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sabato 20 settembre 2014

SCOZIA. UN RISULTATO DA LEGGERE IN PROSPETTIVA.

Per onestà, reputo giusto aggiungere, alle giuste motivazioni esterne, anche una pecca del fronte indipendentista. Secondo me si sono trovati impreparati davanti ai prevedibili diktat degli organismi del Capitale (Commonwealth e UE), soprattutto sulla moneta da adottare e sul sistema bancario, e hanno mostrato risposte ondivaghe ed empiriche: rimanere nella sterlina ma Londra non voleva, entrare nell'euro senza enrare nell'UE, cosa impossibile e svantaggiosa, o moneta propria se la situazione non consentiva sbocchi. A me pare che ci sia bisogno di affinare ulteriormente le armi della teoria, e ancor più per questo penso che sia un risultato da valutare in prospettiva.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/scozia-e-se-in-realta-avesse-comunque-vinto-il-si/
Al referendum hanno prevalso gli unionisti ma il fronte indipendentista è cresciuto molto rispetto al passato soprattutto tra i giovani e tra gli strati popolari (operai, precari e disoccupati). Ora in arrivo la Deregulation di Cameron anche se in gioco non c’è il semplice nazionalismo: da Glasgow è venuta una forte critica al modello sociale ed economico che domina in Europa.
di Guido CaldironAlla fine, il secco quesito «Sei d’accordo col fatto che la Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?» non ha convinto la maggioranza dei poco più di 4 milioni di cittadini residenti nelle terre scozzesi, quale che fosse la loro nazionalità, che erano stati chiamati ad esprimersi: il “no” ha prevalso sul “si” con il 55,3% contro il 44,7% dei consensi.
Appresa la notizia, a Downing Street hanno tirato un gran sospiro di sollievo, il premier conservatore David Cameron rischiava di giocarsi l’intera carriera su questo, e molto soddisfatti sono apparsi anche i vertici della Ue che, senza dirlo esplicitamente, temevano l’effetto domino in tutti gli altri paesi dell’Unione, e sono molti, in cui vanno crescendo ogni giorno di più le spinte separatiste. Alla fine, invece, lo status quo ha trionfato: resta intero il Regno Unito e anche l’Europa politica non perde neppure un pezzetto.
Fin qui la prima fotografia dell’esito del referendum scozzese che tanta attenzione ha destato a livello internazionale: perfino Obama si era detto preoccupato e addirittura uno dei suoi predecessori alla Casa Bianca, Clinton - che però, dettaglio biografico curioso, vanta anche antenati tra i protestanti dell’Irlanda del Nord, tradizionalmente unionisti - era sceso apertamente in campo a favore del “no”.
Dal canto suo, il leader indipendentista Alex Salmond, premier scozzese e da trent’anni alla testa dello Scottish National Party, principale promotore del referendum, ha ammesso la sconfitta, ma ha già annunciato che ci riproverà, prima o poi. Il punto vero, al di là delle reazioni e dei commenti del momento, è però quello di capire che cosa lascia dietro di sé questo voto e se, in una prospettiva più lunga di quella della contingenza politica immediata, le istanze della separazione della Scozia dal Regno Unito siano davvero uscite sconfitte dalle urne. E soprattutto se, ben oltre le sorti delle sole isole britanniche, il referendum abbia interrogato o meno il futuro dell’intera Europa e le politiche che oggi sembrano guidarla.
Fuori dal coro di chi parla di una vittoria storica del “better togheter”, il meglio insieme che riuniva tutti i maggiori partiti britannici - Conservatori, laburisti e liberal-democratici - nel fronte del “no”, nel commentare i risultati del voto lo storico scozzese Keith Dixon, sottolinea come la progressione dell’opinione indipendentista sia stata spettacolare lungo l’intera campagna elettorale: «All’inizio il “si” non raccoglieva che intorno ad un quarto degli elettori, ma nel referendum ha sfiorato il 45%: ha fatto un balzo in avanti sia qualitativo che quantitativo». E in effetti, su circa l’84% degli aventi diritto che si è recato ai seggi, i favorevoli alla separazione da Londra hanno raggiunto e superato il milione e mezzo.
