterminato, e non quelli chiamati durante i picchi stagionali, a Natale e a luglio. “Ci sono giornate in cui Amazon chiede cinquanta furgoni, e altre in cui ne chiede duecento”, spiega un corriere. “La mia azienda ha circa 250 dipendenti a tempo pieno, altri sono part-time, mentre nei momenti di forte richiesta prende degli interinali”, cioè persone chiamate a giornata.
Per questo anche tra i corrieri ci sono grandi disparità. Tutti sono sottoposti a ritmi massacranti, ma chi ha un contratto a tempo indeterminato ha un salario fisso e da quando si applica il contratto di categoria può guadagnare 1.300-1.400 euro al mese. Gli altri sono pagati circa otto euro all’ora e di rado superano i 900 euro al mese. “Eppure è assurdo”, dice uno dei due corrieri incontrati a Origgio, “il lavoro c’è e continua ad aumentare, Amazon è una delle aziende più ricche al mondo, ma ci vogliono sempre più precari”.
Nuovi strumenti di tutela
Lo scorso dicembre la federazione dei lavoratori dei trasporti (Filt-Cgil) ha firmato un nuovo contratto nazionale per i lavoratori della logistica, trasporto merci e spedizioni, e per la prima volta nella categoria sono comparsi gli addetti alle consegne rapide in bicicletta, chiamati rider.
Luca Stanzione, segretario della Filt-Cgil alla camera del lavoro di Milano, racconta che le assemblee con i lavoratori sono state complicate: “Ci sono volute decine di incontri, prima o dopo il turno di lavoro, ma alla fine abbiamo raggiunto diecimila persone”. Il contratto nazionale vincola solo le imprese che l’hanno firmato, certo, ma segna un riconoscimento: “Ormai nessuno potrà dire che questi sono solo lavoretti e che non esiste un contratto”.

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Via Salomone, periferia est di Milano. Nate negli anni settanta, le “case bianche” si trovano in un forte stato di abbandono. Sono stati stanziati sei milioni di euro per riqualificarle. 



Bisogna inventare nuovi strumenti di tutela, insiste il segretario della camera del lavoro di Milano, Massimo Bonini. “È vero che nell’area metropolitana della Lombardia la disoccupazione è più bassa che nel resto del paese. Ma i neoassunti guadagnano meno e hanno contratti più precari e discontinui, e tra un contratto e l’altro non c’è chi garantisce le coperture sociali”, osserva Bonini, aggiungendo che la disoccupazione giovanile sfiora il 30 per cento, mentre nella fascia tra i 15 e i 35 anni è salita dal 6 al 13,3 per cento.
“Sono le questioni che preoccupano tutti: il lavoro, le imprese che scompaiono, come ricollocare i lavoratori sostituiti dalle macchine, come dare nuove protezioni nell’era del lavoro on demand”, dice Bonini. “Ma il lavoro è il grande assente nella campagna elettorale, di questo la politica non parla, tutto è puntato sull’ossessione per i migranti”.
Emergenze inventate
Migranti e sicurezza sono le parole chiave di questa campagna elettorale. Certo, la Lega di Matteo Salvini dice di voler tagliare le tasse alle imprese e il candidato governatore della Lombardia, l’ex sindaco di Varese Attilio Fontana, promette incentivi per riportare a casa le aziende che delocalizzano in Svizzera (ammiccando alle 65mila persone che ogni giorno da qui vanno a lavorare in Canton Ticino). Ma il baricentro dei discorsi politici ruota perlopiù sugli immigrati.
A pochi chilometri da Saronno c’è Busto Arsizio, provincia di Varese: è qui che a gennaio un gruppo di “giovani padani” ha dato fuoco a un pupazzo con la faccia della presidente della camera Laura Boldrini. Sulle frequenze di Radio Padania non c’è minuto in cui non si parli di “invasione”. Le sole notizie sono fatti di cronaca nera in cui i criminali sono invariabilmente stranieri.
I leader della Lega parlano di “emergenza clandestini”, promettono espulsioni. Fontana, paventa una “sostituzione etnica” e promette di difendere la “razza bianca”. Invasione, sicurezza, criminali sono le parole ricorrenti anche sui social network.
“Qui tutti si conoscono”, mi dice una giovane bibliotecaria in un piccolo centro del gallaratese, spiegandomi che la comunicazione politica passa attraverso alcune pagine Facebook, piene di invettive: “È sempre noi contro loro, noi la destra e loro la sinistra che hanno permesso l’invasione dei migranti”.
Ed è paradossale, visto che la città metropolitana di Milano è quella dove la popolazione immigrata non europea è più stabile, dove oltre metà dei 470mila permessi di soggiorno sono di lungo periodo e dove il tasso di attività è il più alto (dopo Roma). Nelle fabbriche o negli uffici, la presenza di persone di vari paesi è un dato di fatto. “Non c’è conflitto”, osserva Luca Stanzione. Né tra operai, né quando un piccolo imprenditore deve scegliere se assumere un immigrato. “Tuttavia, tornati a casa, gli italiani si scagliano contro gli stranieri”.
“È facile fare leva sulle paure. I dati di fatto dicono che la criminalità è in calo e l’economia dà segni di ripresa, ma l’ossessione comune è la sicurezza. Così la presenza di migranti e profughi diventa la questione dominante, ed è questione di facilissima presa”, dice Carlo Abbà.
Le conseguenze di un’ossessione
Per comprendere le conseguenze di questa ossessione, bisogna tornare indietro e raggiungere il quartiere San Rocco, nella periferia di Monza.
Sessant’anni fa qui arrivavano gli immigrati dalla Basilicata, dalla Campania, dalla Sicilia, per riempire vecchie case di ringhiera e andare a lavorare alla Falck, alla Breda, o nelle piccole fabbriche sparse tra Milano e la Brianza. Oggi le case di ringhiera sono scomparse e gli immigrati arrivano dai paesi a sud del Mediterraneo. Lo testimonia la macelleria halal che espone le stoviglie di coccio decorato per la tajine, lo stufato di carne e verdure come si usa in Marocco. È uno dei pochi negozi a San Rocco, dove sopravvivono un bar e una ferramenta e poco altro tra la chiesa e la banca. I passanti sono rari.
Entro nella biblioteca comunale, proprio sotto la scuola elementare. Trovo una grande sala di lettura con i tavoli rotondi davanti alle vetrate, la saletta per i bambini con poster colorati alle pareti. La zona centrale, delimitata da scaffali di libri per ragazzi, il lunedì mattina è occupata dal “laboratorio manuale”: un gruppo di donne sta ritagliando fogli colorati per decorare piatti e piastrelle. Chiacchierano un po’ in arabo un po’ in italiano, hanno portato un dolce e il tè. Quasi tutte portano il foulard.

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Le ex acciaierie Falck a Sesto San Giovanni, Milano, febbraio 2018. Nell’area sono stati ritrovati amianto, idrocarburi e piombo. Il progetto di riqualificazione è ancora in corso

Non è l’unico momento di socialità ospitato dalla biblioteca: dalla bacheca apprendo che c’è un gruppo di nonne che fanno la maglia, un cineforum, un gruppo di lettura. Prima di Natale è stato rappresentato un racconto di Giufà, personaggio della tradizione giudaico-spagnola che ha varianti conosciute in Sicilia, nel Maghreb e in Turchia: ma a San Rocco non ci sono abitanti turchi quindi l’hanno recitato in siciliano, italiano e arabo marocchino.
Eppure è proprio qui che l’anno scorso è quasi scoppiata una rivolta contro un gruppo di profughi. È successo quando la prefettura di Monza ha deciso di sistemare i nuovi arrivati in un condominio ai margini del quartiere, in via Asiago, tra la ferrovia e il viale di grande scorrimento Milano-Monza. Una trentina di residenti italiani ha visto arrivare centoventi persone dalla Nigeria, dal Ghana, dall’Eritrea e dall’Etiopia. Famiglie con bambini e molti giovani in attesa di risposta alla loro richiesta di protezione umanitaria internazionale, senza nessuno di quei servizi di integrazione che pure erano previsti.
“Gli italiani si sono lamentati”, racconta Cherubina Bertola, ex vicesindaca e assessora ai servizi sociali, oggi candidata per il Pd al senato nel collegio di Monza. “I nuovi arrivati passavano le giornate in cortile e gli abitanti dicevano che non osavano più mandare i bambini fuori a giocare. Dicevano che quelli non sapevano fare la differenziata, che di notte parlavano al telefono”. La rabbia è montata.

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