Non solo, un sondaggio realizzato dall’autorevole LordAshcroftPolls all’uscita dai seggi, indica come ben il 71% degli elettori più giovani, addirittura compresi tra i 16 e i 17 anni - l’età minima richiesta per votare era proprio di 16 anni -, abbiano scelto l’indipendenza. Lo stesso istituto demoscopico, registra poi un altro dato di grande interesse, vale a dire che il 37% degli elettori che si sono dichiarati simpatizzanti laburisti abbiano votato si, malgrado le consegne contrarie del loro partito di riferimento. Un segnale che non può che preoccupare i vertici del New Labour che in Scozia hanno una delle loro storiche roccaforti e da cui nelle ultime elezioni hanno inviato 49 deputati a Westminster.
Inoltre, anche il contesto socio-economico sembra aver giocato non poco nell’esito del voto: se ad Edimburgo, capitale amministrativa del Paese, hanno prevalso gli unionisti, a Glasgow, univa vera metropoli scozzese toccata profondamente dalla crisi economica, hanno vinto gli indipendentisti. Più in generale, mentre la middle-class si è fatta convincere dalle sirene di Londra, tra operai, precari e disoccupati - per altro coloro che avrebbero dovuto mostrarsi più sensibili al tema, più volte evocato da Cameron, di una difficile tenuta del sistema sanitario e di welfare in una ipotetica Scozia indipendente - il “si” ha nettamente prevalso.
Se Alex Salmond parla ora dell’indipendenza come di «un processo, non un singolo evento», mettendo in evidenza come la «nuova generazione potrebbe farcela» - la Scozia ha già votato due volte per simili quesiti, nel 1979 e alla fine degli anni Novanta, facendo registrare un crescente apprezzamento delle tesi indipendentiste e conquistando nel 1997 un parlamento locale, in gran parte autonomo da quello di Londra -, David Cameron si appresta ora a varare le misure proposte in extremis per intercettare una parte dell’opinione pubblica scozzese: un’ampia devolution economica e un travaso quasi totale di poteri dal Regno Unito all’assemblea di Edimburgo in materia di tasse, welfare, sanità e lavoro e soprattutto di destinazione dei proventi risultanti dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Mare del Nord. Devolution che riguarderà anche Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra, cambiando per sempre il volto istituzionale dell’intero paese.
Ma, più in là di questo - prima di pensare al referendum gli indipendentisti avevano chiesto proprio una “devolution max” - è il clima stesso in cui si è arrivati al voto che ha visto emergere un tema il cui portato va ben al di là delle frontiere scozzesi o britanniche. Se l’idea di puntare tutto sulla secessione può, e a ragione, evocare il caso di altre regioni “ricche” d’Europa - nel caso della Scozia si tratta però di un benessere cui beneficiano decisamente poco gli abitanti dei quartieri popolari di Glasgow o Edimburgo - che intendono tagliare i loro vincoli di solidarietà “nazionali”, i toni assunti dal dibattito in questo caso hanno evidenziato piuttosto la rivendicazione di un’altra politica, rispetto a quella all’insegna dei tagli e dell’austerità condotta dal governo conservatore di Londra. «Alla fine, in questo referendum - ricorda ancora Keith Dixon - nel campo degli indipendentisti è emersa soprattutto la richiesta di un nuovo modello economico e sociale. Più che di nazionalismo, si è parlato di socialdemocrazia alla scozzese, di come far sì che le risorse, ad esempio quelle frutto del petrolio, raggiungano anche i disoccupati e chi vive di sussidi pubblici».
Da questo punto di vista, come segnalava già prima del voto lo storico dell’Università di Edimburgo, Tom Webster, per molti scozzesi si trattava di dare l’ultima spallata «all’eredità di Margaret Thatcher, le cui politiche di deindustrializzazione prima e di tagli poi non sono mai state contraddette, negli ultimi decenni, nemmeno dal New Labour». Dalla Scozia che pagò un altissimo prezzo sociale, già alla fine degli anni Settanta, a quell’annuncio delle politiche ultraliberiste oggi divenute norma in nome del rigore dei conti, è arrivato così un segnale in controtendenza. Certo, l’indipendenza non è arrivata, ma la sfida non ha perso niente del suo interesse. E pensare che, lasciando ben inteso da parte kilt e cornamuse, il portato di questo referendum si fermasse al vallo di Adriano è pura miopia. «Da Glasgow è venuta una forte critica al modello sociale ed economico che domina in Europa», taglia corto Dixon, Chissà se altrove se ne renderanno conto.


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